martedì 16 dicembre 2008

Filippo Facci, Piero Sansonetti e la riforma della giustizia

Alcuni giorni fa m’è capitato di assistere ad un dibattito televisivo su La7. Non l’ho guardato a lungo, giusto dieci minuti e a trasmissione già in corso. Nel momento in cui ho acceso la televisione stava parlando Piero Sansonetti. Il direttore di Liberazione, in sintesi, diceva che reputava poco interessante la discussione circa la riforma della giustizia. Inoltre, replicando probabilmente a una tesi proposta precedentemente, sosteneva che gli apparivano più gravi gli attacchi portati al sindacato, in particolar modo alla CGIL, da chi ne sostiene l’inutilità o la dannosità.
A questo punto interveniva Filippo Facci, giornalista de Il Giornale e, da quanto ho capito, collaboratore di Mediaset. Per riportare la discussione sul tema della giustizia, apriva il suo intervento dicendo che la presenza anche solo di un cittadino innocente in galera a causa di storture del sistema giudiziario gli pareva insopportabile e, soprattutto, motivo sufficiente per ritenere che la riforma fosse priorità assoluta.
Raramente mi sono trovato così combattuto di fronte ad una frase. In linea di principio, quella di Facci è un’affermazione ineccepibile, da sottoscrivere pienamente. Al limite se ne potrebbe discutere in termini filosofici: la giustizia umana è ben diversa da quella divina (per chi crede in quest’ultima) e non può prescindere da un tasso fisiologico di fallibilità. Questo però non toglie che la presenza in carcere di innocenti (cui aggiungerei le persone in attesa di giudizio) è cosa intollerabile. In fondo, l’unica e vera e fondamentale barriera fra garantismo e giustizialismo sta nel valutare i due pericoli fondamentali dell’amministrazione della legge (mandare in galera un innocente o lasciar libero un colpevole) ritenendo più grave il primo, in quanto comporta un danno irrisarcibile per chi vi è coinvolto. Inoltre, la consapevolezza di quanto sia inevitabile quel tasso di fallibilità non rende vana la ricerca di ogni mezzo affinché la “macchina giustizia” proceda nel modo più imparziale possibile, confinando la possibilità di errori ai soli limiti della natura umana, e non a vizi insiti nel sistema o a sperequazioni del giudizio.
Ferme restando queste riflessioni, non posso nascondere che se a parlarmi di una necessità della riforma della giustizia è il centrodestra mi viene più di un dubbio, e non si tratta di pregiudizi.
Mesi fa ho intervistato il padre di Giuseppe Bianzino. Chi propone oggi la riforma della giustizia pensa, come me, che suo figlio in carcere non solo non doveva morirci, ma neppure finirci? Pensa sia necessario provvedere alla depenalizzazione di certi reati o crede si debbano perseguire, ad esempio, i writers? Che opinioni ha del reato di devastazione e saccheggio o del principio della compartecipazione psichica (reato e principio utilizzati dalla magistratura per i fatti di Genova 2001 o quelli di Milano dell’11 marzo 2006)? Un elenco tutt’altro che esaustivo, potrei proseguire a lungo: si tratta di domande a mio avviso fondamentali, ma allo stato totalmente rimosse dal confronto “riforma sì – riforma no” che si è acceso in merito all’azione della magistratura.
Tutto questo, ripeto, non inficia l’enunciazione di principio avanzata da Facci in quella trasmissione televisiva. Resta però l’impressione che dietro il dibattito sulla necessità di una riforma della magistratura stiano semplicemente esigenze di controllo di uno dei poteri dello Stato, nell’intento di sottoporre la giustizia ad una supervisione (nel migliore dei casi) o ad un controllo subordinato (nel peggiore) che non la renderanno più equa, ma solo meno indipendente. In quest’ottica è interessante chiedersi se la presenza di un innocente in galera sia davvero inaccettabile, o se lo diventi in base a specificità dell’arrestato o a contingenze politiche del momento.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 19 novembre 2008

Diaz: scrive Canterini, scrive Manganelli…

Quando ho scritto questo articolo non era ancora stata diffusa la lettera che Vincenzo Canterini ha inviato agli uomini del Reparto mobile condannati, come lui, per i fatti della Diaz. Una lettera intrisa di retorica, inquietante, ricca di messaggi ambigui. Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica del 15 novembre, ha giustamente parlato di “una rivendicazione di uno spirito di corpo omertoso”.
Più interessante della lettera è l’intervista che Canterini ha concesso a Carlo Bonini (sempre su Repubblica del 15 novembre). In questa occasione il poliziotto che al G8 guidava il VII Reparto mobile ribadisce concetti già espressi in un’altra intervista (pure questa su Repubblica, 15 giugno 2007): riconosce la violenza dell’irruzione, parla espressamente di “macellai di quella notte”, rinnova il concetto di “macedonia di polizia” operante nella scuola, ma esclude responsabilità proprie e degli uomini ai suoi ordini. Ormai credo sia chiaro che l’atteggiamento di Canterini nel corso del processo, decisamente più ciarliero (fuori e dentro l’aula) di altri imputati, fosse il tentativo di allargare il cerchio delle responsabilità, in modo che non ricadessero esclusivamente sui propri uomini.
Spiego dunque meglio la mia impressione sulla sentenza, con cui ho chiuso l’altro articolo. Al di là di una difesa corporativa “a 360 gradi”, credo che la strategia delle forze dell’ordine fosse quella di identificare da subito “i sacrificabili”, ossia quegli elementi per cui si poteva accettare una condanna, in modo da accontentare, almeno parzialmente, l’opinione pubblica e contemporaneamente salvaguardare l’immagine complessiva della polizia. Una strategia ovviamente più articolata, ma che sostanzialmente si proponeva in prima battuta di portare a casa il massimo risultato, e in subordine di potersi allineare alla parola d’ordine “il pestaggio è stato opera di pochi esaltati, i quali per di più hanno saputo ingannare i vertici della Polizia”. Canterini non sembra accontentarsi di questo esito.
La frattura, o per lo meno la contraddizione, aperta all’interno delle forze dell’ordine non è certamente l’elemento più interessante emerso dal processo Diaz, ma sarebbe errato liquidarlo come cosa che non ci riguarda. Essa attiene, è vero, unicamente a rapporti di forza interni agli apparati dello Stato, che nulla hanno a che vedere con sincere autocritiche circa la gestione dell’ordine pubblico a Genova, ma andrebbe evidenziata maggiormente: da una piccola fessura, a volte, può nascere una crepa più vistosa.
Nel frattempo, anche Manganelli scrive: sembra che la tentazione ciarliera sia venuta a molti, dopo sette anni di silenzio. Una lettera, quella dell’attuale capo della Polizia, di poco migliore di quella di Canterini (ma che a mio avviso parte anche dalle provocazioni di quest’ultimo), in cui unico elemento blandamente positivo è una dichiarazione di intenti, un mettersi genericamente a disposizione “su quel che realmente accadde a Genova … nelle sedi istituzionali e costituzionali”. Affermazione che causa un certo stupore (evidentemente il tribunale non è stato ritenuto, per sette lunghi anni, sede “istituzionalmente e costituzionalmente” corretta per l’accertamento della verità su quei giorni, o almeno sulla Diaz) e che, pur essendo di una vaghezza sconcertante, ha già portato al plauso di Veltroni. Il leader del PD, con lo stesso spirito critico di uno zerbino, si affida anima e corpo alle assicurazioni del capo della Polizia, testimoniando ancora una volta lo stato di totale sudditanza della politica rispetto ai vertici delle forze dell’ordine.
Se Manganelli volesse davvero dare un segnale positivo a quanti sono rimasti scandalizzati dall’operato delle forze dell’ordine a Genova, potrebbe molto semplicemente esprimersi pubblicamente su questioni concrete. Potrebbe, ad esempio, dire la sua opinione su proposte che da tempo sono state sollevate, in primo luogo dai due Comitati (“Verità e Giustizia per Genova” e “Piazza Carlo Giuliani”) che da anni si adoperano affinché la memoria di Genova non cada nel dimenticatoio. Solo per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale delle forze dell'ordine circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Il giorno in cui sentiremo Manganelli esprimersi su queste proposte potremo parlare davvero di un segno concreto. Fino ad allora l’entusiasmo frettoloso di Veltroni sembrerà solo un gioco delle parti in cui il leader del PD e il capo della polizia si spalleggiano l’un l’altro, nel tentativo di accontentare l’opinione pubblica con asserzioni di principio che resteranno vuote e prive di sbocchi pratici.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 14 novembre 2008

Sentenza Diaz: un commento e un particolare

Ho sentito accomunare la sentenza sulla scuola Diaz a quella su Bolzaneto, con giudizi analogamente severi. In realtà mi sembra miope accomunare i due esiti in una valutazione negativa di uguale livello. La sentenza su Bolzaneto, pur con molte ombre, riconosceva in sostanza la gravità dei fatti, condannando la figura apicale (Antonio Biagio Gugliotta, l'ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma) con motivazioni nette. Indipendentemente da considerazioni sulle assoluzioni emerse anche in quel contesto o sulla lieve entità delle pene comminate, si scelse almeno di prescindere dalla logica delle “poche mele marce”. Nel giudicare la notte alla scuola Diaz il tribunale di Genova si è comportato in modo molto peggiore: che il verdetto abbia tracciato una così netta linea di demarcazione fra vertici decisionali e “manovalanza” è davvero sconcertante e avvilente.

Il verdetto Diaz è funzionale alla strategia messa in campo in questi anni dalle forze dell’ordine e da quei politici autonominatisi loro difensori “a prescindere”. Per la vicenda delle due molotov, falsamente prodotte come prove, sono condannati l’autista e il primo a farsene carico (Burgio e Troiani). Già l’anello successivo, il vice questore Bernardini, è assolto: pur potendolo considerare una figura non elevata, nella catena degli eventi costituiva un tramite troppo pericoloso verso livelli più alti. In altre parole, dovendo tranciare la linea decisionale che porta le due molotov, di mano in mano, all’interno dell’edificio, si è scelto di usare la forbice nel punto più basso possibile. Spingerla di poco più su avrebbe prodotto una catena di conseguenze difficile da arginare. Sostanzialmente, nell’affrontare la vicenda della costruzione delle prove false a carico dei presenti alla Diaz, i vertici delle forze dell’ordine si sono trovati di fronte a due alternative: riconoscersi complici di un gesto ignobile e illegale oppure passare per incompetenti. Hanno scelto la seconda opzione, e a questo punto il triste balletto delle due bottiglie, da Troiani in poi, diventa farsesco, potendolo definire criminale (stando alla sentenza) solo al livello più basso.

Passando all’altro nucleo di condannati (ossia il gruppo del reparto mobile di Canterini e del suo vice dell’epoca, Fournier, e relativi sottoposti) già molti hanno notato che la loro condanna equivale ad addebitare le violenze solo alla “mano pesante” degli agenti. Giusto e condivisibile, ma vorrei sottolineare un’altra particolarità. Fournier e Canterini sono due dei pochi imputati (anzi, se non ricordo male gli unici) a non essersi sottratti al processo, scegliendo di non avvalersi della facoltà di non rispondere e affrontando il confronto in aula. Canterini fu pure l’unico (vedi Ansa 11 febbraio 2003) a schierarsi a favore di una commissione d’inchiesta parlamentare. Fournier divenne famoso per aver riconosciuto la violenza dell’irruzione, coniando l’ormai famosa definizione di “macelleria messicana”, ed è anche uno dei pochi fra i protagonisti della Diaz a non essere stato promosso ma, al contrario, retrocesso a mansioni più umili (stando ad una notizia riportata dall’Espresso lo scorso ottobre).

