giovedì 12 novembre 2015

La storia del 900 nel Biliardino di Alessio Spataro




Biliardino (di Alessio Spataro - Bao Publishing) era uno dei fumetti che maggiormente m’incuriosiva, fra i vari presi nella consueta “abbuffata” lucchese. Ha finito con l’essere il più fresco e il più sorprendente: un libro riuscitissimo e dalla lettura appassionante.
Nasce da una felice intuizione: narrare la vita avventurosa di un personaggio tutto sommato poco conosciuto, Alexandre Campos Ramirez, meglio noto come Alejandro Finisterre, inventore del biliardino (o “calcio balilla”). Un’idea già di per sé curiosa, ma che sembrerebbe iscriversi nel campo del minimalismo: nulla di più errato, perché il biliardino e il suo “inventore” diventano il filo conduttore di una narrazione ambiziosa, che affronta l’intera storia del novecento. Tutto questo a partire dalla guerra civile spagnola, snodo cruciale della prima parte del secolo scorso che conduce alla seconda guerra mondiale, alla nascita delle feroci dittature europee, ma pure a pulsioni ideali e artistiche che hanno reso unica e irripetibile quella fase storica, pur nella sua tragicità. Così come la vita rocambolesca di Alejandro Finisterre è unica e consente ad Alessio di inserire camei di protagonisti del 900 (Tina Modotti, Frida Khalo, Diego Rivera, Camus, Che Guevara, Neruda, Orwell, Galeano e altri ancora) ma pure omaggi artistici (Guernica di Picasso o il celebre ritratto-nudo di Tina Modotti).

Biliardino è dunque frutto di una accurata ricerca documentale. Una cura evidente anche sul piano stilistico.
Alessio gioca su una bicromia essenziale rosso/blu, proprio come le squadre che si fronteggiano nel gioco da tavolo. Riesce nel difficile compito di mediare drammaticità e umorismo, aiutato dal suo tratto espressivo e “grottesco”, perfettamente efficace per dare un tocco di leggerezza al racconto. Infatti, seppure alle prese con un lavoro monumentale, Spataro non perde mai l’equilibrio fra narrazione “drammatica” e accenti “leggeri”, e la lettura risulta scorrevole per tutte le 300 tavole del libro. Anzi, è da sottolineare che, saggiamente, Alessio accantona quel “sarcasmo pesante” proprio di suoi precedenti lavori. Un sarcasmo, beninteso, pertinente nelle sue vignette di satira politica, ma che certamente avrebbe appesantito un lavoro di più ampio respiro, che non richiede un’uguale aggressività nei toni.
Per inciso, sembra che per Alessio questo “nuovo” approccio stilistico risulti naturale. Basti pensare alla delicatezza con cui tratteggia la storia d’amore (o comunque la giovanile infatuazione) fra Alejandro e Maria Casares (futura attrice e amante di Camus).

A cercare un difetto in Biliardino: come detto il libro è ricchissimo di spunti e citazioni, che forse non tutti possono cogliere. Ad esempio, la feroce conflittualità che danneggiò le forze di sinistra nella guerra civile spagnola, portandole alla sconfitta, appare (e sembra trasparire l’amarezza dell’autore) ma temo finisca col risultare criptica per il lettore comune. Analogamente i già citati “camei” di vari personaggi forse finiscono col disorientare un lettore poco attento o comunque non “già infarinato” sul 900. Ma tutto questo non svaluta minimamente il valore del libro. Anzi: la sensazione è che, al contrario, Alessio si sia trovato di fronte a una mole sterminata di aneddoti curiosi, in cui ha selezionato quelli più funzionali al racconto, probabilmente scartandone altri ugualmente gustosi.
Pure la velocità con cui Spataro gestisce i vari cambi di scena (e di ambientazione temporale e geografica, con le conseguenti fugaci apparizioni dei vari “personaggi celebri”) è perfettamente funzionale per dare un ritmo incalzante alla lettura, così come frenetica è stata la vita di Finisterre: poeta, inventore (a lui si deve anche il primo “voltapagine a pedale” per pianisti), ma anche rifugiato politico antifranchista, editore, imprenditore… Sicuramente personaggio picaresco, costretto dalla necessità ad aguzzare il proprio ingegno per “inventarsi” astutamente una via d’uscita di fronte a ogni avversità.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 4 novembre 2015

