lunedì 7 dicembre 2020

Ricordo di Lidia Menapace: Intervista del 2005

Dopo una vita piena, di impegno civile e passioni e valori, Lidia Menapace ci ha lasciati.

L'avevo intervistata tra la fine del 2004 e il 4 gennaio 2005 (data chiusura dell’intervista, realizzata via mail il 23 dicembre 2004 e affinata successivamente, sempre via mail), per Ecomancina.com.

L'intervista, a rileggerla oggi, è datata (specie le mie domande, "ancorate" a quel periodo), ma la figura di Lidia si staglia pulita. Segnalo, in particolare, l'ultima risposta, condita da un gustoso aneddoto... Ma non vi rubo altro tempo: leggete, dai...

(Ti sia lieve la terra Lidia. E pure tutti i petali rossi che la ricoprono...)

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Intervista con LIDIA MENAPACE

di Francesco Barilli

Lidia Menapace: un percorso umano e politico ricco di grandi svolte, che si intrecciano con quelle della sinistra italiana da ormai cinquant’anni.

Nata a Novara nel 1924, prende parte alla Resistenza come staffetta partigiana, con una scelta non violenta che rispetterà in seguito e contrassegnerà la sua vita e la sua attività politica. Impegnata inizialmente nel movimento cattolico di base, è tra i fondatori de “Il Manifesto” ed è tuttora una voce significativa della cultura di sinistra e più in generale dei movimenti di solidarietà. Nel luglio 2004 è stata lanciata la campagna di raccolta firme per la sua nomina a senatrice a vita.


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Francesco Barilli:

Nell’introduzione, presentandoti ho parlato di “un percorso ricco di svolte”; in una vecchia intervista ho letto che tu stessa dicevi “solo chi ha idee può anche cambiarle”. Questo mi porta ad una riflessione: oggi viviamo un momento di grande fermento (ma anche di grande confusione…) nella sinistra, e abbiamo dovuto constatare diversi episodi che testimoniano una certa insofferenza da parte dell’ala più “movimentista” rispetto alla parte più “istituzionale” (e a dire il vero neppure negli anni 60/70 il rapporto fra il PCI ed i movimenti era “facile”…). Forse anche oggi è il momento di “una svolta”: a tuo avviso è possibile trovare una forma di dialogo che unisca le diverse “anime” della sinistra? E cosa vuol dire, oggi, “essere di sinistra”?


Lidia Menapace:

Confermo che solo chi ha idee può cambiarle, ovviamente… Tuttavia non come si cambiano gli abiti al variar delle stagioni, bensì quando eventi significativi modificano i punti di riferimento: ad esempio una guerra, una attività politica volta a far rinascere forme di razzismo, una politica economica che mette in discussione tutto ciò che era stato ottenuto ecc. ecc. In questi casi non solo è necessario resistere alle pressioni, ma anche vedere che cosa di sbagliato inadeguato non convincente c'era negli atteggiamenti precedenti, che non hanno retto e lasciato che avvenisse la svolta. Oggi - ad esempio - dopo il crollo dell'URSS e la cattiva salute dei vari, una volta grandi, partiti socialdemocratici dell'Europa occidentale, non è possibile non sottoporre a critica serrata un patrimonio di idee pratiche forme organizzative che non ha retto, è stato sconfitto. E ciò non per assumere le idee di chi ci ha battuto, ma per prepararsi a rispondere su un terreno più efficace. Essere di sinistra oggi, accanto alla sempre presente e sempre più necessaria ispirazione egualitaria e a favore delle persone, genere, culture e popoli e classi oppresse sfruttate ecc., significa scegliere, fare una opzione senza residui (senza se e senza ma) a favore della pace, come forma della politica, e della nonviolenza come suo metodo. Abbiamo votato a Firenze al primo Social Forum europeo: "Non c'è pace senza giustizia ottenuta con mezzi pacifici".


F. B.:

Una domanda che si collega, in parte, alla precedente: come giudichi le recenti azioni di “disobbedienza civile”, sulle quali negli ultimi tempi sono sorte molte polemiche, anche a sinistra?