Sia chiaro: non è necessario credere che questi distinguo siano ascrivibili a nobili intenti. Forse potrebbero essere stati solo il tentativo di approcciarsi diversamente al processo, nell’intento di allargare il cerchio delle responsabilità, stemperando così quelle personali (in questo senso Canterini fu molto chiaro in un’intervista concessa a Repubblica il 15 giugno 2007). Che l’atteggiamento di Canterini e Fournier, diverso da quello degli altri imputati, sia dovuto a motivazioni etiche o pratiche poco conta (in ogni caso si tratta di scelte legittime). Ma è inquietante notare come l’essersi discostati dalla linea di totale silenzio e totale omertà scelta dagli altri imputati (e avallata ad altissimi livelli) abbia avuto riflessi negativi per i diretti interessati. Il sospetto di una sentenza scritta da tempo, e in altro luogo rispetto al tribunale di Genova, a questo punto diventa davvero forte.



Francesco “baro” Barilli

mercoledì 15 ottobre 2008

Federico Aldrovandi: sentiti i periti del collegio difensivo

Il 10 ottobre il tribunale di Ferrara ha ascoltato gli esperti nominati dal collegio difensivo dei quattro poliziotti imputati di omicidio colposo per la morte di Federico Aldrovandi. I consulenti della difesa sono arrivati a conclusioni opposte rispetto a quelle pronunciate dai periti di parte civile. La “fame d’aria” che ha portato alla morte il giovane Aldro sarebbe da addebitare al mix di ketamina e morfina, mentre la colluttazione coi poliziotti e la posizione cui è stata costretta la vittima (prona e schiacciata a terra) sarebbero irrilevanti come cause o concause del decesso. La mattina del 25 settembre 2005 il ragazzo sarebbe morto in ogni caso, in via Ippodromo o dopo essere giunto a casa, indipendentemente dall’incontro con i quattro agenti sotto processo. In sostanza le perizie non confutano la violenza del controllo di polizia cui è stato sottoposto Federico (un vero pestaggio, stando alla testimonianza della testimone Anne Marie Tsegueu, già a suo tempo resa davanti al GIP), ma ne valutano l’ininfluenza ai fini del decesso.
Gli imputati hanno il diritto di mentire. Se anche così non stabilissero i principi del diritto (nemo tenetur se detegere, ossia a nessuno può essere chiesto di autoincriminarsi o comunque di confermare una propria responsabilità penale) basterebbe il buon senso a capirlo. Un imputato può decidere se deporre o meno, e in caso positivo la sua deposizione non è preceduta dal giuramento. Una simile possibilità ovviamente non è concessa, né dal buon senso né dalla legge, ai testimoni o a chi è chiamato ad altro titolo a collaborare al processo.
Questo forse rende particolarmente crudele la ricostruzione fatta al tribunale di Ferrara lo scorso 10 ottobre. Chi scrive non ha competenze tecniche o scientifiche per confutare specialisti sicuramente qualificati come quelli nominati dal collegio difensivo. Le loro teorie saranno sicuramente suffragate da elementi “di scienza”, da riscontri presenti in letteratura. E per smontarle non basta sottolineare quanto quelle teorie siano distanti, diametralmente opposte, a quelle di altri consulenti ascoltati sul caso.
Sicuramente il proliferare di informazioni sui fatti di sangue che colpiscono l’opinione pubblica ha reso più importante il ruolo che rivestono i periti, nella soluzione dei casi giudiziari. Sembra quasi che oggigiorno la scrittura della Giustizia sia ormai affidata alla fredda scienza. Ma laddove non arriva la competenza può però arrivare il ragionamento. A tale scopo si ricorda che le deposizioni a suo tempo rese in aula dagli imputati hanno descritto Federico come una forza scatenata della natura, capace di spezzare i manganelli con un calcio, un ciclone che ha travolto i quattro agenti minacciandone l’incolumità, fino ad essere “contenuto”. Una ricostruzione che, abbinata a quella dei consulenti della difesa, porterebbe ad un’ipotesi quasi fumettistica: un ragazzo di 18 anni, dopo aver assunto una specie di siero della forza, si sarebbe trasformato in una sorta di “incredibile Hulk”, per poi morire per le conseguenze negative della stessa pozione. Difficile a questo punto immaginare lo sdegno e la rabbia che devono aver provato i genitori di Federico Aldrovandi nell’ascoltare la ricostruzione fatta da chi ha sostenuto l’ineluttabilità della morte del loro figlio, quella mattina.
La prossima udienza è fissata per l’11 novembre. In calendario, gli ultimi consulenti nominati dal collegio difensivo. Poi, il 24 novembre, saranno i periti del tribunale a dirimere i contrasti fra le perizie di parte.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 10 ottobre 2008

Su “La piuma e la montagna” e “Cuori Rossi”

In questi giorni ho letto “Cuori Rossi” di Cristiano Armati (editore Newton Compton). Il libro è per molti versi simile a quello, in uscita quasi contemporanea, curato da me e Sergio Sinigaglia, La Piuma e la Montagna”.
La contemporaneità di uscita dei due volumi è totalmente casuale: io e Sergio non conosciamo Cristiano, non sapevamo che anche lui stava lavorando sullo stesso argomento (la storia e i sogni di chi ha pagato con la vita il suo impegno pubblico, in decenni di lotte, conflitti e grandi fermenti sociali). Tutto questo potrebbe far pensare a una “rivalità” fra i due lavori. Ebbene, almeno da parte mia, sottolineo subito di ritenere ottimo il lavoro di Armati, e di credere che i due libri si completino, trattando tematiche uguali secondo approcci diversi e quasi complementari.
“Cuori Rossi” è, come si intuisce già dal titolo, una risposta al “Cuori Neri” di Luca Telese, uscito se non erro tre anni fa. Un libro storico-documentale, una replica (doverosa, legittima, comprensibile e condivisibile) all’operazione editoriale del suddetto Telese.
“La Piuma e la Montagna”, come io e Sinigaglia spieghiamo nella nostra introduzione, prescinde invece da “Cuori Neri”. Intenzionalmente io e Sergio abbiamo scelto di trattare i casi specificati nel nostro libro facendo parlare chi aveva conosciuto direttamente le persone uccise di cui parliamo nel libro (da Pinelli a Fausto e Iaio). Abbiamo tentato di far raccontare chi fossero Pinelli, Serantini eccetera da chi li ha conosciuti e amati, valorizzando non solo il loro impegno politico e sociale, ma anche il profilo umano, la storia personale, i sentimenti. Per chi ha accettato di parlare si è trattato di un viaggio nel tempo su fatti estremamente dolorosi, che hanno irrimediabilmente cambiato la vita di chi racconta. Ma la scelta di rievocare momenti così drammatici è stata fatta volentieri, perché è stata colta la possibilità di valorizzare la memoria dei propri cari, dei compagni di allora.
Se Cuori Rossi è più cupo e “incazzato” (termini, sia chiaro, che utilizzo in senso tutt’altro che spregiativo), “La Piuma e la Montagna” si sforza di essere ”vitale”, seppure questo aggettivo possa apparire paradossale, visto che parliamo di giovani, giovanissimi in alcuni casi, uccisi. Dalla introduzione: “abbiamo cercato di proporre una visione diversa di quegli anni. Lo abbiamo fatto attraverso la testimonianza di chi ha vissuto una tragedia. Ma i racconti di questo libro descrivono un’Italia che, al di là degli eccessi ideologici, fu attraversata da una grande stagione di impegno civile, ancora prima che politico e sociale”.

Se qualcuno dunque, trovandosi interessato all’argomento, si chiedesse quale libro debba scegliere fra i due, personalmente non ho problemi a dire che, pur essendo co-autore di uno di questi, li consiglio entrambi. Se volete fare un piccolo sforzo economico, comprateli, non ve ne pentirete e sono sicuro che non li troverete dei doppioni l’uno dell’altro.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 1 ottobre 2008

“Il vento contro” e gli altri romanzi di Stefano Tassinari

Ho appena finito di leggere l’ultimo romanzo di Stefano Tassinari, “Il vento contro”. Un titolo che mi fa venire in mente un verso di una canzone di De Andrè, “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria”. Credo che quelle parole tratte da “Smisurata Preghiera” racchiudano il senso di questo libro e, in generale, del lavoro di Stefano.
Prima di parlare del suo ultimo romanzo, una carrellata sui precedenti, partendo da una breve riflessione: Tassinari non solo scrive libri molto belli, ma sa trovare titoli ancora più belli ed evocativi.

Ne “L’ora del ritorno” viene raccontato un fatto inventato ma solido nel suo impianto storico. Il protagonista, Eugenio Accorsi, è un vecchio partigiano di sinistra, eretico e sospettato nel suo ambiente per l’essere sopravvissuto a un’azione in cui morirono tutti i suoi compagni. Solo al capodanno del 2000 scoprirà la verità, rivelatagli dalla figlia Luisa.

“I segni sulla pelle” è un lavoro che ripercorre e tenta di mettere ordine nella ridda di notizie che movimentò il tardo pomeriggio del 20 luglio 2001, quando (poco dopo l’uccisione di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda) filtrò la notizia, presto finita nel nulla, di una possibile seconda vittima degli scontri genovesi. Stefano, nel suo romanzo, cercò di dare una spiegazione logica a quelle ipotesi (potete leggere una lunga chiacchierata fra me e l’autore, la trovate qui).

Ne “L’amore degli insorti” protagonista è ancora un personaggio di fantasia. Emilio Calvesi, affermato professionista, è un uomo con alle spalle un passato nella lotta armata degli anni ’70. Ha saputo, per usare una formula retorica, “rifarsi una vita”, ma vedrà il proprio passato tornare a tormentarlo inaspettatamente, sotto le forme di una persona che, a più di vent’anni dai fatti, lo metterà di fronte alle sue scelte passate.

Se i precedenti romanzi erano tutti basati su fatti o contesti storici reali e tratteggiati rigorosamente, ma con l’ausilio di personaggi di fantasia, ne “Il vento contro” pure il protagonista è realmente esistito. Si tratta di Pietro Tresso, detto Blasco, figura storica del Partito Comunista d’Italia. Questo romanzo in parte richiama tematiche presenti ne “L’ora del ritorno”, ossia il destino degli “eretici” comunisti, di quei compagni che spesso furono trattati dai propri vertici di riferimento alla stregua di nemici, più pericolosi degli stessi fascisti.
Devo confessarlo: proprio questo evidente amore per gli eretici, per chi “naviga in direzione ostinata e contraria” (per citare nuovamente De Andrè) è un fattore che mi fa amare particolarmente i lavori di Stefano, facendoli sentire vicini alla mia sensibilità. Pure io, in scala più modesta, ho cercato di occuparmene. Penso a Emilio Canzi, di cui ho già parlato qui.