Di Pasolini non parlo nel quarantennale…

Nel quarantennale dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, Facebook è stato sommerso da un fiume di citazioni dello scrittore. Mi ha dato una sensazione strana vedere quelle frasi inflazionate come fossero biglietti dei Baci Perugina… Per questo (ma pure – l’ammetto – perché non sono un intenditore della sua opera) non ho scritto nulla sull’anniversario o sulla sua figura. Né intendevo farlo.
Hanno poi stuzzicato la mia curiosità un articolo (Sette buoni motivi per dimenticare Pasolini, di Francesco Longo) e una polemica nata sulla bacheca Facebook dell’amico e poeta Lello Voce. Lello definisce PPP “un poeta mediocre; ideologicamente di destra; formalmente scontato e attardato…”. Successivamente ha argomentato la propria posizione: Quel “santino” di Pasolini, intervento a mio avviso più interessante di quello di Longo.
Ma torniamo al momento in cui Lello non aveva ancora articolato meglio il proprio pensiero, limitandosi al post su Fbook. Ho dato un’occhiata ai commenti: sembrava di assistere a una rissa tra tifosi, più che a un dibattito sul valore (intellettuale/politico/poetico) di un uomo che, piaccia o meno, ha lasciato un segno nella cultura italiana.
Il tifo da stadio lasciamolo alle curve, dove fa già abbastanza danni. Non può nascere alcun frutto da un dibattito in cui si dice “Pasolini era un genio indiscutibile, punto”. Credo che lo stesso PPP sarebbe molto perplesso dal tono di certi sostenitori. Un intellettuale lo si discute e lo si critica; specialmente quando ha concretizzato il suo pensiero attraverso vari mezzi espressivi: romanzi, articoli, poesie, cinema. Non è una bandiera da sventolare, né un santino: come correttamente ricorda Lello, non è così che se ne onora la memoria. E proprio quell’indiscutibile è il termine meno appropriato verso uno scrittore che “pretende”, innanzitutto, di essere “discusso”. Definirlo intoccabile equivale a ucciderne l’opera, a depotenziarne il pensiero.
All’ottusità dei “ciechi devoti” non deve però rispondere la furia iconoclasta dei distruttori di idoli. Si tratta di un’ottusità speculare a quella dei devoti, anch’essa non fa bene al dibattito. A scanso di fraintendimenti, Lello col suo articolo NON va iscritto in questa categoria. Si potrebbe dissertare su quanto la “dimensione social” costituisca una trappola in cui ogni opinione, riferita “sinteticamente e apoditticamente” (citando Voce), finisca col mortificare il dibattito invece di arricchirlo, ma questo ci porterebbe fuori strada.

(so bene d’essermi dilungato in questa premessa. Lo farò ancora e la premessa e gli incisi – di cui abuserò – risulteranno più lunghi del mio scritto “nel merito”, violando la legge non scritta della comunicazione dell’era Fbook – vedi sopra – che vuole condensare qualsiasi intervento in poche righe, meglio se in una battuta arguta e feroce, laddove il lettore medio abbandona presto uno scritto superiore alle 10 righe. Poco o affatto m’importa: so che Lello e pochi altri mi seguiranno e tanto mi basta. Aggiungo solo che sulla tragica fine di PPP sottoscrivo quanto detto da Lello e quindi non mi soffermerò oltre)

Non ho conoscenze tecniche e formali per dissertare sulla poetica Pasoliniana. Non ne ho i mezzi, lo riconosco (anche con un pizzico di vergogna). E pure io ho sempre trovato Valle Giulia una mezza sciocchezza (forse è il vero motivo per cui si tratta della sua lirica più nota e citata…). Ho sempre ritenuto Pasolini, più che “di destra” come dice Lello, un conservatore illuminato, capace di punti di vista interessanti. In  questo lo accosto a Gaber (NON sto mischiando pere e pomi: sul paragone, che può fare storcere il naso a molti, tornerò più avanti).
Ricordo però che quando scrissi il mio fumetto su Piazza Fontana decisi da subito di citare e adattare ampi brani della sua Patmos. Una lirica che mi aveva colpito nel profondo e a livello istintivo, in un modo che non saprei spiegare meglio. E non saprei spiegarlo meglio per i miei limiti tecnici ma pure, soprattutto, perché forse il segreto della poesia è colpirti nel profondo senza che il lettore lo sappia spiegare (come invece può e deve fare chi ha la dimestichezza col “mezzo poesia”).