L. M.:

La disobbedienza civile (cioè dei e delle cittadine, per distinguerla dall'insubordinazione militare, che ha altre forme e altri rischi) è uno dei modi dell'azione nonviolenta. Essa comporta spesso anche affrontare, a certe condizioni, azioni illegali, perchè non sempre le leggi vigenti sono giuste e spesso l'unico modo per rendere visibile la loro ingiustizia è di violarle senza agire in modo violento proprio per far capire l'intima giustezza delle richieste e della lotta. Quando ad esempio le costituzioni liberali europee riconoscevano il diritto di associazione, ma lo negavano agli operai, costruire il sindacato era illegale ed "eversivo", ma giusto anche se disobbediente. Quando il primo maggio era fuori legge, organizzare un corteo era una azione illegale nonviolenta di disobbedienza civile. Lo sciopero fu a lungo vietato e organizzare scioperi una azione illegale nonviolenta. Quando l'aborto era un reato organizzavamo viaggi clandestini nei paesi in cui si poteva fare e molte tra noi si autodenunciarono per aborto anche falsamente, per far constatare attraverso i processi la palese ingiustizia della legge vigente. Una forma molto dura di disobbedienza civile prossima all'insubordinazione militare fu l'obiezione di coscienza, che ha ottenuto il risultato di far abolire la leva e di contare quanti giovani fossero contrari al militare. L'azione diretta nonviolenta contro il carovita è oggi una delle forme illegali ma giuste per far constatare che è in corso una politica economica che produce ingiustizia sociale e ineguaglianza crescente.


F. B.:

Una domanda sulla tua esperienza di partigiana: sempre in una tua intervista tu hai detto: “Feci la staffetta, rifiutandomi di portare armi”. Poche parole, che mi sembrano racchiudere una scelta di grande spessore morale: in che modo quella tua scelta ha segnato la tua vita, in seguito? 


L. M.:

La decisione di non portare armi in un movimento che era anche armato (ma non militare) fu fatta in modo spontaneo, dapprima solo perchè avevo paura di farmi male da sola, per una scelta antieroica. La Resistenza era antieroica: ti dicevano - se scoperta - di cercar di resistere un giorno anche alle torture e poi di dire tutto, dato che in un giorno quelli che erano stati in contatto con te potevano mettersi al sicuro: non vi era traccia di una cultura del "gesto" eroico, del "martirio", consideravamo ciò dannunziano e addirittura anche un  po' fascista. Quando poi mi fu detto che però potevo esercitarmi ad usare le armi dissi di no consapevolmente, perchè non volevo addestrarmi a sparare addosso a una qualsiasi altra persona. Ero disposta a organizzare evasioni, nascondere perseguitati politici e razziali, ospitare renitenti e fuggiaschi, rifornire le formazioni di vettovaglie medicine  ecc., distribuire stampa  clandestina, portare messaggi e ordini, deviare treni per impedire il passaggio di truppe, portare plastico per attentati ecc. ecc. Queste scelte erano  riconosciute, dato che una resistenza è un movimento anche armato, ma non militare, bensì politico e nessuno può ordinarti di fare una cosa che non vuoi fare per ragioni di coscienza. Questo è uno dei grandi meriti della Resistenza italiana cui non si fa un grande servizio presentandola solo come una specie di guerra "minore".


F. B.:

Da mediattivista, sono di solito piuttosto critico verso il mondo dell’informazione “ufficiale” (e vedremo più avanti di approfondire questo aspetto), preferendo il mondo dell’informazione alternativa via internet. Il Manifesto però ha sempre rappresentato una voce libera ed indipendente, a volte “scomoda” anche per la sinistra. Vorrei sapere qualcosa su come nacque il Manifesto e cosa ricordi di quell’esperienza. 


L. M.:

Il manifesto fu una specie di straordinaria sfida insieme razionale appassionata ironica, insomma una di quelle cose che non si incontrano di frequente. Quando Pintor con altri la pensò, ci parve una specie di rodomontata che però, per quanto mi riguarda, mi prese subito. Una delle cose migliori del Sessantotto era che sembrava non ci fossero limiti alla fantasia e all'ardimento: la prima fase del Sessantotto fu così e il manifesto ne fu una delle prove più significative. Poi arrivarono nel movimento le tentazioni partitistiche (ciascun pezzetto tentò di trasformarsi in partito con tutte le ristrettezze che si aggravano nelle piccole organizzazioni) e poi fu sconfitto dal ricorso alla violenza. Il manifesto ha poi avuto varie vicende che non ho sempre del tutto condiviso, ma resta una delle più belle stagioni della mia vita, che di cose importanti non è stata povera. Pensare un quotidiano oggi può venire in mente a molti e le nuove tecnologie comunicative rendono tale pensiero fattibile; ma  noi agivamo ancora con il gravame della vecchia carta stampata con tutte le difficoltà pesi ecc. Insomma, che i proponenti ce l'abbiano fatta è ancora oggi una cosa che stupisce persino noi che c'eravamo.


