domenica 27 aprile 2008

Un’analisi sulla crisi della sinistra e di Rifondazione

Ho letto diversi commenti sul fallimento elettorale della Sinistra Arcobaleno e sul conseguente dibattito interno a Rifondazione Comunista. Un affollarsi di contributi contrastanti, uniti da quella che sembra essere una regola dell’analisi politica: parlare nell’immediatezza dei fatti. Personalmente ho preferito attendere qualche giorno; un po’ per una sorta di “elaborazione del lutto”, un po’ per evitare che impulsività o sconforto prendessero il sopravvento.
Sul fallimento elettorale in sé resta poco da dire. Il rifiuto del progetto Sinistra Arcobaleno è emerso inconfutabile; per le sue dimensioni e per i tempi rapidissimi in cui si è consumato (non ricordo un’emorragia di consensi tanto vasta consumarsi in così pochi mesi). Sono però rimasto colpito negativamente più dal dopo elezioni che dal risultato nudo e crudo. Ho trovato le dichiarazioni della maggior parte dei responsabili di Rifondazione segnate da grande confusione, come se il KO elettorale li avesse storditi fino a togliergli lucidità e capacità di analisi. “Grande è la confusione sotto il cielo”, direbbe qualcuno, ma a smentire l’aforisma la situazione è tutt’altro che eccellente.
I primi commenti successivi al disastro del 14 aprile imputavano la disfatta al PD e alla fretta con cui si era avviato il processo unitario. Il primo punto lo trovo paradossale. Se Veltroni ha cercato (e ottenuto) voti a sinistra è perché il suo progetto è stato ritenuto più efficace e convincente di quello della Sinistra. Chiedersi se questa efficacia sia vera o solo percepita è inutile, serve solo a ribaltare il vero nodo del problema, perchè stava a noi dimostrare la nostra efficacia. E lamentarsi del ruolo dei media è ancora più sterile: il mondo dell’informazione non ci ha certo voltato le spalle da ieri, ma nella stagione di Genova eravamo perdenti politicamente ma convincenti (se non vincenti) culturalmente, seppur non godendo di grandi attenzioni da parte di tv e giornali. Sulla perdita dei “nostri” voti (il virgolettato è intenzionale) a vantaggio di PD, astensionismo e persino Lega, credo inoltre che per un buon inizio di analisi si potrebbe smettere di parlare di “nostro” elettorato. Non esiste più: a sinistra la gente non se la sente di consegnare un mandato in bianco ai propri referenti politici, perché da tempo si sono rotti i meccanismi di rappresentanza e appartenenza, fra la base e i vertici della sinistra.
Il secondo punto (la fretta con cui si era avviato il processo unitario) è evaporato talmente in fretta che non vale la pena ribattere. Ormai la Sinistra Arbobaleno sembra il cugino scemo di cui tutti si vergognano, ma che fino a ieri ci accompagnava mentre noi sorridevamo di fronte alle sue stramberie. Vale la pena sottolineare che il “nuovo soggetto politico unitario” non ha entusiasmato nessuno non perché sia stato fatto in fretta, ma per come è stato proposto: imposto dall’alto, senza alcun processo partecipativo, e per di più venduto come un’esigenza dettata dalla storia o – peggio – “ciò che ci chiede la nostra gente”.