Tornando alla poesia su Valle Giulia, riprendo e adatto mie vecchie riflessioni. Ho sempre pensato, forse sbagliando, che quel testo contenesse ironia e vari livelli di lettura. Non furono in molti a cogliere queste sfumature. Pasolini comunque precisò più tardi il proprio pensiero in diversi scritti; grazie ad un bell'articolo di Angela Molteni, apparso tempo fa su http://www.pasolini.net/ , ne riporto alcuni stralci datati 17 maggio 1969: "quei miei versi, che avevo scritto per una rivista "per pochi", "Nuovi Argomenti", erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, "L'Espresso" (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan ("Vi odio, cari studenti") che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. ... i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all'odio razziale i poveri - gli spossessati del mondo - ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un'altra specie di odio razziale ...".

Di quella poesia comunque, indipendentemente dalle successive precisazioni dell'autore, ancora oggi è rimasta solo la traccia superficiale della prima lettura. Succede spesso, anche in tempi recenti, di accreditare quelle parole come fossero una semplicistica e acritica presa di posizione a favore dei celerini contro gli studenti, quasi che Valle Giulia la si possa ciclicamente usare come una clava virtuale per demolire ogni lotta sociale. “Ecco i giovanotti no global e benestanti che tirano i sassi contro i poliziotti che guadagnano 1200 euro al mese”, tanto per dire…
Pasolini non era uno sprovveduto. Sapeva che le forze dell'ordine in Italia si erano ferocemente distinte per numerose brutalità e omicidi a danni di manifestanti. Sapeva che il nocciolo della questione non stava nel poliziotto sottoproletario malpagato, ma nel ruolo che a questo era stato attribuito. La divisione del mondo fra ricchi e poveri andava inasprendosi, ed il vero nemico (il Potere) era abbastanza scaltro da riuscire ad utilizzare strumentalmente anche "certi" poveri verso "altri" poveri: nella sua poesia Pasolini intendeva sottolineare, almeno secondo la mia personalissima e criticabilissima lettura, quanto di paradossale e pericoloso ci fosse in tutto questo.

Su “Io so”. Anche quello è un pezzo citatissimo e dibattuto. E pure in questo caso ritengo che il senso delle parole di PPP sia stato travisato. No, lui non sapeva i nomi di chi mise una bomba nella banca di Piazza Fontana o sotto il portico di Piazza della Loggia. Ma conosceva le logiche del potere, che risponde alla sola legge dell'autoperpetuazione ad ogni costo. Capiva le finalità politiche (neppure univoche) cui dovevano rispondere le stragi, e lo capiva con i soli mezzi con cui è possibile operare un’analisi di questo tipo: quelli dell’intellettuale, che non pretende di supplire con le proprie riflessioni all’azione della Magistratura.
Lello critica Pasolini per aver pubblicato il pezzo sul Corriere, “foglio ufficiale delle forze conservatrici e borghesi italiane”. Rappresentante cioè proprio quei centri di potere che stavano dietro alle stragi di quel periodo storico. A mio avviso qui si sbaglia: era proprio lì che andava pubblicato, proprio per i motivi indicati da Lello…

In generale, e sempre IMHO, ritengo che Pasolini subisca lo stesso trattamento problematico di chi diventa, da morto, “fenomeno pop”. Chi mi segue sa bene, ad esempio, come io consideri De Andrè: non tanto il mio cantautore preferito, quanto l’uomo che mi ha insegnato a stare al mondo. Che dire dunque di un Salvini che afferma “sono cresciuto a pane salame e De Andrè”? (al limite, considerando che le canzoni non possono avergli nuociuto, ci si può domandare che diavolo di salame abbia mangiato…).
Anche Faber, da morto, è diventato un’icona; i più al massimo ne salvano qualche citazione, buona per fare bella figura in un salotto, e tanto basta. Ma ogni scrittore (o poeta o cantautore o quel che si vuole), una volta diventato icona pop, non ha più il controllo della propria opera (già da vivo; figuriamoci da morto).
Per i pochi che non ho ancora annoiato abbastanza farò un altro esempio, rimaneggiando ancora una mia vecchia riflessione.
La tragica e prematura morte di John Lennon ha fatto diventare Imagine, che già prima era il suo pezzo più celebre, una sorta di “inno depotenziato”. Tutti possono canticchiarlo, fregandosene del contenuto. E’ uno schema codificato: si rende un dato personaggio una sorta di immaginetta sacra (lo si è fatto anche con Mandela, per fare l’ennesimo esempio, ma ce ne sarebbero molti altri), banalizzando il messaggio di cui è stato portatore in vita. Condannate pure a parole iniquità e sfruttamento, ma non disturbate chi li produce e ne trae profitto; canticchiate Imagine, ma non mettetela in pratica. Questo sembra volerci dire chi detiene il potere…