“Il vento contro” ricostruisce gli ultimi giorni di vita di Tresso e dei suoi compagni, in tutto quattro militanti trotskisti trattati come nemici dai propri carnefici (partigiani anch’essi, ma di rigorosa fede stalinista). Una vicenda atroce non solo nel suo svolgimento, ma pure nella sua successiva rimozione dalla memoria storica della Resistenza.

Avrei altre cose da dire, ma vi farei solo perdere tempo. Preferisco chiudere con un consiglio: andate in libreria e recuperate i libri di cui ho parlato. Leggerete dei racconti interessanti e, contemporaneamente, riscoprirete pagine di storia rimosse e dimenticate. In fondo è questo che la letteratura, quando “impegnata” dovrebbe proporsi come obbiettivo.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 24 settembre 2008

Su Pinelli, “la lobby” inesistente e le semplificazioni manichee

Pubblico di seguito due articoli scritti assieme al mio amico Sergio Sinigaglia.
Entrambi si riferiscono a "La piuma e la montagna", libro che abbiamo curato e di prossima pubblicazione per Manifestolibri (se guardate qui a fianco, nel mio profilo, trovate alcune indicazioni. Potete saperne di più cliccando qui).
Il primo articolo è quello che dà il titolo a questo post, e riscontra alcuni pezzi usciti in questi giorni sulla vicenda Pinelli-Calabresi-Sofri.
Il secondo è una precisazione che è stata pubblicata oggi su Il Manifesto, dove ieri è apparsa l'anticipazione dell'intervista a Licia Pinelli che troverete ne "La piuma e la montagna".

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In questi giorni si è acceso il dibattito sulla vicenda della morte di Giuseppe Pinelli a partire da un articolo di Adriano Sofri sul Foglio, dove, tra l'altro, si fa riferimento all’intervista rilasciata da Licia Pinelli nel libro “La piuma e la montagna”, da noi curato e di prossima uscita con manifestolibri. Quell’intervista, prima ancora della sua pubblicazione, corre il rischio di trasformarsi nella miccia che, nel riaccendere il dibattito su quegli anni, porti di nuovo all'affermazione della logica del “muro contro muro”, riproponendo dinamiche appartenenti ad una fase politica ormai ben lontana. Capiamo che la delicatezza del tema (più corretto sarebbe parlare di temi, fra loro connessi, da Piazza Fontana alla condanna di Sofri, passando per le morti di Pinelli e Calabresi) possa portare le persone coinvolte a reagire, ogni volta che l’argomento viene ripreso,  in modo passionale e viscerale, ma crediamo che tutto questo vada contro la necessaria riflessione su quei tempi, stando ben attenti a non ricreare gli schieramenti di allora.
Ma andiamo con ordine, partendo proprio dall'intervista a D’Ambrosio di sabato scorso [nota: su "Il Riformista"]. A molte affermazioni ha già risposto lucidamente Adriano Sofri il 22 settembre 2008, sempre su questo giornale, e  ci limitiamo a qualche sottolineatura. E’ inesatto affermare che la signora Pinelli sarebbe tornata a sostenere certe tesi “dopo che Sofri ha riaperto il caso”. L’intervista a Licia è del gennaio 2008, per cui la consecuzione logica e temporale con cui si sono riaccesi i riflettori sulla vicenda è ben diversa.
Sull’indignazione di D’Ambrosio di fronte alla formula del “malore attivo”, che lui sostiene di non avere mai utilizzato, diremo che se Sofri, nel titolo del suo libro del 96 che raccoglieva e commentava la sentenza del 75, ha parlato di “malore attivo” non ha detto una falsità. Ha solo semplificato e sintetizzato quella che nel dispositivo fu definita l’ipotesi più verosimile per la caduta di Pinelli, una semplificazione aderente ai concetti che in quella sede venivano espressi (dove si parla di “precipitazione per improvvisa alterazione del centro di equilibrio”).
Irrita maggiormente, nell’intervista a D’Ambrosio, l’adombrata esistenza di una “lobby per Pinelli”.
Non solo, naturalmente non esiste nessuna lobby, ma Francesco Barilli, che ha curato l'intervista alla Pinelli, ha 42 anni, e non ha vissuto direttamente quei tragici fatti; conosce da tempo Licia e ha seguito il caso del marito per passione civile.

Da quasi quarant’anni la signora Pinelli sostiene che su tutti quelli che collaborarono a quel fermo di polizia terminato tragicamente grava una responsabilità, morale se non penale, nella morte del marito. Tutto questo senza aver mai voluto ricondurre il fatto ad una sorta di guerra “Pinelli contro Calabresi”. Proprio quella semplificazione ha già causato abbastanza lutti e dolori.
La morte di Giuseppe Pinelli, riprendendo ancora concetti che Francesco espose al figlio del commissario in una lettera aperta dello scorso luglio, non la si può cristallizzare nell’istante della precipitazione. La vicenda comincia prima di quell’ultimo interrogatorio e finisce dopo. Comincia col suddetto fermo di polizia (svoltosi in termini e modi contrari alla legge e questo lo conferma pure la sentenza, come già ricordato da Sofri). Termina con una campagna diffamatoria verso la vittima, di cui si volle sostenere il suicidio e il coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Queste due menzogne, acclarate anche in sede giudiziaria, furono portate avanti nell’immediatezza dei fatti e per diverso tempo in seguito, se non col consenso almeno con l’acquiescenza di tutti quelli che parteciparono a diverso titolo agli interrogatori di Pinelli, nessuno escluso.
Non è nostra volontà tentare una sgradevole graduatoria d’importanza o di gravità fra la campagna denigratoria subita da Pinelli e quella che immediatamente dopo subì Luigi Calabresi (dal tragico esito e giustamente condannata), ma va sottolineato che a quella contro il commissario parteciparono movimenti, intellettuali e artisti, a quella contro il ferroviere anarchico partecipò lo Stato. Forse per questo è stata rimossa dalla memoria collettiva.

Concludiamo rilevando che scopo del nostro libro, come argomentiamo nella presentazione, è quello di fare uscire dall'oblio vicende ormai rimosse, dimenticate, evitando di contrapporre morti a morti, ma valorizzando la scelta di chi allora, come tanti altri, optò per l'impegno pubblico, pagando con la vita. Con la “La piuma e la montagna” abbiamo voluto evidenziare come quel decennio non possa essere riduttivamente definito “anni di piombo” perché l'Italia di allora era anche un Paese attraversato da grandi movimenti di massa che lottavano per diritti sociali oggi sempre più messi in discussione. Il nostro libro, attraverso le testimonianze dei familiari e degli amici di undici uccisi per mano delle forze dell'ordine e dei neofascisti, parla di quell'Italia.

Francesco Barilli   e Sergio Sinigaglia

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Perché “La piuma e la montagna”

Nel ringraziare il Manifesto per l’attenzione e lo spazio concessi all’intervista a Licia Pinelli, vorremmo fornire alcune precisazioni, sulle quali concorda la signora Pinelli, che ci ha telefonato.
Ci sembra che  l’occhiello e il sottotitolo scelti per l’articolo taglino con l'accetta concetti in realtà diversi o comunque ben articolati. Infatti  Licia non ha detto “Pino, vittima di Calabresi”, né “Mario Calabresi ha scritto un libro che, per difendere la memoria del padre, offende la nostra”.
Capiamo che un sottotitolo o un occhiello debbano attirare l’attenzione del lettore e quindi a volte la sintesi possa contrastare con la complessità dell'argomentazione.
Ma al di là di queste osservazioni, quello che ci preme è far sì che il dibattito e la riflessione attorno al nostro libro evitino di imboccare il vicolo cieco della contrapposizione frontale, riproponendo gli stessi schieramenti di allora, cosa grottesca e inutile. “La piuma e la montagna”  nasce dall'esigenza, lo spieghiamo diffusamente nella nostra presentazione, da un lato di valorizzare chi allora, come tanti, scelse l'impegno politico pubblico, con passione e altruismo, e pagò con la vita questa scelta. Dall'altro evidenziare come continuare ad etichettare quel decennio come “anni di piombo” sia riduttivo e sbagliato, perché in quel periodo  il nostro Paese fu attraversato da grandi fermenti sociali, dei quali parlano diffusamente i familiari e gli amici da noi intervistati. Ne emerge un'Italia, inevitabilmente molto lontana, dove migliaia e migliaia di giovani lottavano per ideali, oggi sempre più calpestati.
 Ecco perché pensiamo che la discussione che inevitabilmente sta nascendo sul nostro lavoro debba evitare di riproporre logiche e semplificazioni dannose quanto inutili, anche nel rispetto di chi, faticosamente, ha deciso di raccontare di nuovo fatti così dolorosi che hanno cambiato completamente la loro vita.

Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia

martedì 9 settembre 2008

Il delitto Pasolini



Segnalo che nei prossimi giorni arriverà nelle librerie e nelle fumetterie la nuova edizione de “Il delitto Pasolini”, di Gianluca Maconi, per l’editore BeccoGiallo.
Anche per questo volume, come in passato per “Ilaria Alpi, il prezzo della verità” e per “Dossier Genova G8”, sempre degli amici di BeccoGiallo, ho curato gli approfondimenti.
Questa edizione sarà accompagnata anche da una nuova prefazione di Furio Colombo.

martedì 12 agosto 2008

Una riflessione sui fatti di Genova, sette anni dopo

Dal 15 al 26 luglio scorso si sono svolte a Genova numerose iniziative per ricordare i fatti del G8 2001. Un appuntamento consueto, che si è intrecciato con i recenti sviluppi processuali, prima la sentenza su Bolzaneto e poi le richieste di condanne per i fatti della scuola Diaz. Quest’anno le manifestazioni si sono sviluppate secondo due distinti calendari: a quelle tradizionali organizzate dai comitati genovesi (Piazza Carlo Giuliani e Verità e Giustizia) si è aggiunta la rassegna “Genova città dei diritti”, indetta dal Comune. Se non erro, è la prima volta che l’amministrazione pubblica si adopera direttamente in azioni di memoria rispetto ai fatti del luglio 2001. Un impegno, quello del Comune, che giunge con qualche ritardo, ma resta positivo. Il giudizio sull’operato dell’amministrazione va però abbinato a una considerazione: se era teso a chiudere una pagina della storia della città la positività va decisamente ridimensionata. Se invece si tratta del primo passo di un percorso in cui le istituzioni intendono finalmente affrontare il luglio genovese di sette anni fa, ben venga l’iniziativa comunale, sperando non resti isolata. Fra le due opzioni sospendo il giudizio, cito però una frase pronunciata durante uno degli incontri da Gherardo Colombo, ex magistrato di Mani Pulite, che così ha commentato gli sviluppi di questi sette anni: “forse si è perduto un certo grado di indignazione”. E’ su questa base, sul recupero della capacità di indignarsi per i fatti di Genova, che credo si debba tracciare, a qualche giorno dalla conclusione degli appuntamenti di quest’anno, il punto della situazione.

