giovedì 12 novembre 2015

La storia del 900 nel Biliardino di Alessio Spataro




Biliardino (di Alessio Spataro - Bao Publishing) era uno dei fumetti che maggiormente m’incuriosiva, fra i vari presi nella consueta “abbuffata” lucchese. Ha finito con l’essere il più fresco e il più sorprendente: un libro riuscitissimo e dalla lettura appassionante.
Nasce da una felice intuizione: narrare la vita avventurosa di un personaggio tutto sommato poco conosciuto, Alexandre Campos Ramirez, meglio noto come Alejandro Finisterre, inventore del biliardino (o “calcio balilla”). Un’idea già di per sé curiosa, ma che sembrerebbe iscriversi nel campo del minimalismo: nulla di più errato, perché il biliardino e il suo “inventore” diventano il filo conduttore di una narrazione ambiziosa, che affronta l’intera storia del novecento. Tutto questo a partire dalla guerra civile spagnola, snodo cruciale della prima parte del secolo scorso che conduce alla seconda guerra mondiale, alla nascita delle feroci dittature europee, ma pure a pulsioni ideali e artistiche che hanno reso unica e irripetibile quella fase storica, pur nella sua tragicità. Così come la vita rocambolesca di Alejandro Finisterre è unica e consente ad Alessio di inserire camei di protagonisti del 900 (Tina Modotti, Frida Khalo, Diego Rivera, Camus, Che Guevara, Neruda, Orwell, Galeano e altri ancora) ma pure omaggi artistici (Guernica di Picasso o il celebre ritratto-nudo di Tina Modotti).

Biliardino è dunque frutto di una accurata ricerca documentale. Una cura evidente anche sul piano stilistico.
Alessio gioca su una bicromia essenziale rosso/blu, proprio come le squadre che si fronteggiano nel gioco da tavolo. Riesce nel difficile compito di mediare drammaticità e umorismo, aiutato dal suo tratto espressivo e “grottesco”, perfettamente efficace per dare un tocco di leggerezza al racconto. Infatti, seppure alle prese con un lavoro monumentale, Spataro non perde mai l’equilibrio fra narrazione “drammatica” e accenti “leggeri”, e la lettura risulta scorrevole per tutte le 300 tavole del libro. Anzi, è da sottolineare che, saggiamente, Alessio accantona quel “sarcasmo pesante” proprio di suoi precedenti lavori. Un sarcasmo, beninteso, pertinente nelle sue vignette di satira politica, ma che certamente avrebbe appesantito un lavoro di più ampio respiro, che non richiede un’uguale aggressività nei toni.
Per inciso, sembra che per Alessio questo “nuovo” approccio stilistico risulti naturale. Basti pensare alla delicatezza con cui tratteggia la storia d’amore (o comunque la giovanile infatuazione) fra Alejandro e Maria Casares (futura attrice e amante di Camus).

A cercare un difetto in Biliardino: come detto il libro è ricchissimo di spunti e citazioni, che forse non tutti possono cogliere. Ad esempio, la feroce conflittualità che danneggiò le forze di sinistra nella guerra civile spagnola, portandole alla sconfitta, appare (e sembra trasparire l’amarezza dell’autore) ma temo finisca col risultare criptica per il lettore comune. Analogamente i già citati “camei” di vari personaggi forse finiscono col disorientare un lettore poco attento o comunque non “già infarinato” sul 900. Ma tutto questo non svaluta minimamente il valore del libro. Anzi: la sensazione è che, al contrario, Alessio si sia trovato di fronte a una mole sterminata di aneddoti curiosi, in cui ha selezionato quelli più funzionali al racconto, probabilmente scartandone altri ugualmente gustosi.
Pure la velocità con cui Spataro gestisce i vari cambi di scena (e di ambientazione temporale e geografica, con le conseguenti fugaci apparizioni dei vari “personaggi celebri”) è perfettamente funzionale per dare un ritmo incalzante alla lettura, così come frenetica è stata la vita di Finisterre: poeta, inventore (a lui si deve anche il primo “voltapagine a pedale” per pianisti), ma anche rifugiato politico antifranchista, editore, imprenditore… Sicuramente personaggio picaresco, costretto dalla necessità ad aguzzare il proprio ingegno per “inventarsi” astutamente una via d’uscita di fronte a ogni avversità.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 4 novembre 2015