(quasi dimenticavo la riflessione su Gaber. Che meriterebbe ben altro approfondimento, ma tempo e spazio sono ormai alle strette, per cui accontentatevi.
In questo caso si tratta di un artista che conosco bene a amo molto. Specialmente il “teatro canzone”, di cui ho tutti i cd – che raccolgono i suoi spettacoli nelle diverse stagioni, dai primi anni ’70 alla morte. Lo amo, dicevo, per la capacità di emozionarmi con i suoi testi; per l’indiscutibile capacità interpretativa; per la capacità di farmi riflettere anche quando non lo condivido.
Pure lui è diventato un mezzo santino, citato a sinistra come a destra – molto spesso a destra, di solito in modo strumentale – e sovente con contraddittorie analisi sulla sua collocazione politica.
Anche Gaber a mio avviso era un “borghese conservatore illuminato”. Interessante quando denunciava i vizi della borghesia; discutibile quando si lasciava andare ad analisi puramente politiche che sapevano di grillismo ante litteram; commovente quando dimostrava la capacità di saper mettere in discussione, nell’uomo borghese, innanzitutto se stesso; splendido, però, quando cantava l’individuo, come in Gildo o ne L’illogica allegria. E tutto questo non c’entra con PPP, lo so, ma avevo voglia di dirlo)

(ah, sì: L’illogica allegria è la canzone che voglio venga suonata al mio funerale)

Francesco “baro” Barilli

venerdì 23 ottobre 2015

Appuntamenti: Lucca e altro

A questo link trovate TUTTI gli appuntamenti con BeccoGiallo e i suoi autori in occasione di Lucca Comics & Games.

Io ci sarò venerdì 30, dalle 10 alle 12, allo stand BeccoGiallo. Ma anche nel resto della giornata sarò spesso lì (a parte qualche giro in fiera).
Se non sono troppo “cotto” mi fermo anche sabato 31; specialmente perchè proprio sabato, alle ore 16:00, mi piacerebbe assistere alla presentazione de “La traiettoria delle Lucciole” (Sala Oratorio di S. Giuseppe, con Guido Ostanel e gli autori Marco Rizzo, Paolo Castaldi, Marco Tabilio, Cisco Sardano).
Se non schiatto prima, mi piacerebbe essere presente anche la sera di sabato 31 per “Aperitivo in Giallo – 10 anni di fumetti!” (ore 20:00, Bar il Quadrifoglio, via Fillungo 124, con Guido Ostanel, Federico Zaghis e gli autori della casa editrice).

A quel punto, se non esagero con gli spritz, tornerei a casa…

Passando ad altro: Venerdì 23 ottobre ore 18.30 si inaugura la mostra “Graphic Novel”, Racconti, cronaca, reportage: le storie disegnate nel supplemento culturale del Corriere della Sera.
La mostra è presso La Triennale di Milano. Qui rimarrà fino al primo novembre (tutti i giorni dalle 10.00 alle 23.00, chiuso il lunedì) per poi spostarsi nella Contemporary Exhibition Hall dell’Università Iulm (edificio 6, via Carlo Bo 7, 20143 Milano; dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 19.30) dal 10 novembre al 23 dicembre.

Qui, troverete anche le due tavole realizzate con Manuel De Carli (“Papà, raccontami di quando avevi paura”, apparso su La Lettura il 7 settembre 2014): una piccola storia sul mio papà partigiano, a cui ovviamente sono molto legato.

lunedì 12 ottobre 2015

Il “Piccolo atlante storico geografico dei centri sociali italiani”, di Claudio Calia

Okay, lo dico io prima che lo dicano altri: sì, Claudio Calia è un amico, BeccoGiallo è anche il mio editore. Quindi qualcuno potrebbe pensare “questi se la cantano e se la suonano fra loro” o valutare questa recensione come una marchetta. Beh, non potrei dire nulla che facesse cambiare idea a chi così pensasse. Quindi, costoro possono pure fermarsi subito: meglio per loro e per me.
Per gli altri, procediamo dunque con questa recensione (mi cospargo il capo di cenere: a più di un anno dall’uscita) del “Piccolo atlante storico geografico dei Centri sociali italiani”.