Circa la sentenza su Bolzaneto ho sentito pareri discordanti, da persone tutte degnissime e che in questi anni si sono battute per ottenere giustizia per Genova. Qualcuno ha parlato con amarezza di una sentenza deludente. Altri, pur con disappunto per il ridimensionamento delle attese, ne hanno sottolineato l’importanza, simbolica quanto concreta. Credo abbiano ragione entrambe le parti, e questo non per tentare una mediazione, ma perché quelle due teorie, se lette attentamente, appaiono tutto fuorché antitetiche.
E’ vero, sicuramente ci si aspettava qualcosa di più e, vista la mole e la convergenza delle testimonianze, una sentenza ancora più mite sarebbe stata impresentabile. Però si è trattato del primo caso in cui viene condannato non UN agente per UN singolo episodio, ma un numeroso gruppo di funzionari delle forze dell’ordine per un complesso di fatti gravissimi avvenuti nello stesso contesto.
Leggere la condanna ad Antonio Biagio Gugliotta (l’ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma, in quei giorni trasformata in luogo deputato alla consegna dei manifestanti fermati, per la successiva traduzione verso le strutture carcerarie) è agghiacciante: “… con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o comunque tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …” (breve estratto dalla sentenza, cui segue l’individuazione delle specifiche condotte che Gugliotta avrebbe consentito o tollerato).
Che la condanna sia destinata a non avere conseguenze penali è cosa che amareggia, ma nota già da tempo: anche con un giudizio più severo nel gennaio 2009 sarebbe scattata la prescrizione per la maggior parte dei reati. Invito tutti a non cadere, nel caso Bolzaneto e in generale su Genova, nello stesso errore che sovente si commette in Italia: allineare il giudizio storico a quello penale, uniformare la nostra azione civile alla dimensione processuale, come se l’unica “giustizia” possibile fosse quella dei tribunali. Sarebbe miope e per certi versi autolesionista, finirebbe col depotenziare quello che dovrebbe essere il nostro impegno sul piano politico e culturale.
Su Bolzaneto è inutile strapparsi i capelli perché non si è visto riconosciuto il reato di tortura, fattispecie giuridica assente dal nostro ordinamento per ignavia, trasversale e tutt’altro che recente, del mondo politico. Invece di lamentarsi delle pene comminate, si potrebbe aprire un ragionamento sul perché reati come quelli commessi a Bolzaneto, anche applicando le pene massime consentite dai nostri codici, siano considerati poca cosa. Conseguentemente si potrebbe ripartire con tre richieste: l’inserimento del reato di tortura (che non appare nell’agenda della maggioranza, ma non sembra essere priorità neppure per l’opposizione parlamentare), riprofilare le sanzioni per gli abusi commessi dalle forze dell’ordine (sul piano penale e su quello amministrativo, e qui mi riferisco ad allontanamenti e sospensioni), l'istituzione di un organismo "terzo" che vigili sull'operato dei corpi di polizia (compresa quella penitenziaria).
In altre parole, la delusione per la sentenza-Bolzaneto è legittima, ma non deve essere figlia di quell’atteggiamento che ha voluto delegare la “questione Genova” alla sola Magistratura. Ci si può e ci si deve lamentare della blanda applicazione delle regole attualmente in vigore, ma senza dimenticare che compito della politica sarebbe discutere delle regole stesse, rendendosi conto della loro inadeguatezza.

Sul processo per la Diaz sono da poco giunte le richieste di condanna avanzate dai pm, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini. Un’arringa che ha avuto momenti toccanti, come quando è stato affermato che la polizia, nel momento in cui non rispetta i principi del diritto, costituisce per la democrazia un pericolo maggiore delle molotov lanciate in piazza. O quando sono stati ricordati gli ostacoli alle indagini causati dal clima omertoso e di difesa corporativa contro cui ha cozzato il lavoro dei magistrati. O ancora quando è stata ricostruita la logica perversa che porta la polizia a sbarazzarsi delle regole quando queste sono ritenute un intralcio. Quella requisitoria mi è sembrata un’orazione civile sullo stato dei diritti in Italia, con accenti di grande dignità, quasi uno sfogo di chi crede nel “sistema delle regole” e si scandalizza quando esse sono infrante da chi dovrebbe essere posto alla loro tutela.
Nonostante questo, non lo nascondo, sono pessimista sulla sentenza, attesa a novembre. Se una cosa ci ha insegnato il giudizio su Bolzaneto è che su Genova la magistratura sembra volersi attenere con particolare scrupolo al principio della responsabilità penale (personale), e sulla non sovrapponibilità di questa con la responsabilità civile o politica. Inoltre, mi è difficile pensare che nel processo Diaz i giudici possano usare un metro più rigido di quello usato su Bolzaneto, dove erano coinvolti personaggi di profilo decisamente inferiore rispetto agli imputati per la Diaz (ossia i massimi livelli delle forze dell’ordine).
Credo sia un campanello d’allarme che dovrebbe risuonare nelle orecchie di chi ha pensato di delegare ai tribunali la sola e definitiva chiave di lettura del G8 di Genova. Mi auguro di poter essere smentito, ma il mio monito – per quel che vale – lo lancio ora che siamo in tempo. Cominciamo a sottolineare che la sentenza non riscriverà in ogni caso la verità storica sulla Diaz. Ricordiamo che questo processo non è (come crede parte dell’opinione pubblica) a carico degli agenti che hanno spezzato mascelle, costole e denti, perché questi (tutti travisati e irriconoscibili) nel processo non sono neppure entrati. Denunciamo che esiste un procedimento per il tentato omicidio di Mark Cowell (il mediattivista inglese massacrato da un gruppo di agenti, rimasti ignoti, all’esterno della scuola) e che è scandaloso che nessuno abbia individuato gli autori di quel pestaggio. Diciamo a chi non lo sa che ci sono volute perizie e indagini per accertare le firme sui verbali di arresto delle 93 persone catturate (e in seguito tutte scagionate) nell’irruzione, per la reticenza e la scarsa collaborazione dei firmatari, tanto che una firma risulta ancora oggi non identificata.
Analoghi discorsi li si potrebbe fare per la sentenza già emessa a carico dei 25 manifestanti imputati per i disordini di piazza. Anche in questo caso, fermo restando lo sconcerto per la condanna per devastazione e saccheggio emessa a carico di 10 soggetti (che riconosce una fattispecie giuridica inapplicata da decenni e ha comportato pene durissime, sproporzionate rispetto a quelle comminate o richieste per Bolzaneto o la Diaz), esiste un fatto accertato dal tribunale su cui è bene porre l’accento. A proposito dei disordini avvenuti nel corso del corteo di Via Tolemaide, i giudici hanno riconosciuto che la reazione dei manifestanti avvenne a seguito di una carica dei carabinieri definita arbitraria e illegittima, tanto che la sentenza ha comportato la richiesta di trasmissione degli atti per falsa testimonianza a carico di alcuni funzionari delle forze dell'ordine.
Ce n’è abbastanza, mi sembra, per mobilitare la società senza attendere la sentenza sulla Diaz che, comunque vada, non potrà rispondere a molti misfatti semplicemente perché quello non è il suo compito. Dobbiamo essere grati a Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini (e a quanti in questi anni, avvocati, mediattivisti, giornalisti che siano, si sono battuti accanto a loro) ma il loro compito finisce qui, dove comincia quello della politica e della società, i veri assenti dalla battaglia di civiltà su Genova e sui diritti.

Ma voglio spendere le righe finali di questo articolo per il caso più grave accaduto a Genova, che pure  appare sparito dalle cronache: la morte di Carlo Giuliani.
Alcuni anni fa scrissi un articolo sulla tragedia di Piazza Alimonda, lo chiamai “La rimozione di un omicidio”. Ovviamente non sono la persona adatta per dire se e quanto quell’articolo fosse riuscito. Una cosa però mi sento di affermarla: il titolo l’avevo azzeccato. Anzi, direi che se un errore ho commesso è stato quello di non capire subito che la rimozione di quell’omicidio era un tassello di un disegno più grande: rimuovere tutto "il marcio" accaduto nel corso del G8 del luglio 2001, durante quella che secondo Amnesty International è stata “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Per il mondo della politica, per i media, per la magistratura stessa (ovviamente con lodevoli eccezioni in tutti questi settori) si è ritenuto opportuno chiudere la “pagina Genova” senza mai averla aperta, dicendo che in fondo “non è successo nulla”. In questo senso, rimuovere dalle cronache genovesi l’omicidio di Carlo – unico fatto davvero irrisarcibile e irrimediabile – appare più che paradossale significativo e paradigmatico.
Tutto è stato funzionale all’obbiettivo della “grande rimozione”. Persino la divisione manichea (anche quando fatta in buona fede) tra manifestanti violenti e vittime della Diaz o di Bolzaneto. Non è mia intenzione negare i vandalismi accaduti durante il luglio genovese, e neppure riconoscerli come esclusiva opera del blocco nero, o ricordare la colpevole indifferenza delle forze dell’ordine di fronte alle scorribande del black block. Considerazioni tutte valide, ma collaterali nel momento in cui si riconosce l’opera del tritacarne che ha voluto sminuzzare Genova rendendola una poltiglia irriconoscibile.
Per questo voglio chiudere questo articolo, in cui ho parlato di due processi conclusi e di uno in via di definizione, ricordando un processo che non si è voluto fare, stante l’archiviazione disposta dal gip il 5 maggio 2003 (e fermo restando il ricorso alla Corte europea di Strasburgo presentato dalla famiglia di Carlo). Perchè Genova, se la si legge complessivamente, da Piazza Manin a Via Tolemaide e Piazza Alimonda fino alla “macelleria messicana” della Diaz, passando per Bolzaneto e per il corteo del sabato, ci parla di molte cose, che riassuntivamente potremmo racchiudere con una parola che in questo paese dovrebbe significare ancora qualcosa: “resistenza”. Un concetto che nessuno potrà archiviare o rimuovere.