F. B.:

Restando al “tema informazione”: ultimamente la censura in Italia ha colpito anche la satira. Non trovi per certi versi paradossale che il potere abbia tanta paura dell’elemento comico/satirico? O forse non è il segno che la stampa (che il potere dovrebbe temere maggiormente) è ormai per la maggior parte “addomesticata”, e per la rimanente parte confinata in una nicchia talmente limitata da non destare più timori?


L. M.:

Come sai la satira ha sempre irritato il potere, anche se tra gli antichi era accettata in quanto sembrava ricordare anche ai potenti una comune sorte: sicchè il generale vittorioso e trionfante riceveva gli sberleffi e le frecciate dei suoi soldati  ("Viva  il seduttore calvo!" ci dicono che gridassero a Cesare); così come i buffoni di corte richiamavano anche i re a convincersi di essere mortali e fallibili. Insomma per gli antichi la satira "castigat ridendo mores" e dunque funge da ridente richiamo a una pubblica moralità. I potenti di oggi sembrano meno disposti a sentirsi dire che sono come gli altri: temono  una diffusione più ampia e incontrollabile della loro immagine che i mezzi di oggi (specialmente cinema e tv) possono mostrare in posizioni non piacevoli non autorevoli ridicole: tutti ricordano una foto della principessa d'Inghilterra che si cavava una scarpa troppo stretta sotto un tavolino durante una solenne cerimonia. Spesso i ritratti dei grandi personaggi antichi ci appaiono in una maestà dovuta al fatto che posavano nelle loro vesti e posture migliori per grandi pittori, che tuttavia si rifacevano mettendo sul volto di papa Giulio II magari una espressione volpina e crudele. Credo che oggi il fastidio per la satira dipenda dal fatto che non sono in grado di rispondere tenendo botta, tranne forse Andreotti. La stampa non è in Italia al meglio della possibile indipendenza, data la proprietà della stessa: é più disposta a punzecchiare il potere, a denunciarlo, a chiamarlo a rispondere la stampa inglese o nordamericana, capita…


F. B.:

La censura ha molto a che vedere con un modo distorto di intendere l’informazione… In questi ultimi anni la cosiddetta “controinformazione”, o “informazione alternativa”, ha assunto una certa importanza, e non solo in Italia. I media tradizionali però parlano con imbarazzo e fastidio dei media alternativi, e quando lo fanno è per rivolgere accuse tanto pesanti quanto assurde (vedi ad esempio gli attacchi portati ad Indymedia, e non sto parlando solo del recente sequestro dei server). Tu segui l’informazione su internet? Che cosa pensi di quel mondo e delle accuse che gli vengono rivolte?


L. M.:

Sono naturalmente contro tutte le censure. A proposito di informazione elettronica penso che non abbiamo ancora capito quanto può essere potente e utile. La mia impressione è che ogni qualvolta appare un nuovo modo di comunicare è indispensabile che la scuola lo insegni come un alfabeto. Tendo sempre a considerare i media come un alfabeto, quindi l'accesso ad essi deve essere considerato un diritto comune e la scuola, ovviamente pubblica, si deve attrezzare a insegnare qualsiasi alfabeto. A questo punto mi preme dire che per alfabeto non intendo la semplice “traccia di segni”, bensì un linguaggio. La Moratti dice che bisogna sapere informatica e inglese appunto nella forma di mattoncini per costruire la casetta del futuro: il simbolico che usa è arcaico e pericoloso. Non si tratta di imparare “a pappagallo” una certa tecnica, ma far capire le relazioni che attraverso i nuovi alfabeti si possono raggiungere costruire e far valere. Questo mi interessa e naturalmente, se parlo di un alfabeto al quale bisogna che tutti e tutte accedano per diritto, intendo media pubblici (non necessariamente statali) con regolamenti di accesso vasti e molteplici. La piccolissima idea della par condicio, invece di essere cancellata come Berlusconi si propone di fare, dovrebbe diventare una specie di norma di galateo costante, il che non significa che si debbono misurare col bilancino le apparizioni, bensì avere contenitori specifici e differenziati per grandi sistemi conoscitivi e forme comunicative che costituiscano i nessi tra i sistemi. Questo a me pare il problema dei problemi nella conoscenza oggi: le forme generaliste che ancora vigono, anche nella comunicazione, non tengono conto che la conoscenza oggi è sistemica e il principale lavoro per rendere intelleggibili i contenuti specifici è operare sui nessi sugli intrecci sugli scambi espressivi. 