Il nesso tra fumetto e centri sociali...
Spiegare questo nesso NON è l’obbiettivo principale del libro di Claudio. Ma, conoscendo lui e la sua passione per il fumetto a 360 gradi, credo non gli sia sfuggito che il suo lavoro è (anche) la chiusura di un cerchio. Perché i c.s. nascono in anni in cui il fumetto era assente dalle librerie di varia e le fumetterie erano assai rare. E proprio i c.s., accanto all’attività politico/sociale, hanno proposto molti fumetti alternativi (albi autoprodotti, fanzines ecc.) e contemporaneamente sono stati veicolo di diffusione di fumettisti “fuori dal coro”.
Non è un caso se la prefazione del Piccolo Atlante di Calia è firmata da Zerocalcare, artista formatosi proprio in questi ambienti (una formazione che Michele ha sempre ricordato con affetto; ma sulla sua prefazione mi soffermerò più avanti).
I centri sociali sono stati dunque i primi laboratori dove venivano prodotti e/o promossi fumetti che in edicola – ossia nel solo luogo in cui in quella fase storica i fumetti li si poteva trovare – non avevano spazio. Si potrebbe dire che sono stati un laboratorio, per un certo fumetto, così come successivamente lo sono stati per la street art: questo a dimostrazione del fermento culturale che qui si respira, con buona pace di chi li vuol vedere come una fucina di vandali interessati solo a sfasciare vetrine…
E’ quindi significativo che sia un fumetto l’opera in cui più organicamente si può trovare una mappa, ragionata e “partecipata”, di queste realtà.

La prefazione di Zerocalcare
Ho già detto che scegliere Zerocalcare come firma della prefazione non è un caso. Perché è nei centri sociali che affondano le radici di Michele, artisticamente e umanamente. Perché c’è un rapporto di stima e amicizia preesistente fra lui e Calia. E perché i due fumettisti condividono radici di impegno sociale ed esperienze. Entrambi (Claudio e Michele) erano a Genova nel luglio 2001, senza ancora conoscersi: Claudio a vivere il movimento della propria generazione, Michele – più giovane – ad affacciarsi per una delle prime volte su una “piazza politica”. Entrambi videro coi propri occhi, e subirono sulla propria pelle, la repressione poliziesca e vissero direttamente quello che è stato forse il più importante trauma generazionale della nostra storia recente, uno di quei fatti che seziona la nostra vita in “prima” e “dopo” (come può immaginare chi mi legge da un po’, questa è una cosa che mi fa sentire vicino a entrambi).
Con il solito personalissimo stile – capace di unire toni leggeri a tematiche “importanti”, e di cogliere sempre il nocciolo della questione in poche righe e con grande chiarezza – Zerocalcare spiega il senso del lavoro di Calia: “Ci trovo il calore di chi non mi ha mai abbandonato o lasciato indietro. Ci trovo una parola strana, contraddittoria, che uso raramente, quasi mai nell’accezione comune. Famiglia”.
Per questo la prefazione di Michele è un valore aggiunto al Piccolo Atlante. Un valore che va al di là della meritata fama di Michele, concretizzandosi nel saper trasmettere al lettore il senso di appartenenza a una comunità.

Lo stile
Farò una confessione: non comprai subito il libro di Claudio. Sapevo che prima o poi l’avrei letto, ma non avevo fretta. “Sicuramente conosco già tutto, o quasi, ciò che contiene”, mi dicevo (sbagliando). “Dovrebbero leggerlo quelli che sparano a zero sui centri sociali dipingendoli come covi di casinisti, quando va bene”, mi dicevo (e qui avevo pure ragione, ma questo è un altro discorso…).
Insomma, lo pensavo solo un utile elenco ragionato dei centri sociali. Utile ad altri, certo, ma a me a cosa serviva?
Alla fine, seppure con ritardo, ho divorato con interesse il fumetto di Claudio. E ci ho trovato dentro la sua storia, la nostra storia. Esperienze, canzoni, slogan, speranze, lotte, rabbie, tentativi e inciampi, ancora tentativi e altri inciampi… Esperienze collettive che potrebbero definirsi “forme di resistenza”.
E la narrazione di Claudio è calda e per nulla didascalica. Come in libri precedenti, Claudio si disegna nel proprio fumetto. Ma se in altri lavori la sua era la presenza del “giornalista grafico” che rielabora testimonianze (voci raccolte direttamente o materiali reperiti sui media), nel Piccolo Atlante Claudio attraversa l’Italia e gli anni della propria militanza politica. All’interno, invecchia e “si invecchia”, cambiano i suoi vestiti e la sua barba, perché è qui che lui è cresciuto, come uomo e come autore.