Di Pasolini non parlo nel quarantennale…

Nel quarantennale dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, Facebook è stato sommerso da un fiume di citazioni dello scrittore. Mi ha dato una sensazione strana vedere quelle frasi inflazionate come fossero biglietti dei Baci Perugina… Per questo (ma pure – l’ammetto – perché non sono un intenditore della sua opera) non ho scritto nulla sull’anniversario o sulla sua figura. Né intendevo farlo.
Hanno poi stuzzicato la mia curiosità un articolo (Sette buoni motivi per dimenticare Pasolini, di Francesco Longo) e una polemica nata sulla bacheca Facebook dell’amico e poeta Lello Voce. Lello definisce PPP “un poeta mediocre; ideologicamente di destra; formalmente scontato e attardato…”. Successivamente ha argomentato la propria posizione: Quel “santino” di Pasolini, intervento a mio avviso più interessante di quello di Longo.
Ma torniamo al momento in cui Lello non aveva ancora articolato meglio il proprio pensiero, limitandosi al post su Fbook. Ho dato un’occhiata ai commenti: sembrava di assistere a una rissa tra tifosi, più che a un dibattito sul valore (intellettuale/politico/poetico) di un uomo che, piaccia o meno, ha lasciato un segno nella cultura italiana.
Il tifo da stadio lasciamolo alle curve, dove fa già abbastanza danni. Non può nascere alcun frutto da un dibattito in cui si dice “Pasolini era un genio indiscutibile, punto”. Credo che lo stesso PPP sarebbe molto perplesso dal tono di certi sostenitori. Un intellettuale lo si discute e lo si critica; specialmente quando ha concretizzato il suo pensiero attraverso vari mezzi espressivi: romanzi, articoli, poesie, cinema. Non è una bandiera da sventolare, né un santino: come correttamente ricorda Lello, non è così che se ne onora la memoria. E proprio quell’indiscutibile è il termine meno appropriato verso uno scrittore che “pretende”, innanzitutto, di essere “discusso”. Definirlo intoccabile equivale a ucciderne l’opera, a depotenziarne il pensiero.
All’ottusità dei “ciechi devoti” non deve però rispondere la furia iconoclasta dei distruttori di idoli. Si tratta di un’ottusità speculare a quella dei devoti, anch’essa non fa bene al dibattito. A scanso di fraintendimenti, Lello col suo articolo NON va iscritto in questa categoria. Si potrebbe dissertare su quanto la “dimensione social” costituisca una trappola in cui ogni opinione, riferita “sinteticamente e apoditticamente” (citando Voce), finisca col mortificare il dibattito invece di arricchirlo, ma questo ci porterebbe fuori strada.

(so bene d’essermi dilungato in questa premessa. Lo farò ancora e la premessa e gli incisi – di cui abuserò – risulteranno più lunghi del mio scritto “nel merito”, violando la legge non scritta della comunicazione dell’era Fbook – vedi sopra – che vuole condensare qualsiasi intervento in poche righe, meglio se in una battuta arguta e feroce, laddove il lettore medio abbandona presto uno scritto superiore alle 10 righe. Poco o affatto m’importa: so che Lello e pochi altri mi seguiranno e tanto mi basta. Aggiungo solo che sulla tragica fine di PPP sottoscrivo quanto detto da Lello e quindi non mi soffermerò oltre)

Non ho conoscenze tecniche e formali per dissertare sulla poetica Pasoliniana. Non ne ho i mezzi, lo riconosco (anche con un pizzico di vergogna). E pure io ho sempre trovato Valle Giulia una mezza sciocchezza (forse è il vero motivo per cui si tratta della sua lirica più nota e citata…). Ho sempre ritenuto Pasolini, più che “di destra” come dice Lello, un conservatore illuminato, capace di punti di vista interessanti. In  questo lo accosto a Gaber (NON sto mischiando pere e pomi: sul paragone, che può fare storcere il naso a molti, tornerò più avanti).
Ricordo però che quando scrissi il mio fumetto su Piazza Fontana decisi da subito di citare e adattare ampi brani della sua Patmos. Una lirica che mi aveva colpito nel profondo e a livello istintivo, in un modo che non saprei spiegare meglio. E non saprei spiegarlo meglio per i miei limiti tecnici ma pure, soprattutto, perché forse il segreto della poesia è colpirti nel profondo senza che il lettore lo sappia spiegare (come invece può e deve fare chi ha la dimestichezza col “mezzo poesia”).

Tornando alla poesia su Valle Giulia, riprendo e adatto mie vecchie riflessioni. Ho sempre pensato, forse sbagliando, che quel testo contenesse ironia e vari livelli di lettura. Non furono in molti a cogliere queste sfumature. Pasolini comunque precisò più tardi il proprio pensiero in diversi scritti; grazie ad un bell'articolo di Angela Molteni, apparso tempo fa su http://www.pasolini.net/ , ne riporto alcuni stralci datati 17 maggio 1969: "quei miei versi, che avevo scritto per una rivista "per pochi", "Nuovi Argomenti", erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, "L'Espresso" (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan ("Vi odio, cari studenti") che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. ... i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all'odio razziale i poveri - gli spossessati del mondo - ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un'altra specie di odio razziale ...".