sabato 5 luglio 2008

Spingendo la verità storica un po' più in là. Lettera a Mario Calabresi

Caro Calabresi,
ho letto da qualche settimana il suo libro, “Spingendo la notte più in là”, e volevo comunicarle alcune riflessioni. Innanzitutto una precisazione, che è corretto esporle subito affinché non si disperda fra le righe e perché non resti fra noi il velo dell’incomprensione. Ho 42 anni, non ho vissuto direttamente i fatti di cui le parlerò; conosco Licia Pinelli e ho seguito il caso del marito per passione civile, cercando di tenermi lontano da tentazioni manichee.
Vengo ora al suo libro. Se è un racconto sul dolore personale, sull’elaborazione del lutto resa ancora più faticosa dalla giovanissima età che lei aveva quando suo padre fu ucciso, il suo è un bel libro. Se è la ricostruzione di una parte della storia d’Italia (ripeto: di una parte, per di più filtrata dalla sua soggettività) è un lavoro dignitoso, che si confronta con i limiti di una rappresentazione parziale, valida nella misura in cui quei limiti li ammette con franchezza. Se pretende di essere “la” ricostruzione dei nostri anni ’70 il valore è ancora inferiore.
Non credo che quest’ultima opzione fosse il suo intento, ma di fatto è quel che si è concretizzato sui media. Un’operazione negativa, e lei – anche riconoscendole di non avervi partecipato volontariamente – non può sentirsi escluso dalle responsabilità, essendo persona consapevole delle dinamiche dei media. Non può sottrarsi al ruolo assegnatole di depositario di una verità costretto a rimuoverne un’altra.
Prima di leggere il suo libro mi era capitato di vederla un paio di volte in televisione. In entrambe le occasioni ha speso parole belle ma “scivolose” su Pino Pinelli, come se la storia dell’anarchico precipitato dalla questura milanese la notte del 15 dicembre ’69 fosse rimasta impigliata alla vicenda di suo padre per un caso o per le bizze della storia. Leggendo il suo racconto speravo di trovare qualcosa di diverso, ma sono rimasto deluso. I toni sono rimasti partecipi, ma così pure l’atteggiamento sbrigativo, quasi da “è tutto chiaro, passiamo ad altro”, verso una questione che resta irrisolta, al di là della famosa sentenza D’Ambrosio che attribuì quella morte ad un malore con slancio attivo. Glielo dico perché, indipendentemente da quel che si può pensare delle conclusioni del magistrato, il caso Pinelli non lo si può cristallizzare nell’istante della precipitazione da quella finestra. Esistono un prima e un dopo, e forse l’errore di questi 39 anni è stato concentrarsi su quel singolo istante senza saperlo o volerlo contestualizzare.
Non vorrei essere frainteso, dunque preciso pure il superfluo: la campagna contro suo padre fu quanto di più sbagliato si possa immaginare, nei toni e nei contenuti. Sbagliata eticamente, intellettualmente e politicamente, perché finì col cementare l’opinione pubblica in una contrapposizione in cui interrogarsi se suo padre fosse o meno l’unico responsabile della morte di Pinelli, o se fosse o meno presente nell’istante della precipitazione. Si personalizzò una campagna di stampa che trascese nei modi e nei tragici effetti, perdendo di vista la  complessità della situazione e i reali obbiettivi di verità cui si doveva aspirare.
Lei potrà obbiettare che la verità la si raggiunse con la sentenza del 1975, in cui D’Ambrosio salomonicamente escluse l’omicidio come il suicidio. Strano paese, l’Italia: dove speso la magistratura viene accusata di ingerenze nella vita pubblica, per poi delegarle acriticamente la ricerca della verità, dimenticando che solo scopo dell’azione giudiziaria è l’accertamento dei fatti nei loro aspetti penalmente rilevanti. I giudici non sono i sacerdoti della verità, ne sono i meccanici: assegnargli un ruolo salvifico significa caricare la loro coscienza di un peso insopportabile, col solo effetto di sgravare la nostra.
Quel che è in discussione non è tanto la sentenza (su cui ho i miei dubbi, ma parlarne risulterebbe dispersivo) quanto la sua effettiva portata, perché la vicenda Pinelli comincia prima di quell’ultimo interrogatorio e finisce dopo. Comincia con un fermo di polizia svoltosi in termini e modi contrari alla legge (e questo lo conferma pure la sentenza, pur se disponendo il proscioglimento del dottor Allegra perché il reato si era nel frattempo estinto per intervenuta amnistia). Termina con una campagna diffamatoria verso la vittima, di cui si volle sostenere il suicidio e il coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Queste due menzogne, acclarate anche in sede giudiziaria, furono portate avanti nell’immediatezza dei fatti e per diverso tempo in seguito, se non col consenso almeno con l’acquiescenza di suo padre.
So che quest’ultima affermazione può averla ferita: mi creda, non era mia intenzione. Così pure non è mia volontà tentare una sgradevole graduatoria d’importanza o di gravità fra quelle due campagne denigratorie (subite da suo padre e da Pinelli), ma va sottolineato che a quella contro Luigi Calabresi parteciparono intellettuali e artisti, a quella contro il ferroviere anarchico partecipò lo Stato, e forse per questo è stata rimossa dalla memoria collettiva. Riconoscere e ricordare il fiume di fango versato su Pinelli e sugli anarchici sarebbe stato da parte sua un gesto non solo nobile, ma pure utile e particolarmente significativo.
Caro Calabresi, in precedenza le dicevo di averla vista in televisione in un paio di occasioni. Una di queste fu lo speciale di Ballarò sugli anni ’70, lo scorso 23 gennaio. Oltre alle testimonianze in studio, nel corso della trasmissione fu mostrato un filmato che ripercorreva le tragedie di quel periodo. Qui, l’amara sorpresa: nessuna menzione per Varalli, Zibecchi, Brasili… Neppure per Roberto Franceschi, che proprio 35 anni prima, il 23 gennaio 1973, fu colpito mortalmente dalle forze dell’ordine al termine di una contestata assemblea del movimento studentesco. Una sentenza civile del 1999, superando un muro di omertà e falsità, affermò con chiarezza le responsabilità della polizia, escludendo l’uso legitimo delle armi. In quella puntata di Ballarò, se non altro per la coincidenza temporale, mi sarei aspettato una citazione almeno del caso Franceschi. Così non è stato.
Sia chiaro: non si tratta di considerare i morti come pesi da buttare sui piatti della bilancia per raggiungere l’equilibrio, e neppure di contrapporre lutti ad altri lutti. In altre parole, non vorrei un Ballarò “compensativo”: la storia non la si fa con un macabro pallottoliere, e cercare oggi il punto d’equilibrio su quella bilancia è operazione antistorica e pericolosa. Credo però sia altrettanto pericoloso rimuovere dalla storia d’Italia il fatto che le lotte sociali – da Portella delle Ginestre alla fine degli anni ’70 – hanno prodotto un enorme tributo di tragedie.
Per vicissitudini personali ho avuto modo di ascoltare le storie di molti parenti di quelle vittime. Ho letto i loro racconti, ho raccolto memorie di dolori ed esperienze. Sono molte le cose che ho trovato in comune; alcune riguardano la dimensione collettiva, altre quella personale. Fra queste, il timore che quelle vicende finiscano nella pattumiera della storia, dimenticate o riscritte in modo sciatto o strumentale.
Nel suo libro lei lamenta la mancanza di un luogo dove la memoria delle tragedie degli anni ’70 sia conservata, arrivando ad essere condivisa e – di conseguenza – sintomo di vera pacificazione nazionale. In quella sua ipotesi di luogo della memoria resterebbero però esclusi i Franceschi, Varalli, Zibecchi, i morti di Avola, quelli di Reggio Emilia e molti altri, di cui non fa menzione. Si tratterebbe di una sorta di operazione che ricalca quella intrapresa in Sudafrica senza saperne ripercorrere il percorso (tortuoso e faticoso, ma anche il solo che sappia portare a un risultato, tenendosi lontano dalle tentazioni di scorciatoie), di una memoria strabica e incompleta. E una memoria parziale è destinata a rimuoverne altre. Ricordo cosa scrisse Ferdinando Camon: “quando le tragedie della storia si confondono e il ragazzo interrogato a scuola nel datare un avvenimento sbaglia di tre secoli, vuol dire che non fanno più male: che ci siano state o non ci siano state non fa nessuna differenza”.
Caro Calabresi, credo che la notte, prima di spingerla più in là e dirsi pronti a un nuovo giorno, la si debba capire, senza ricordarne solo quella parte di oscurità che ha sconvolto la nostra vita. Questa è la riflessione che le chiedo di fare e la saluto cordialmente, nella speranza di una sua risposta.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 18 giugno 2008

Intervista con Giuseppe Bianzino, padre di Aldo Bianzino

Aldo Bianzino, 44 anni, viene rinchiuso la sera del 12 ottobre scorso nel carcere di Capanne a Perugia, per il possesso di alcune piantine di canapa indiana. Viene trovato senza vita la mattina del 14 ottobre.
Aldo l’ho potuto vedere solo in fotografia; suo padre Giuseppe l’ho incontrato la prima volta a Lodi, un mese fa. L’ho conosciuto tramite Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, anche lui deceduto in carcere l’11 luglio 2003 (sulla sua morte si sono recentemente riaccese speranze di verità, dopo la riapertura del caso). Quella sera Giuseppe ha abbracciato anche Haidi Giuliani, e poi Danila Tinelli e Maria Iannucci, rispettivamente madre di Fausto e sorella di Iaio. Incroci di destini fatti di dolorose perdite e di mancanza di giustizia, un affetto e una solidarietà che sorgono spontanei.
Dal confronto con le foto del figlio, risulta chiara la somiglianza fra Aldo e Giuseppe. Alti, magri, grandi occhiali. Anche caratterialmente Giuseppe ricorda quel che si racconta dell’indole del figlio. Mitissimo, ma non per questo meno risoluto nel combattere le ingiustizie. Nei gesti e nel sorriso i segni di una cordialità e di una serenità che la tragedia ha incrinato ma non cancellato. “Mio figlio era molto aperto, disposto a parlare con tutti”, mi racconta. “Già da bambino, bastava che qualcuno lo chiamasse e lui gli sorrideva e lo seguiva. In questo era simile a me, o almeno a come ero una volta. Oggi sono cambiato. Una volta sorridevo sempre e qualcuno mi chiedeva ‘ma cos’hai da ridere?’. Io semplicemente sorridevo perché mi sembrava che la vita mi sorridesse. Oggi sorrido poco, quella domanda non me la rivolgono più…”.
Lo incontro nuovamente nella sua casa di Vercelli. Lui ha voglia di parlare e io di dargli voce.

Tu quando vieni a sapere della morte di Aldo?

Domenica pomeriggio, quando era già morto da alcune ore. Mi ha telefonato Gioia, la sua prima moglie, madre dei due figli maggiori (Aruna ed Elia). All’inizio ha chiesto se Aruna era lì da me, poi ha tergiversato un po’, non sapeva come dirmelo. Prima ha detto che mio figlio aveva avuto un infarto, solo dopo qualche minuto ha aggiunto che era morto, ma non mi ha specificato i dettagli, non ha parlato del carcere, non se la sentiva. In quel momento ha accennato solo a mancanze nei soccorsi. Mia moglie era in giardino, gliel’ho dovuto riferire io. Non sai cosa significa dire una cosa del genere a una madre… Ho cominciato a sapere tutta la storia pochi giorni dopo. Poi, dopo altro tempo ancora, è stata sempre Gioia a dirmi “adesso devo raccontarti tutto”. Mi ha parlato dell’autopsia, dei 4 ematomi cerebrali, dei danni al fegato e alla milza. In quel momento si diceva pure di due costole rotte, circostanza che però sembra essere stata smentita dall’autopsia successiva. Nel frattempo erano cominciati i contatti con Roberta, la sua compagna (arrestata assieme a lui e scarcerata subito dopo la morte di Aldo), e la nostra battaglia comune per capire cosa fosse successo in quella cella.

Ti sei fatto qualche idea su quanto accaduto?

Ho due ipotesi. Forse i suoi carcerieri pensavano davvero di trovarsi di fronte a uno spacciatore. Non avendo trovato denaro in casa di Aldo e Roberta (la perquisizione aveva raccolto solo trenta euro), hanno pensato avessero nascosto “il malloppo” da qualche parte. Per questo può darsi l’abbiano malmenato, per farlo confessare. L’altra ipotesi si basa sull’idiosincrasia di mio figlio verso strutture chiuse come il carcere. Aldo era molto tranquillo e aperto di carattere, ma incapace di comportamenti servili e non incline al rispetto delle gerarchie. In un ambiente chiuso e codificato come dev’essere il carcere si crea quella subordinazione che pretende ritualità, rispetto ossequioso verso gli ordini: una realtà impossibile per lui. Magari questo l’ha portato a qualche reazione e di conseguenza può essere scattata la voglia di dargli “una lezione”.

Cosa puoi dirmi sullo stato delle indagini?