(nota: disattiviamo la modalità “vecchi reduci che si incontrano commentando i propri lavori e dissertando su quanti capelli cadono o si imbiancano” e torniamo allo stile)

Lo stile, dicevo…
Claudio non è uno che cerca di incantarti con i propri disegni. Ma le sue tavole sono sempre dannatamente espressive… C’è del sentimento, dentro, ecco, non saprei come dirlo meglio…  E’ capace di mescolare la sintesi del “giornalismo grafico” col proprio sguardo, pacato e mai privo di partecipazione.

Sì, vabbè, ma torniamo al nesso tra fumetto e centri sociali...
Il punto è che i fumetti li leggi per passare il tempo (alcuni), perché ti fanno sognare (altri, più belli), o perché “ti fanno sentire/ti rendono migliore” (i più belli). Proprio come le persone che frequenti, gli amici a cui vuoi più bene… Proprio come la tua “famiglia”, in senso più ampio, come ci ricorda il Piccolo Atlante di Calia e come intuisce e suggerisce Zerocalcare.
Ora il nesso l’avete capito, no?

Francesco “baro” Barilli

lunedì 20 luglio 2015

20 luglio 2001: Quel sorriso che ci hanno strappato

La prima volta che sono stato in piazza Alimonda ho cercato il punto esatto. E, ti sembrerà strano, m’è venuta in mente la segatura sul suo sangue. Segatura mescolata a sangue e fiori. Mi hanno detto che per giorni il rosso continuava ad affiorare. Chissà se era vero, o solo un’impressione. Poi m’è venuta in mente quella massima degli antichi. Muore giovane chi è caro agli dei. M’è sempre sembrata un’idiozia: vedi cosa ci si riesce a inventare per difendersi dal dolore? Comunque, fosse vero, un motivo in più per confermare la mia scarsa considerazione per qualsiasi divinità.

Oggi mi chiedi di scrivere qualcosa su Carlo. Sono fra chi ne ha parlato in questi dieci anni e tu vuoi tornare a quel giorno, sapere cosa è rimasto, cosa è cambiato. È così che me ne accorgo: è vero, ho scritto parecchio su di lui. Su un ragazzo che non ho visto nascere o vivere ma ho visto morire mille volte. Ho incrociato documenti e articoli con foto, filmati, immagini. Tutto finisce sempre nello stesso istante e allo stesso modo. Un corpo steso a terra, ripreso da diverse angolazioni. Il Carlo vivo rimane ai margini, tutto sembra cristallizzato alle 17 e 27 di quel 20 luglio.

Anche dall’altra parte sono stati bravi a fermare l’istante. Il ragazzo già conosciuto alle forze dell’ordine. Il punk a bestia che viveva di elemosina. Uno che in fondo se l’è cercata e gli sta bene. Forse ci hanno sperato davvero. Che fosse un figlio di nessuno, come si diceva una volta. Per noi non sarebbe stato diverso o meno crudele. Ma quelle affermazioni sono false. Chi si lamenta oggi della macchina del fango sarebbe più credibile se avesse dimostrato uguale indignazione dieci anni fa. Perché, noi lo sappiamo, dietro quell’uomo una famiglia c’era.

Sì, definisco Carlo uomo. L’espressione «Carlo Giuliani, ragazzo» non mi ha mai convinto del tutto. Ne capisco il senso doloroso, sincero, suggestivamente valido e persino necessario, ma mi sembra sminuire la sua ultima scelta, derubricarla a pulsione incontrollata di un adolescente. Non fu così: se ci fu rabbia nel suo gesto non fu quella del ragazzo, ma dell’adulto che sceglie da che parte stare. «Di indignarsi di fronte alle ingiustizie», potrei dire parafrasando il Che. Preferisco citare proprio Carlo: «Agii consapevole di quello che accadeva». È il verso di una sua poesia scritta sei anni prima. Dice già tutto.