F. B.:

Spesso il centrodestra lamenta una presunta egemonia culturale della sinistra in Italia. Eppure giornalisti, scrittori, attori di sinistra (oppure, se non di sinistra, comunque sgraditi all’attuale maggioranza parlamentare) da tempo non trovano spazio in televisione, ossia sul media più diffuso. E qui torniamo al discorso che facevamo in precedenza sulla censura: Marco Travaglio non viene invitato in TV a promuovere i suoi libri (che pure sono molto letti); Sabina Guzzanti è sparita dal piccolo schermo, e così pure Dario Fo e Franca Rame, Daniele Luttazzi, Santoro, Biagi, Beppe Grillo (salvo rare apparizioni) e così via… Quell’affermazione circa “l’egemonia culturale della sinistra” mi sembra quindi paradossale. Ma secondo te quell’affermazione quanto è figlia di semplice “ignoranza” e quanto lo è di un’idea distorta (per non dire fascista) della cultura, che sarebbe “buona” quando fa comodo e “cattiva” quando è di segno contrario?


L. M.:

Molti intellettuali erano di sinistra (anzi ce n'erano di quelli per i quali non eri mai abbastanza  di sinistra). Come Adornato: appena avevi finito di dire la cosa più di sinistra che ti veniva in mente esordivano "Ci vuol ben altro!" ed erano infatti detti "benaltristi"; oppure come un famoso sociologo che è stato preside della facoltà di Trento, capace di mandare alla follia gli studenti aggiungendo sempre un  famoso "più uno" alle loro richieste. Sono prontamente diventati di destra e non splendono più di prima. Vi sono aspetti diversi della questione: manca certamente un costume e addirittura si vogliono cancellare le poche embrionali norme che dovrebbero regolare una certa varietà di presenze e interlocuzioni specialmente nel  pubblico. E' un problema di ordinamento. E comunque niente può salvare due intellettuali di destra come Vergara e Masotti dall'insuccesso di pubblico. Trasmissioni stupide possono avere grande successo, trasmissioni politicamente orientate a destra cadono: l'Italia non  è ancora un paese vinto. C'è anche una  vecchiezza della "questione intellettuali"; mai definiti se non in modo ambiguo e incerto: o servi  del potere che scrivono "ad maiorem Dei gloriam" o secondo un qualsiasi "imprimatur" o "con licenza de'superiori" oppure disposti a "trasferire" la loro coscienza al servizio della classe operaia o di altre nobili cause, con la tendenza a sostituirsi alle cause stesse, non hanno mai assunto delle responsabilità. Oggi si potrebbe provare a ridiscutere la definizione di "intellettuale" come esperto e possessore dei mezzi della comunicazione, che è un vero potere: lo usino, dicano che lo conoscono, stabiliscano quali responsabilità si assumono. Comunque l'egemonia non si discute, o c'è o non c'è e a me pare che quella di sinistra sia piuttosto sfuggente e "copiativa" e  quella di destra imiti altri paesi.


F. B.:

Vorrei parlare di un altro argomento che ti sta a cuore: la condizione delle donne. In questo periodo si è parlato molto (anche se, a mio avviso, spesso in modo strumentale) sul rapporto fra Islam e condizione femminile. Come pensi si dovrebbe intervenire sulle culture altrui, in questi casi (ammesso che si “debba” intervenire)?