Il magistrato che aveva in mano l’inchiesta era lo stesso che l’ha fatto arrestare. Un arresto che considero assurdo non solo per l’assoluta mancanza di pericolosità di persone come Aldo e Roberta, ma anche perché avvenuto di venerdì pomeriggio, costringendo quindi due persone a restare in carcere inutilmente per almeno tre giorni. Tutto questo senza poter vedere un giudice e chiarire la loro posizione, e per di più lasciando Rudra e la nonna (ossia il figlio quattordicenne di Aldo e Roberta, e una novantenne in precarie condizioni di salute) completamente isolati e abbandonati a se stessi. Sulla sua morte è stata chiesta l’archiviazione, a cui si è opposta tutta la famiglia, coi rispettivi avvocati. Non so cosa aspettarmi delle indagini, seppure da ignorante in materia legale ci vedo troppi buchi. Io pensavo che in un carcere, almeno nei corridoi e nei luoghi di passaggio, ci fosse una vigilanza costante, anche tramite telecamere, eppure ancora oggi non si sa chi sia entrato e uscito da quella cella. Prima abbiamo accennato a incongruenze nelle autopsie e voglio farti un esempio specifico. Le lesioni al fegato le hanno giustificate con una manovra di rianimazione maldestra, fatta con imperizia e troppa violenza. Ammesso che si possa credere a questa versione, è possibile che non si sappia chi ha operato quel tentativo di soccorso?

Alla fine si sta facendo strada la teoria di una morte per cause naturali, per rottura aneuristica.  Inoltre, si è parlato molto dell’assenza di lesioni esterne…

L’aneurisma è un elemento di debolezza del sistema circolatorio, che può starsene tranquillo per anni e poi cedere. Cosa posso dirti?… Forse per deformazione professionale da vecchio chimico ragiono in termini pratici, di impianti. Alla Thyssen Krupp l’impianto faceva schifo, ma è successo qualcosa che l’ha fatto scoppiare. Ecco, anche volendo credere all’aneurisma, io sono alla ricerca di quel “qualcosa”. Nulla capita per caso. Sulla mancanza di segni esteriori, tu pensi ci siano lesioni esterne nei prigionieri di Guantanamo? O sui corpi dei poveracci passati nelle mani di Videla o Pinochet per poi essere scaricati in mare?

La storia di tuo figlio mi ricorda un panorama in cui la nebbia prima si dirada e poi si riaddensa. Ci parla di una zona grigia nello stato dei diritti, favorita dall'intreccio tra retorica securitaria e guerra al diverso.

In questi tempi si fa un gran parlare di sicurezza, peraltro cercando di distorcere la scala di importanza dei fatti. Quando si parla di sicurezza e legalità non si parla dei morti sul lavoro, che sembrano confinati in un altro pianeta, e neppure dei grandi truffatori, che non sembrano destare quello che oggi viene chiamato “allarme sociale”. Intendiamoci, capisco che il ladro che ruba la pensione alla vecchietta che l’ha appena ritirata sia un problema reale e da affrontare, ma non capisco quale allarme possa essere determinato da uno che si fa uno spinello. Chi vive alle nostre spalle rubando miliardi o guadagnandoli in modo poco pulito, al contrario, non è considerato pericoloso. Tu mi parli di nebbia e di zona d’ombra ed è corretto; io, al di là del dolore personale, la storia di mio figlio l’ho vissuta come un’enorme contraddizione. Una contraddizione di quello che una volta avremmo chiamato “il sistema”.

La vicenda di Aldo ti ha creato un’idea in generale del mondo carcerario? E come è cambiata, se è cambiata, la tua visione della giustizia?

Cosa penso del carcere? Che è una cosa diversa se ti chiami Geronzi o Bianzino. Può sembrare banale ma è così, è quel che sento. Quando oggi leggo di tragedie successe nei CPT, di persone malmenate o morte “in circostanze misteriose”, come si dice, provo la stessa sensazione: carceri e CPT sono luoghi dove la persona perde i propri diritti. Per questo è facile che lì dentro certe cose succedano, ed è difficile poi scoprire la verità. E parlo di due luoghi che a torto si pensa debbano tutelare solo chi sta fuori da chi vi è imprigionato. E’ falsissimo: carcere e CPT dovrebbero tutelare pure chi sta dentro. Questo perché anche chi viene rinchiuso in una di quelle strutture è sotto la tutela dello Stato. Tutti, ma a maggior ragione quelli che, come Aldo, sono reclusi senza aver subito una condanna e quindi vanno considerati innocenti fino all’emissione della sentenza. Del resto ne abbiamo parlato prima: quando si parla di sicurezza si parla di una sicurezza monca e ambigua. Le morti in carcere sono tantissime. Non parliamo di quelle nei CPT, visto che quei poveracci ormai sembrano appartenere a una categoria subumana. Non parliamo di Carlo Giuliani: per lui hanno ripristinato la pena di morte, direttamente in piazza. Una volta avremmo parlato di “giustizia di classe”: forse dovremmo avere il coraggio di dirlo anche oggi…

mercoledì 4 giugno 2008

Ramon e gli altri

Pochi giorni fa ho pubblicato un commento sulla signora Franzoni e sul caso Cogne. Un commento un po’ “sui generis”, nel senso che ho parlato non tanto della vicenda in sé, quanto della situazione carceraria in Italia. In coda a quell’intervento citavo un estratto dall’intervista al professor Franco Della Casa.
Quell’intervista faceva parte di un progetto più completo, realizzato assieme a Sonia Benedetti, Carlo Del Grande, Francesca Frizzi Manigilio e David Santi, dal titolo “Ramon e gli altri”. Il lavoro è relativamente datato (lo cominciammo nel dicembre 2003 e fu terminato – se non erro – nella primavera 2005) ma tuttora attuale. E’ stato originariamente pubblicato su ecomancina a questo link.

(Scaricabile)

sabato 24 maggio 2008

Sulla signora Franzoni e sul “caso Cogne”

Non ho mai parlato di Annamaria Franzoni e del caso Cogne. Il circo mediatico che si solleva su taluni fatti di cronaca nera m’ha sempre infastidito, un incrocio di morbosità e sciacallaggio. Preciso quindi che nemmeno oggi entrerò nel dibattito circa la colpevolezza o meno della signora Franzoni nell’omicidio del figlio. Non sono insensibile alla morte di un bambino, ma non ho elementi per pronunciare tesi pro o contro la sentenza resa definitiva dalla Cassazione, non avendo seguito la vicenda.
Sul tema processuale mi limito dunque a un’osservazione. C’è sicuramente grande distanza fra credenti e atei (o agnostici, come me) a proposito della giustizia divina, ma su quella umana penso siamo tutti d’accordo nel dire che si tratta di cosa ben diversa. Se esiste, la giustizia divina è perfetta e infallibile per definizione; quella umana è l’esatto contrario. Ai giudici si deve chiedere di operare con serenità, rigore intellettuale (da non confondersi con la durezza) e imparzialità; il resto (a meno che non si trovi un omicida in flagranza di reato e con una pistola ancora fumante in pugno…) è da inserire nel contesto di imperfezione e fallibilità proprio degli esseri umani.
Con questa premessa, non so se Franzoni sia o meno colpevole, né m’interessa disquisire sull’equità della condanna secondo una distorta mentalità che vorrebbe, quale misuratore della reale correttezza di una sentenza, il pallottoliere degli anni. E’ un altro l’aspetto della vicenda che mi ha colpito in questo epilogo: l’enfatizzazione del dramma umano della condannata (al di là delle sue colpe, reali o meno che siano) e dei suoi parenti, a cominciare dai figli che si vedranno divisi dalla madre per i prossimi 16 anni, fatti salvi i benefici premiali
In un periodo in cui la stretta securitaria, la richiesta di fermezza e di “tolleranza zero”, hanno preso il sopravvento, è buona cosa che un sentimento come la pietà si riaffacci alle coscienze. Temo però si tratti di un riflesso incondizionato dovuto al clamore (che innegabilmente – e legittimamente – la signora Franzoni ha cercato di utilizzare) creato attorno alla vicenda. Una vicenda che, fuori dalle aule giudiziarie, ha assunto contorni da romanzo dove si sono mescolati generi diversi: il thriller, il noir, lo splatter, la saga familiare.
Esistono in Italia più di 50.000 carcerati. Tra essi ladri di polli e colletti bianchi; scippatori e stupratori; recidivi e occasionali; criminali per scelta o per necessità. Al dramma della loro detenzione si aggiunge sempre quello di familiari, conoscenti, amici. Anche il criminale più incallito (e magari spregevole) può essere padre amorevole, madre premurosa, figlio affettuoso, amico affidabile. E la pena detentiva in tutti i casi si sovrappone ad una riflessa condanna al dolore per i congiunti.
Penso ci sarebbe da interrogarsi, quando si parla di certezza della pena quale unico fondamento del diritto, su come si stia parlando con leggerezza di comminare una punizione NON SOLO a chi ha sbagliato, ma a tutti coloro il cui mondo in qualche modo gravita attorno a quello della persona detenuta.
Alcuni anni fa, il 14 marzo 2004, ho intervistato il professor Franco Della Casa, docente di diritto penitenziario all’Università di Genova. A chiusura di quell’incontro, a mia domanda circa un suo "messaggio" generale sul “pianeta carcere”, sconosciuto alla maggioranza delle persone, Della Casa rispose: “Io penso che il carcere non dovrebbe essere qualcosa di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella società civile. Il carcere non dovrebbe essere qualcosa che allontaniamo e confiniamo nell’angolo più oscuro della nostra coscienza, ma qualcosa che fa parte della nostra società, un’istituzione per il momento necessaria che dovremmo sforzarci tutti di migliorare. Perché il carcere non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, è un luogo utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe meglio un impegno civile, costante e continuo”.
Penso siano parole su cui riflettere. Nel frattempo, saluto con piacere il ritorno del sentimento di pietà sulle vicende carcerarie, temendo però finisca presto riposto in un cassetto, al prossimo fatto di cronaca.

sabato 10 maggio 2008

Dossier Genova G8

E' uscito, per l'editore BeccoGiallo (con cui avevo già collaborato per il Volume "Ilaria Alpi, il prezzo della verità") "Dossier Genova G8", per cui ho curato i redazionali.

dal sito degli amici di BeccoGiallo riporto la scheda




DOSSIER GENOVA G8
IL RAPPORTO ILLUSTRATO DELLA PROCURA DI GENOVA SUI FATTI DELLA SCUOLA DIAZ
Gloria Bardi - Gabriele Gamberini

Collezione Cronaca Storica
17x20, 144 pagine
brossura, b/n
Euro 15.00

La sera del 21 luglio 2001, durante i giorni più caldi del G8 di Genova, la Polizia irrompe nel complesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli, dove sono riuniti manifestanti, giornalisti, avvocati, medici e infermieri per trascorrere la notte.
La perquisizione si conclude con l'arresto di 93 persone, accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio.
Sul campo si contano numerosi feriti, alcuni sono gravi, uno è in fin di vita.

Seguendo puntualmente la Memoria Illustrativa redatta dalla Procura della Repubblica di Genova, Dossier Genova G8 ripercorre minuto per minuto il succedersi degli eventi, illustrando le testimonianze, gli interrogatori, i filmati originali e le registrazioni sonore che hanno smentito in sede processuale la versione dei fatti contenuta nei verbali di Polizia e compromesso la credibilità dei 29 agenti accusati di lesioni personali, abuso d'ufficio, falsa testimonianza, calunnia e falso ideologico.