Spariti, o almeno affievoliti, quei primi abbozzi di analisi, è partito il confronto interno al partito. Ho seguito il dibattito emerso nell’ultimo comitato politico di Rifondazione, che ha portato a una contrapposizione fra Ferrero e Giordano, alle dimissioni della segreteria e al varo di un congresso cui si arriverà con posizioni allo stato indefinite, stante la fluidità della situazione del partito, sicuramente non riassumibile con la sola contrapposizione bipolare cui accennavo, che sembra anzi assai provvisoria. La sensazione più dolorosa, per me, è stata quella di una distanza incolmabile, come se la falce elettorale avesse tagliato orizzontalmente il partito. Mentre la testa si dibatte, la coda soffre di un dolore incompreso o comunque “diverso” da quello percepito dal vertice. Due sofferenze distanti, nello stesso corpo.
Una riflessione che propongo, a tutti quelli che in questi anni hanno condiviso le speranze (magari non il percorso) del partito, è il chiedersi se davvero la base riesca a cogliere reali e fondamentali differenze tra Giordano e Ferrero. A questa domanda andrebbe collegata un’altra: se il linguaggio stesso che viene usato non venga ormai percepito come testimonianza di una distanza tra pensiero e azione, tra speranze e realizzazioni pratiche. Tra cuore e ragione.
Nel periodo elettorale ho sentito ripetere come un mantra “nuovo soggetto politico unitario e plurale”. Oggi, forse, i più hanno capito che non funzionava, che al nord gli operai magari restano iscritti alla Fiom, ma votano Lega. Ma anche chi l’ha capito sembra alla ricerca di un altro mantra, senza riuscire a trovarlo. La semantica sa essere spietata: quando è bulimica, assieme alle idee divora le parole stesse.
Una precisazione: non m’interessa minimamente partecipare a un dibattito da “notte dei lunghi coltelli”, e so benissimo che i mass media marceranno su questo binario fino a luglio, ben oltre la pur dura realtà interna del partito. Alimentare le maliziose pruderie dell’informazione non mi attira. Capisco dunque chi chiede di non personalizzare il dibattito con critiche a Bertinotti o ad altri dirigenti, che suonerebbero ingenerose. Il rischio, effettivamente, esiste; ma credo non ci sia nulla di personale nel ricordare la solidarietà espressa a Ferrara, il “processo irreversibile” del percorso unitario, il comunismo come “tendenza culturale” interna alla Sinistra. Si tratta di affermazioni di contenuto (e nel criticarle non c’è nulla di personale) che, assieme alla sciagurata linea politica (oscillante negli ultimi anni tra opposizione e governismo, transitando per movimentismo, e arrivando alla sintesi “di lotta e di governo” che ha saputo svuotare entrambi i termini) hanno portato alla crisi attuale. E preferisco non riesumare, sfogliando gli archivi di Liberazione, le imbarazzanti dichiarazioni di piccoli dirigenti che, allevati e cresciuti nel culto della fedeltà alla linea bertinottiana, hanno costruito carriere veloci e brillanti come bolle di sapone, e della stessa consistenza.

Condivido in gran parte la severa analisi di Franco Berardi Bifo su Liberazione del 18 aprile. La trovo però, più che troppo apocalittica, troppo astratta. Non credo, cioè, sia inutile ricostruire la sinistra; ritengo invece doveroso che la sinistra riparta da zero, assumendosi la responsabilità di proporre un’alternativa di società che sia basata non su slogans (evocativi quanto privi di sostanza), ma su un agire concreto. Per questo è necessario riallacciarsi ai movimenti, ma non (come giustamente rilevato da Bifo) in modo parassitario, per carpirne emotivi e temporanei consensi elettorali, ma per interrogarsi assieme ad essi su concrete pratiche che incidano sul sociale.
Abbiamo chiari i concetti di crescita, decrescita e “a-crescita”? Sappiamo trasmetterli in modo efficace?
Sappiamo rispondere a pulsioni securitarie o addirittura razziste senza demonizzare il concetto di sicurezza, ma al contrario formulando una proposta “nostra” di sicurezza, necessariamente saldata a principi di giustizia sociale?
Abbiamo chiaro il ruolo di poteri e istituzioni? Sappiamo interagire con essi senza rinunciare alla nostra identità e senza per questo chiuderci in astrazioni? Sappiamo, in altre parole, utilizzare poteri e istituzioni come un mezzo?
Abbiamo una politica energetica che non sia succube degli interessi economici ma che sappia essere concreta?
Ci lamentiamo (a ragione, s’intende) della cancellazione di “Bella Ciao” dal 25 aprile, ma capiamo che quella cancellazione è figlia dell’assenza di una nostra proposta culturale che sia percepita valida e attuale? Capiamo che se la nostra presenza è ritenuta residuale diventa residuale o inattuale il concetto stesso di antifascismo? E, con questa deriva, diventano inattuali “Bella Ciao” e la Resistenza stessa, mentre il cancro del fascismo viene circoscritto pressochè alle sole leggi razziali? Capiamo, per usare un paradosso, che i libri di Pansa hanno successo perché noi non abbiamo saputo difendere i nostri o scriverne nuovi?
Capiamo il valore simbolico di indire il prossimo congresso in giorni coincidenti con l’anniversario del G8 genovese, o vogliamo usare la circostanza come un esorcismo scaramantico?
Abbiamo scritto belle analisi sul precariato, recensito libri e film che ne parlano. Ma sappiamo parlare ai precari?
Capiamo, in buona sostanza, che non si tratta di far tornare “gli ultimi” dalla nostra parte, ma di tornare noi verso di loro?

So bene che tutti questi argomenti meriterebbero una trattazione ben più approfondita, e che le ragioni della nostra sconfitta si intrecciano con altre: dalla devastante esperienza di governo a considerazioni, di natura ormai quasi antropologica, sull’involuzione della società e dell’elettorato italiani. Ma partire da quelle domande mi sembrerebbe un buon inizio. Così come sarebbe utile parlare non di azzeramento dei dirigenti, ma di azzeramento del dirigismo. Che è operazione più complessa, ma ormai imprescindibile.