L. M.:

Secondo me la prima cosa è chiedere che ne discutiamo tra noi donne, prima: è invalsa da un po' di tempo l'abitudine da parte di importanti prelati delle varie religioni (tutte molto patriarcali) di "dimostrare" che a casa loro le donne sono trattate benissimo, esaltate, libere... Che nulla è meglio del Cristianesimo per riconoscere il ruolo delle donne, che nulla è meglio dell'Islam  per esaltare le virtù delle donne ecc. ecc. … Sarà meglio che sappiano che noi donne abbiamo uso di parola e di ragione, che non abbiamo delegato nessuno a parlare in nome nostro e che il ruolo di protettore non è mai stato molto glorioso. Voglio narrare un delizioso episodio che mi fu raccontato da una delegazione di donne vietnamite anni fa: Ho Chi Mihn era molto interessato all'emancipazione delle donne, secondo gli insegnamenti ricevuti e condivisi a sinistra. Andando nei villaggi non trovava mai donne ad ascoltarlo e avendo chiesto perchè non  ebbe risposta. Ma al prossimo giro trovò che in fondo alla sala le donne erano tutte lì ammassate e silenziose. Domandato perchè stessero in fondo, la prossima volta le trovò tutte sedute davanti e silenziose. Chiesto perchè non parlassero, la volta successiva erano nelle prime file con i loro foglietti pieni di domande. Finalmente soddisfatto, tornato in sede trovò un messaggio delle donne che diceva: "Caro Zio Ho, noi sappiamo che le tue sono buone intenzioni, ma non puoi liberarci tu, smetti dunque, perchè i nostri mariti per fare bella figura con te ci trascinano alle riunioni, ci sbattono in prima fila, ci obbligano a stare lì anche se ci annoiamo, ci costringono a parlare e se non facciamo tutto quello che ci chiedono, poi a casa ci picchiano. Grazie comunque". Ho Chi Mihn, che era uno tenace, fece sapere che le donne che avevano lamentele per il trattamento o per altro potevano scrivere direttamente a lui di nascosto e senza passare per le trafile gerarchiche. Sembra che più d'una promettente carriera di dirigente comunista si sia bruscamente interrotta e sembra che ciò sia talora avvenuto per le lamentele delle mogli cui Ho Chi Minh prestò il suo potere. Mi sembra un bell'esempio. Vorrei vedere qualcuno dei grandi paladini a favore delle donne raddrizzare un qualche torto. E poi ne parleremo…


domenica 26 luglio 2020

Riflessioni ai tempi del Covid

Alcuni di voi già sanno che abito a Codogno, e magari avranno letto cosa ho scritto nei mesi scorsi sui miei giorni da “prigioniero del Covid” (articoli pubblicati tutti da popoff). Si tratta di interventi nati per caso, quando ancora sembrava che la faccenda riguardasse solo il lodigiano. Non ci è voluto molto, poi, per capire che la tragedia avrebbe coinvolto/travolto tutta l’Italia e oltre, e così quei pezzi hanno cambiato progressivamente tono e taglio.
A un certo punto ho smesso di scriverne. Mi sono detto: il Covid ha già modificato le nostre vite, non gli permetterò di impadronirsi del mio immaginario. 
Però se rileggo quella sorta di diario trovo i pezzi molto “miei”. Inoltre, mi sorprende vedere (come accennavo prima) quanto la mia percezione e il mio tono, col passare dei giorni, siano andati mutando. 
Ho quindi recuperato quegli articoli. Li ho numerati e datati proprio per dare anche a chi li leggerà ora (a distanza di poche settimane, ma in un tempo artefatto che non ha la stessa portata di prima) la sensazione di questo mutamento d’animo vissuto in corso d’opera. 
Le vignette che accompagnano i pezzi sono tutte del mio amico Lele Corvi.
Buona lettura…










martedì 21 luglio 2020

Genova 2001, è importante ricordare l’odio

C’era ancora la lira. Vicino alla sua testa ricordo un biglietto (da diecimila, mi pare). E un accendino. E un sasso… Scusa, l’ho raccontato già molte volte: è a causa di quel sasso che la foto non riesco più a vederla, così non sono sicuro fosse un biglietto da dieci.
Lo skyline di New York era ancora caratterizzato dalle Twin Towers. Poco tempo dopo, dei criminali lo hanno modificato, infilandoci due aerei e uccidendo un sacco di gente.
Mia figlia era appena nata. Il motivo principale per cui io non c’ero, a Genova.
Tutto questo per dirti che le cose erano diverse. E grazie, dirai, son passati quasi vent’anni.
Che è vero. Fa strano pensarlo e non conta poi così tanto. Però è vero...