A più di sei anni dal G8 di Genova e con un delicato processo ancora in corso, Dossier Genova G8 fornisce una ricostruzione meticolosa, per immagini, delle 261 pagine del testo ufficiale della Procura, per scoprire tutto ciò che è accaduto a Genova prima, durante e dopo l'irruzione degli agenti nella scuola Diaz la sera del 21 luglio 2001.

a questo link, invece, potete leggere la recensione di Concita De Gregorio, da Repubblica di oggi

domenica 27 aprile 2008

Un’analisi sulla crisi della sinistra e di Rifondazione

Ho letto diversi commenti sul fallimento elettorale della Sinistra Arcobaleno e sul conseguente dibattito interno a Rifondazione Comunista. Un affollarsi di contributi contrastanti, uniti da quella che sembra essere una regola dell’analisi politica: parlare nell’immediatezza dei fatti. Personalmente ho preferito attendere qualche giorno; un po’ per una sorta di “elaborazione del lutto”, un po’ per evitare che impulsività o sconforto prendessero il sopravvento.
Sul fallimento elettorale in sé resta poco da dire. Il rifiuto del progetto Sinistra Arcobaleno è emerso inconfutabile; per le sue dimensioni e per i tempi rapidissimi in cui si è consumato (non ricordo un’emorragia di consensi tanto vasta consumarsi in così pochi mesi). Sono però rimasto colpito negativamente più dal dopo elezioni che dal risultato nudo e crudo. Ho trovato le dichiarazioni della maggior parte dei responsabili di Rifondazione segnate da grande confusione, come se il KO elettorale li avesse storditi fino a togliergli lucidità e capacità di analisi. “Grande è la confusione sotto il cielo”, direbbe qualcuno, ma a smentire l’aforisma la situazione è tutt’altro che eccellente.
I primi commenti successivi al disastro del 14 aprile imputavano la disfatta al PD e alla fretta con cui si era avviato il processo unitario. Il primo punto lo trovo paradossale. Se Veltroni ha cercato (e ottenuto) voti a sinistra è perché il suo progetto è stato ritenuto più efficace e convincente di quello della Sinistra. Chiedersi se questa efficacia sia vera o solo percepita è inutile, serve solo a ribaltare il vero nodo del problema, perchè stava a noi dimostrare la nostra efficacia. E lamentarsi del ruolo dei media è ancora più sterile: il mondo dell’informazione non ci ha certo voltato le spalle da ieri, ma nella stagione di Genova eravamo perdenti politicamente ma convincenti (se non vincenti) culturalmente, seppur non godendo di grandi attenzioni da parte di tv e giornali. Sulla perdita dei “nostri” voti (il virgolettato è intenzionale) a vantaggio di PD, astensionismo e persino Lega, credo inoltre che per un buon inizio di analisi si potrebbe smettere di parlare di “nostro” elettorato. Non esiste più: a sinistra la gente non se la sente di consegnare un mandato in bianco ai propri referenti politici, perché da tempo si sono rotti i meccanismi di rappresentanza e appartenenza, fra la base e i vertici della sinistra.
Il secondo punto (la fretta con cui si era avviato il processo unitario) è evaporato talmente in fretta che non vale la pena ribattere. Ormai la Sinistra Arbobaleno sembra il cugino scemo di cui tutti si vergognano, ma che fino a ieri ci accompagnava mentre noi sorridevamo di fronte alle sue stramberie. Vale la pena sottolineare che il “nuovo soggetto politico unitario” non ha entusiasmato nessuno non perché sia stato fatto in fretta, ma per come è stato proposto: imposto dall’alto, senza alcun processo partecipativo, e per di più venduto come un’esigenza dettata dalla storia o – peggio – “ciò che ci chiede la nostra gente”.

Spariti, o almeno affievoliti, quei primi abbozzi di analisi, è partito il confronto interno al partito. Ho seguito il dibattito emerso nell’ultimo comitato politico di Rifondazione, che ha portato a una contrapposizione fra Ferrero e Giordano, alle dimissioni della segreteria e al varo di un congresso cui si arriverà con posizioni allo stato indefinite, stante la fluidità della situazione del partito, sicuramente non riassumibile con la sola contrapposizione bipolare cui accennavo, che sembra anzi assai provvisoria. La sensazione più dolorosa, per me, è stata quella di una distanza incolmabile, come se la falce elettorale avesse tagliato orizzontalmente il partito. Mentre la testa si dibatte, la coda soffre di un dolore incompreso o comunque “diverso” da quello percepito dal vertice. Due sofferenze distanti, nello stesso corpo.
Una riflessione che propongo, a tutti quelli che in questi anni hanno condiviso le speranze (magari non il percorso) del partito, è il chiedersi se davvero la base riesca a cogliere reali e fondamentali differenze tra Giordano e Ferrero. A questa domanda andrebbe collegata un’altra: se il linguaggio stesso che viene usato non venga ormai percepito come testimonianza di una distanza tra pensiero e azione, tra speranze e realizzazioni pratiche. Tra cuore e ragione.
Nel periodo elettorale ho sentito ripetere come un mantra “nuovo soggetto politico unitario e plurale”. Oggi, forse, i più hanno capito che non funzionava, che al nord gli operai magari restano iscritti alla Fiom, ma votano Lega. Ma anche chi l’ha capito sembra alla ricerca di un altro mantra, senza riuscire a trovarlo. La semantica sa essere spietata: quando è bulimica, assieme alle idee divora le parole stesse.
Una precisazione: non m’interessa minimamente partecipare a un dibattito da “notte dei lunghi coltelli”, e so benissimo che i mass media marceranno su questo binario fino a luglio, ben oltre la pur dura realtà interna del partito. Alimentare le maliziose pruderie dell’informazione non mi attira. Capisco dunque chi chiede di non personalizzare il dibattito con critiche a Bertinotti o ad altri dirigenti, che suonerebbero ingenerose. Il rischio, effettivamente, esiste; ma credo non ci sia nulla di personale nel ricordare la solidarietà espressa a Ferrara, il “processo irreversibile” del percorso unitario, il comunismo come “tendenza culturale” interna alla Sinistra. Si tratta di affermazioni di contenuto (e nel criticarle non c’è nulla di personale) che, assieme alla sciagurata linea politica (oscillante negli ultimi anni tra opposizione e governismo, transitando per movimentismo, e arrivando alla sintesi “di lotta e di governo” che ha saputo svuotare entrambi i termini) hanno portato alla crisi attuale. E preferisco non riesumare, sfogliando gli archivi di Liberazione, le imbarazzanti dichiarazioni di piccoli dirigenti che, allevati e cresciuti nel culto della fedeltà alla linea bertinottiana, hanno costruito carriere veloci e brillanti come bolle di sapone, e della stessa consistenza.

Condivido in gran parte la severa analisi di Franco Berardi Bifo su Liberazione del 18 aprile. La trovo però, più che troppo apocalittica, troppo astratta. Non credo, cioè, sia inutile ricostruire la sinistra; ritengo invece doveroso che la sinistra riparta da zero, assumendosi la responsabilità di proporre un’alternativa di società che sia basata non su slogans (evocativi quanto privi di sostanza), ma su un agire concreto. Per questo è necessario riallacciarsi ai movimenti, ma non (come giustamente rilevato da Bifo) in modo parassitario, per carpirne emotivi e temporanei consensi elettorali, ma per interrogarsi assieme ad essi su concrete pratiche che incidano sul sociale.
Abbiamo chiari i concetti di crescita, decrescita e “a-crescita”? Sappiamo trasmetterli in modo efficace?
Sappiamo rispondere a pulsioni securitarie o addirittura razziste senza demonizzare il concetto di sicurezza, ma al contrario formulando una proposta “nostra” di sicurezza, necessariamente saldata a principi di giustizia sociale?
Abbiamo chiaro il ruolo di poteri e istituzioni? Sappiamo interagire con essi senza rinunciare alla nostra identità e senza per questo chiuderci in astrazioni? Sappiamo, in altre parole, utilizzare poteri e istituzioni come un mezzo?
Abbiamo una politica energetica che non sia succube degli interessi economici ma che sappia essere concreta?
Ci lamentiamo (a ragione, s’intende) della cancellazione di “Bella Ciao” dal 25 aprile, ma capiamo che quella cancellazione è figlia dell’assenza di una nostra proposta culturale che sia percepita valida e attuale? Capiamo che se la nostra presenza è ritenuta residuale diventa residuale o inattuale il concetto stesso di antifascismo? E, con questa deriva, diventano inattuali “Bella Ciao” e la Resistenza stessa, mentre il cancro del fascismo viene circoscritto pressochè alle sole leggi razziali? Capiamo, per usare un paradosso, che i libri di Pansa hanno successo perché noi non abbiamo saputo difendere i nostri o scriverne nuovi?
Capiamo il valore simbolico di indire il prossimo congresso in giorni coincidenti con l’anniversario del G8 genovese, o vogliamo usare la circostanza come un esorcismo scaramantico?
Abbiamo scritto belle analisi sul precariato, recensito libri e film che ne parlano. Ma sappiamo parlare ai precari?
Capiamo, in buona sostanza, che non si tratta di far tornare “gli ultimi” dalla nostra parte, ma di tornare noi verso di loro?

So bene che tutti questi argomenti meriterebbero una trattazione ben più approfondita, e che le ragioni della nostra sconfitta si intrecciano con altre: dalla devastante esperienza di governo a considerazioni, di natura ormai quasi antropologica, sull’involuzione della società e dell’elettorato italiani. Ma partire da quelle domande mi sembrerebbe un buon inizio. Così come sarebbe utile parlare non di azzeramento dei dirigenti, ma di azzeramento del dirigismo. Che è operazione più complessa, ma ormai imprescindibile.

venerdì 29 febbraio 2008

Aborto, sessualità e rapporto con il proprio e l'altrui corpo: scambio di idee con Lea Melandri

NOTA: L’articolo che segue è stato pubblicato su Liberazione del 29 febbraio 2008. Si tratta di una lettera a Lea Melandri, ed è un commento ad un precedente intervento della stessa Melandri datato 20 febbraio.
La mia lettera riprende, in piccola parte, un articolo che avevo pubblicato sul blog di splinder il giorno 11 febbraio (“Una piccola storia personale sull’aborto”), ma in generale è totalmente nuovo.
In coda al mio intervento trovate la risposta di Lea, sempre pubblicata su Liberazione del 29 febbraio 2008.