Di quella poesia comunque, indipendentemente dalle successive precisazioni dell'autore, ancora oggi è rimasta solo la traccia superficiale della prima lettura. Succede spesso, anche in tempi recenti, di accreditare quelle parole come fossero una semplicistica e acritica presa di posizione a favore dei celerini contro gli studenti, quasi che Valle Giulia la si possa ciclicamente usare come una clava virtuale per demolire ogni lotta sociale. “Ecco i giovanotti no global e benestanti che tirano i sassi contro i poliziotti che guadagnano 1200 euro al mese”, tanto per dire…
Pasolini non era uno sprovveduto. Sapeva che le forze dell'ordine in Italia si erano ferocemente distinte per numerose brutalità e omicidi a danni di manifestanti. Sapeva che il nocciolo della questione non stava nel poliziotto sottoproletario malpagato, ma nel ruolo che a questo era stato attribuito. La divisione del mondo fra ricchi e poveri andava inasprendosi, ed il vero nemico (il Potere) era abbastanza scaltro da riuscire ad utilizzare strumentalmente anche "certi" poveri verso "altri" poveri: nella sua poesia Pasolini intendeva sottolineare, almeno secondo la mia personalissima e criticabilissima lettura, quanto di paradossale e pericoloso ci fosse in tutto questo.

Su “Io so”. Anche quello è un pezzo citatissimo e dibattuto. E pure in questo caso ritengo che il senso delle parole di PPP sia stato travisato. No, lui non sapeva i nomi di chi mise una bomba nella banca di Piazza Fontana o sotto il portico di Piazza della Loggia. Ma conosceva le logiche del potere, che risponde alla sola legge dell'autoperpetuazione ad ogni costo. Capiva le finalità politiche (neppure univoche) cui dovevano rispondere le stragi, e lo capiva con i soli mezzi con cui è possibile operare un’analisi di questo tipo: quelli dell’intellettuale, che non pretende di supplire con le proprie riflessioni all’azione della Magistratura.
Lello critica Pasolini per aver pubblicato il pezzo sul Corriere, “foglio ufficiale delle forze conservatrici e borghesi italiane”. Rappresentante cioè proprio quei centri di potere che stavano dietro alle stragi di quel periodo storico. A mio avviso qui si sbaglia: era proprio lì che andava pubblicato, proprio per i motivi indicati da Lello…

In generale, e sempre IMHO, ritengo che Pasolini subisca lo stesso trattamento problematico di chi diventa, da morto, “fenomeno pop”. Chi mi segue sa bene, ad esempio, come io consideri De Andrè: non tanto il mio cantautore preferito, quanto l’uomo che mi ha insegnato a stare al mondo. Che dire dunque di un Salvini che afferma “sono cresciuto a pane salame e De Andrè”? (al limite, considerando che le canzoni non possono avergli nuociuto, ci si può domandare che diavolo di salame abbia mangiato…).
Anche Faber, da morto, è diventato un’icona; i più al massimo ne salvano qualche citazione, buona per fare bella figura in un salotto, e tanto basta. Ma ogni scrittore (o poeta o cantautore o quel che si vuole), una volta diventato icona pop, non ha più il controllo della propria opera (già da vivo; figuriamoci da morto).
Per i pochi che non ho ancora annoiato abbastanza farò un altro esempio, rimaneggiando ancora una mia vecchia riflessione.
La tragica e prematura morte di John Lennon ha fatto diventare Imagine, che già prima era il suo pezzo più celebre, una sorta di “inno depotenziato”. Tutti possono canticchiarlo, fregandosene del contenuto. E’ uno schema codificato: si rende un dato personaggio una sorta di immaginetta sacra (lo si è fatto anche con Mandela, per fare l’ennesimo esempio, ma ce ne sarebbero molti altri), banalizzando il messaggio di cui è stato portatore in vita. Condannate pure a parole iniquità e sfruttamento, ma non disturbate chi li produce e ne trae profitto; canticchiate Imagine, ma non mettetela in pratica. Questo sembra volerci dire chi detiene il potere…

(quasi dimenticavo la riflessione su Gaber. Che meriterebbe ben altro approfondimento, ma tempo e spazio sono ormai alle strette, per cui accontentatevi.
In questo caso si tratta di un artista che conosco bene a amo molto. Specialmente il “teatro canzone”, di cui ho tutti i cd – che raccolgono i suoi spettacoli nelle diverse stagioni, dai primi anni ’70 alla morte. Lo amo, dicevo, per la capacità di emozionarmi con i suoi testi; per l’indiscutibile capacità interpretativa; per la capacità di farmi riflettere anche quando non lo condivido.
Pure lui è diventato un mezzo santino, citato a sinistra come a destra – molto spesso a destra, di solito in modo strumentale – e sovente con contraddittorie analisi sulla sua collocazione politica.
Anche Gaber a mio avviso era un “borghese conservatore illuminato”. Interessante quando denunciava i vizi della borghesia; discutibile quando si lasciava andare ad analisi puramente politiche che sapevano di grillismo ante litteram; commovente quando dimostrava la capacità di saper mettere in discussione, nell’uomo borghese, innanzitutto se stesso; splendido, però, quando cantava l’individuo, come in Gildo o ne L’illogica allegria. E tutto questo non c’entra con PPP, lo so, ma avevo voglia di dirlo)

(ah, sì: L’illogica allegria è la canzone che voglio venga suonata al mio funerale)

Francesco “baro” Barilli