Oggi c’è l’euro. L’11 settembre fu una tragedia, per tutti quei poveri morti e pure per le conseguenze, che hanno ridefinito la politica internazionale e sconvolto la scala di priorità fra parole come diritti  e sicurezza (pochi lo intuirono subito, i più se ne sarebbero accorti negli anni, altri non l’hanno ancora capito).
E oggi mia figlia è matura, qualsiasi cosa voglia dire. In Alimonda poi ci è venuta, con me, in alcuni anniversari.

All’epoca il capitalismo era una crosta di sangue mal coagulato, non puzzava ancora di cadavere. C’era il carrozzone degli otto “grandi”. Vendevano una proposta di mondo già vecchia. Ma, dicevano, “non ci sono alternative”. Non era una novità: “there is no alternative” era un motto della Thatcher. Tutto sommato (e purtroppo) questo non è cambiato. Ma non voglio parlarti di queste cose. Ne ho già scritto.

Oggi ricordo l’odio. Un sentimento esploso nei giorni del G8, ma che affondava le sue radici in profondità. Un disprezzo per chi siamo, per cosa rappresentiamo, talmente vasto da impedire qualsiasi tentativo di capirci.
Sicuramente caratterizzò la Diaz e Bolzaneto. Nella scuola e nella caserma non c’era neppure la debole scusa delle tensioni di piazza (cerca di capirmi: quella non giustifica nulla, chiaro, ma rende possibile una spiegazione, se non altro secondo dinamiche bestiali). I poveracci finiti nei gironi di Diaz e Bolzaneto erano già nelle loro mani, ma questo non ha placato la violenza, la voglia di ferirli dentro, il tentativo di annientarli.
E pure in Piazza Alimonda, se ci pensi, puoi capire tutto con l’odio. Non solo i due spari, anche il sasso, le menzogne successive, il processo negato.

E’ importante ricordare l’odio, capirne il significato profondo. Altrimenti si può finire con l’addebitare quanto accaduto a semplici esagerazioni delle forze dell’ordine. Genova non è stata un’esagerazione, è stata una trappola, sapientemente preparata. Il cui fine era espropriare una generazione della sua proposta politica, in quel momento percepita come possibilità concreta da tanti, guardata almeno con simpatia da molti altri.

Una trappola riuscita. Il ventesimo secolo è finito lì, che a me dei tecnicismi da calendari importa poco, sono solo convenzioni. Il ‘900 si apre con Gaetano Bresci che uccide il re. Finisce con otto despoti chiusi in una cittadella, colpevoli dell’uccisione di un ragazzo e del massacro di un movimento.

Ecco, ti dicevo: non guardo più la foto. Però mi ricordo tutto. Perché voglio. Anzi, no: perché devo.

Francesco “baro” Barilli

sabato 18 luglio 2020

Nuova recensione a Piazza della Loggia

Mentre sei lì, contento per il libro appena uscito e magari a pensare a quello nuovo, arriva una recensione a un volume "vecchio", a cui hai fortemente creduto, probabilmente quello che ti è costato di più a livello di ricerche e di tempo di lavorazione...
Che dire? Solo che queste, e non altro, sono le vere soddisfazioni, in questo campo.
Un enorme grazie all'autrice della rece!

giovedì 23 gennaio 2020

“Italo”, di Vincenzo Filosa (Rizzoli Lizard)

Prima di iniziare devo spiegarti la Strategia di Lettura delle Due Torri.
Di fumetti da leggere ne ho talmente tanti che sono impilati in due torri su uno scaffale. Una non basta, collasserebbe su se stessa.
Quando prendo un fumetto nuovo finisce su una pila. Al massimo, se sono cose seriali, cerco di mantenere l’ordine, in modo da leggere il numero 1 prima del 3, capiscimi. L’ordine di lettura, per il resto, è “a cazzo”: scavo negli strati geologici delle due torri e lo piglio.
Ok, te lo concedo e l’ammetto: è una strategia stupida. Ma non ho tempo di fare di meglio.
La Strategia delle Due Torri viene stravolta in poche situazioni. Di solito, succede se sfoglio un fumetto e qualcosa mi colpisce.
Ora, tieni a mente questa cosa delle Due Torri.