Cara Melandri,
prima di scrivere sulla “questione aborto” sono stato a lungo incerto. Un po’ perché sull’argomento noi uomini dovremmo intervenire in punta di piedi, e non con grazia da elefanti come molti fanno. E’ innegabile che in questo entrino in gioco le dinamiche di una società in cui il rapporto di potere fra i sessi è, se non la più importante, certamente la più radicata delle ingiustizie, universalmente diffusa e per questo difficile da riconoscere. Un po’ mi intimorivano i toni manichei che ha assunto il dibattito: di fronte a quanto non conosco tendo a ritrarmi; non mi spaventano le battaglie, se non quando i contendenti non sembrano avere chiara la posta.
Pur condividendo il suo intervento del 20 febbraio, credo che al dibattito generale sfugga una cosa. Il punto non è che si parli o meno dell’aborto, o “chi” o “come” ne parli. Il punto è riconoscere che non se ne è mai “davvero” parlato; così come si sono sempre evitate le questioni del rapporto tra i sessi, le gravidanze indesiderate, gli stupri, quasi fossero parte integrante delle disgrazie della vita. Guardando all’attualità, alla campagna elettorale che dovrebbe affrontare le tematiche prioritarie, vediamo che i temi sono gli stessi: divergono le angolazioni ideologiche, ma si tratta sempre di economia, sicurezza, tasse, lavoro. L’aborto è entrato in agenda come un argomento sfuggente e autonomo; sessualità e autodeterminazione, nemmeno di striscio. Causa di questa rimozione è la matrice maschile del potere dominante, certo, ma riconoscere la causa non significa essere vicini alla soluzione.
Siamo nati tutti da un ventre materno, ma preferiamo non ricordarlo o affidare “il fatto” all’ineluttabilità naturale. Una rimozione cui seguono a ruota le altre. Persino confinare l’aborto alla sola dimensione etica personale appare funzionale a questa rimozione, perché nega all’argomento ogni valenza nel dibattito collettivo.
Con difficoltà racconto una mia esperienza personale, dolorosa anche se con epilogo felice. E’ la storia di “una” scelta”, non è “la” scelta, non ha pretese di essere paradigmatica o di insegnare alcunché.
Nel 2000, dopo il primo figlio, Maria restò incinta per la seconda volta. Una gravidanza voluta, ci apprestavamo a vivere con gioia quell’esperienza. Mia moglie aveva contratto una malattia innocua, ma potenzialmente grave per il piccolo. Avemmo conferma dei nostri timori a Pavia; il medico ci illuminò sui nostri dubbi: il bimbo rischiava cecità o malformazioni neppure rilevabili con le ecografie. La scelta era nostra, lui non poteva farci nulla.
Richiedemmo un altro consulto. Una ginecologa (donna: lo sottolineo non per sessismo, ma perché mi sarei aspettato una sensibilità diversa) confermò freddamente l’impossibilità del poterci dare certezze. Ci congedò in modo scostante e con poche parole: “non vedo che problemi vi fate: signora, lei non potrà sapere che destino ha il feto; nel dubbio, abortisca intanto che è in tempo, poi farà un altro figlio”.
Quella risposta non era solo crudele, era una spia linguistica. Non si trattava solo del cinismo professionale dei medici, ma di una visione arida della vita, reazione uguale e contraria a secoli di predominio maschile.
Mia figlia Stefania nacque il 2 gennaio 2001, sana e bellissima. Ma quella storia mi ha portato a pensare che il primo pericolo, quando si parla di aborto, non è tanto lo schierarsi pro o contro, ma è la banalità, figlia di quella rimozione cui accennavo che non si potrà risolvere se non affrontando il tema della sessualità, e in generale del rapporto dell’essere umano col proprio e con l’altrui corpo, senza che alla misoginia culturale dell’uomo si contrappongano reazioni irriflesse inadeguate a sconfiggerla.
Con stima,
Francesco “baro” Barilli


Caro Francesco, grazie della sua lettera, che ho letto con piacere, non solo perché ne condivido il contenuto, ma perché rappresenta un modo inedito, da parte maschile, di affrontare la "questione aborto". Neanche a me piace la semplificazione manichea, ma spesso vi si è spinti proprio dal fatto che, come lei dice, di aborto, di sessualità, di autodeterminazione, non si è mai "davvero" parlato, per cui alla rimozione o alla persistente misoginia degli uomini fa riscontro la reazione "banalizzante" delle donne che hanno a che fare quotidianamente e professionalmente con l'aborto. Non sono bastati purtroppo quarant'anni di femminismo per far entrare tra i temi prioritari della politica il rapporto tra i sessi, la sessualità, le problematiche del corpo. E ancora oggi, nel momento in cui sono la Chiesa e la destra integralista a immetterveli con una violenza senza pari, la sinistra esita e tiene l'aborto - lei giustamente osserva - come "argomento sfuggente e autonomo". Deve essere davvero difficile per un uomo dire di essere nato da un corpo femminile, soprattutto se da quel corpo, fermato nella sua funzione biologica temporanea, si finisce per dipendere tutta la vita.
Lea Melandri

lunedì 18 febbraio 2008

Fausto e Iaio Trent'anni dopo

Introduzione
2008: il passato e il presente, per non dimenticare Fausto e Iaio

18 marzo 1978: Fausto Tinelli e Lorenzo "Iaio" Iannucci vengono uccisi a Milano, in via Mancinelli, in un agguato fascista.
18 marzo 2008: ricorre il trentennale dell'uccisione di Fausto e Iaio. Trent'anni passati senza giustizia. Tra le molte iniziative previste per l'anniversario, abbiamo pensato subito a qualcosa di tangibile, di duraturo: un libro e un dvd che ripercorressero questi trent'anni; abbiamo chiesto un ricordo, una testimonianza, un'emozione a tutti quelli che hanno a cuore questa vicenda tragica che ha segnato Milano e l'Italia alla fine degli anni Settanta, lasciando familiari e amici senza giustizia; si è formata una commissione che da subito ha deciso di chiamarsi "Che idea morire di marzo 2008", per gettare un ponte ideale fra ieri e oggi. Una commissione composta da familiari e amici dei due ragazzi, insegnanti, giornalisti, scrittori, che ha raccolto il materiale, pervenuto soprattutto via e-mail. Troverete in questo volume alcune testimonianze di allora, tratte dal libro Che idea morire di marzo: le poesie, le lettere, i ricordi per Fausto e Iaio pubblicato nel 1978, alternate a quelle di oggi, in alcuni casi lasciate dagli stessi soggetti, con quel fardello di anni in più che per ognuno significa molte cose, diverse a seconda delle sensibilità individuali. Saggezza? Amarezza?... Certo non distacco, perché la partecipazione è ancora quella di trent'anni fa. Troverete gli interventi di chi, prima e dopo l'uccisione di Fausto e Iaio, si è trovato ad affrontare tragedie per molti versi simili: casi di mancata giustizia e verità negata. E altro ancora: la ricostruzione dei fatti, l'iter processuale, uno sguardo ai "luoghi della memoria"... Perché, dopo trent'anni, siamo ancora qui a ricordare? Siamo convinti che chi non ha memoria non ha futuro, e mantenendo viva la memoria storica pensiamo fermamente che si possano recuperare quei valori in cui credevamo e in cui crediamo ancora. Vorremmo che le parole di questo libro arrivassero al cuore soprattutto dei giovani, quelli che non hanno ancora trent'anni... un mondo diverso è possibile.
Dedichiamo questo libro a tutti quelli che, come Fausto e Iaio, nel loro ultimo saluto al mondo, hanno reso possibile creare un grande cerchio vivente di amore, uguaglianza, fratellanza, pace.
Maria Iannucci e Francesco Barilli
per la commissione "Che idea morire di marzo 2008"



Un commento su "La Sinistra L'Arcobaleno"

Appartengo alla generazione del riflusso, quella che in gioventù ha combinato poco o nulla. Di quel tempo ricordo la scarsa fiducia nelle forme di politica organizzata, lo stridente contrasto con le generazioni precedenti, che avevo conosciuto in mio padre, partigiano e comunista, in mia sorella anarchica, che da piccolo mi cantava la ballata del Pinelli o le canzoni di Lolli e Guccini. Nel mio giro di amici ci passavamo gli scritti del Che, le cassette dei cantautori, altri libri militanti... Però l'impegno era confinato ad una dimensione individualista o amicale; le azioni, quasi goliardiche.
Di mentalità anarchica (intendendo l'anarchia, citando De Andrè, come una categoria dello spirito che prescinde da rigidi dogmatismi o da meccanismi di appartenenza), non sono mai andato a votare fino al 2001. Poi arrivò Genova, e tutto quello che ne è seguito, sul piano personale: l'impegno di mediattivista, “persino” l'iscrizione a Rifondazione. In me si era smosso qualcosa, era nata l'esigenza – ingenua e per certi versi presuntuosa – di "fare qualcosa", sull'onda un po' guevarista di recuperare la capacità di provare indignazione di fronte alle ingiustizie.
Oggi non sono certo contento di quanto ho visto fare o dire da Rifondazione e dalla sinistra. Più ancora, mi sento tradito, quasi più nel metodo che nel merito. Questo perché, lasciando stare il disastroso bilancio del “non realizzato”, ho trovato imbarazzanti certe dichiarazioni, sugli avvicendamenti De Gennaro-Manganelli, sul decreto espulsioni, tanto per citare due esempi.
La preoccupazione del partito sembra però essere il nuovo soggetto politico e la sua salute elettorale: con questo approccio abbiamo già perso; e si tratta di una sconfitta sul piano culturale, che non muterà anche con un responso elettorale lusinghiero. Per qualcuno il mal di pancia sarà forte, ma la maggior parte credo metterà la croce sul simbolo, non è questo il punto: quel che rimprovero al partito non è solo il non aver ottenuto quanto atteso dalla nostra gente, quanto il non volersi assumere la coresponsabilità nel fatto che durante il governo dell'Unione abbiamo assistito addirittura ad un arretramento su quegli obbiettivi. Siamo partiti sperando nei Pacs, abbiamo visto affossare i DiCo e oggi addirittura ci troviamo a difendere la 194.
Quel che non posso perdonare al gruppo dirigente è non tanto (o non solo) l'aver contribuito ad affossare le speranze di una generazione, quanto il non volerlo riconoscere. Se dico questo non è per cercare una frase ad effetto. Fortunatamente, le speranze non sono come le vite: le vite, una volta spezzate, non ritornano; le speranze sì. Ne vedremo  crescere di nuove, o vedremo ricrescere le vecchie sotto altre forme, ma non lo faranno "con" la Sinistra Arcobaleno o "grazie" ad essa.
Una volta ho parlato con un vecchio, saggio e semplice compagno, che aveva fatto il partigiano. Mi disse semplicemente "nella mia vita ho mangiato molta minestra grama: capisco se mi chiedono di mangiarne ancora. Ma m'incazzo quando cercano di convincermi che quel che mi propongono oggi non è minestra ma caviale e champagne".
Penso che quel vecchio compagno avesse ragione, e se darò il mio voto alla Sinistra Arcobaleno sarà solo perché non voglio consegnare alla residualità un patrimonio di valori in cui credo, ma nella convinzione che il parlamento sia un aspetto della vita pubblica, e neppure il più importante. E' nella società che chiedo al partito di riprendere le nostre battaglie; ed è nella società che chiedo al partito di riconoscersi, allo stato, sconfitto, senza vendere la nuova operazione politicista come fosse qualcosa di "alto", e non l'ultimo tentativo di non sprofondare nell'abisso.

lunedì 28 gennaio 2008

Nuova edizione de "La rossa primavera"

Da gennaio è in distribuzione la nuova edizione de "La rossa primavera", per le Edizioni Clandestine.

cliccando qui potrete leggere la "vecchia" scheda del libro (scritta per la prima edizione, quella allegata a Liberazione e L'Unità), nonchè vedere sia la nuova che la vecchia copertina.