Apro “Italo”, di Vincenzo Filosa. E trovo, all’inizio, alcune tavole in cui l’autore “strizza” la griglia, la comprime come una gabbia in cui la realtà e l’incubo si mischiano, in vignette sempre più piccole e “pipe” sempre più angoscianti.
Allora mi dico che devo leggerlo senza impilarlo. Che messa così suona proprio ridicola. Sembro Ash che dice “scelgo te” a un Pokemon… Ma è così che è andata.

Adesso magari ti aspetti una recensione. Giusto, legittimo. Però non le amo, anche se in passato ne ho scritte. Dirti però di cosa parla il libro non ho mai pensato sia tanto utile. Vai su Amazon o cose del genere e trovi una sinossi: vedi l’argomento, decidi se t’interessa e bene così. Dirò solo che è un racconto ruvidamente autobiografico, ritratto di una discesa nell’abisso di un uomo incasinato e sofferente, stressato da mille casini, mostrato in tutte le bassezze e l’individualismo e le miserie a cui, portati dalle circostanze, si può arrivare. E poi, sempre senza indulgenza o retorica, il racconto ci mostra il protagonista tornare a vedere la luce.

Insomma, invece della solita rece, ti regalo un aneddoto.
Sarà stato il 1983. Bevevo spesso e troppo. Non ero dipendente, avrei potuto smettere o almeno credo o così mi piace pensare. Un paio di volte mi trovai a dormire nell’androne di qualche condominio, senza ricordarmi come ci fossi finito. Una volta, in un vano scale… Ma non c’entra, adesso la mia nuova amica, Sclerosi, lo renderebbe impossibile oltre che ancora più stupido. Era per darti il contesto.
Scoprii Bukowski: probabilmente non avrei scritto una riga in vita se non mi fosse capitato quell’incontro virtuale.
Sicuramente anche lui scriveva di sé. Sicuramente avrà infarcito la biografia di elementi di fantasia, avrà esagerato e ingigantito tanti particolari. E non voglio tracciare un parallelismo fra il suo disagio, quello mio, o quello di Italo/Vincenzo.
Il punto è un altro. Dell’autore di “Factotum” o “Storie di ordinaria follia” mi conquistò la ruvida sincerità. Perché, lo senti se lo leggi, lui era sincero anche quando esagerava o cazzeggiava.

Fine dell’aneddoto. Torno a pochi giorni fa.
Ero a Cremona, quando Vincenzo l’ha presentato (il libro suo, mica uno di Bukowski. Non perdere il filo, su…). Porto con me il piacevole sapore della chiacchierata che abbiamo fatto al termine della presentazione.
(Anche di quello che ha detto durante, eh, solo che sono mezzo sordo e sentivo una parola sì e tre no… quindi non so se lui abbia specificato se il racconto è totalmente autobiografico o quanti margini di fantasia ci siano. A naso, non credo molti e in fondo non è importante saperlo…)
Ma il punto, dicevo, è che a casa il libro, invece che sulle Due Torri, è finito fra le mie mani, sfogliato fino a quella “griglia strizzata” che ti dicevo. La lettura, poi, è filata via liscia in un’ora e ci ho trovato quella ruvida sincerità che trovai nelle pagine di Bukowski.

La vita è una bestia complicata e indecifrabile. Noi (esseri umani, dico) siamo bestie complicate e indecifrabili. Non bastano affetti o un lavoro che ti piaccia e “ti realizzi”: le nostre paure, le nostre dipendenze, le idiosincrasie la cui esistenza neghiamo in primo luogo a noi stessi, ci stringono la gola. E retorica o autoindulgenza non servono, nè a risolverle nè a raccontarle.

Educazione di un reazionario, recita il sottotitolo del libro di Vincenzo. Perché in ognuno può esserci, o c’è, un reazionario. Anzi, provo a spiegartelo meglio. In ognuno di noi c’è un mediocre. Conoscerlo può significare sconfiggerlo, o almeno zittirlo e spiegargli chi comanda.
E aiuta anche scriverne. Perché conosco i limiti degli aforismi, ma Hemingway diceva “Scrivi forte e chiaro su ciò che fa male”, o qualcosa del genere. E’ un bell’insegnamento, una bella bussola, dai. E comunque, Vincenzo l’ha fatto.

Francesco "baro" Barilli