Ma, forse, sto sottilmente eludendo la richiesta. Tu vuoi da me qualcosa di diverso, un ricordo di quel 20 luglio. Chiudo gli occhi e vedo tre immagini.

Nella prima una giovane dottoressa è china sul corpo senza vita di Carlo. Capisce che non c’è più nulla da fare e abbassa il capo, impotente. E’ l’unico slancio di dolorosa umanità in quella scena, circondata dall’indifferenza delle forze dell’ordine.

La seconda è una foto scattata in via Tolemaide, circa mezz’ora prima dell’omicidio. L’aria è grigia per i lacrimogeni, la folla di manifestanti sembra accendersi e agitarsi, attraversata da mille scariche di un’energia sconosciuta. Tutto è in movimento, solo Carlo e un blindato sono immobili. Il mezzo è pesante, minaccioso. Retoricamente potrei dire: trasuda l’arroganza del potere.

Poi c’è il volto, stavolta sì di un ragazzo, gli occhi azzurri e luminosi. Proprio la sua famiglia me l’ha fatta scoprire. È un filmato del 1999. Carlo in una trattoria. Estrae una sigaretta dal pacchetto. Con un sorriso naturale, solare. Quello che gli hanno tolto, ci hanno tolto.

Ci hanno tolto anche altro, lo sappiamo entrambi: hanno ucciso le speranze di un’intera generazione, l’hanno espropriata della sua proposta politica, della sua carica di innovazione e speranza. I cinquanta tu li hai già visti, io sto per arrivarci. Mi dispiace per quei giovani, non per noi

Non sono stati solo quelli “dall’altra parte” i colpevoli. Fa male ammetterlo ma è così. In questi anni ho sentito spesso parlare di «spirito di Genova». Come fosse un mantra liberatorio, un’immaginetta da evocare mentre ci si reca in pellegrinaggio in un luogo sacro per chiedere una grazia. A volte ho sentito l’invocazione proprio da chi quello spirito sembrava aver smarrito, se non tradito. Sono stati commessi errori, da parte di chi avrebbe dovuto difendere e rinnovare la magica alchimia del «movimento dei movimenti». In buona e mala fede. Personalismi, compromessi politici, vere e proprie miserie umane. Feroci contrapposizioni fra le tante anime di quella stagione.

Ma non è questo che vuoi sentire, né quel che ho voglia di raccontare. Mi hai chiesto qualcosa e questo posso darti.
Sangue fiori e segatura.
Una ragazza china su un corpo senza vita.
Un giovane uomo che fronteggia un blindato mentre tutto attorno è in movimento.
Sopra tutto, il sorriso di un ragazzo.




NOTA: racconto pubblicato su “Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani” (a cura di Paola Staccioli. Tropea Editore, 2011)

venerdì 3 luglio 2015

Dalla parte di chi tortura?!

Il dibattito sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale si è “arricchito” di nuove voci (alcuni sindacati di polizia, Matteo Salvini, Bruno Vespa e in generale Il resto del Carlino) tutte contrarie al nuovo progetto di legge. Un progetto che pure, va ricordato, ha già avuto altri pareri, sempre critici ma originati da un punto di vista assai diverso. Infatti, il disegno di legge fin qui formulato porterebbe all’inserimento del reato come “fattispecie generica”, ossia eludendo lo spirito della normativa internazionale in materia, che vorrebbe invece individuarlo come specifico abuso commesso da funzionari dello Stato.

Ma soffermiamoci sui commenti recenti. Sembrano tutti accomunati dall’intenzione di liquidare gli abusi delle forze dell’ordine come casi isolati di “estremismo in divisa”, partendo innanzitutto da Genova e dimenticando il prima quanto il dopo. E il punto non è stabilire se gli abusi siano sporadici o frequenti, quanto lo stabilire se a quegli abusi si sia reagito (in termini penali, amministrativi, politici) con adeguata fermezza.

Partiamo pure dal G8 di Genova: la Diaz e Bolzaneto potevano essere persino una buona occasione per un percorso autocritico delle forze di polizia, per un’inversione di tendenza. Al contrario, Genova ha testimoniato l’accentuarsi delle chiusure corporative. Le forze dell’ordine hanno addirittura ingaggiato un braccio di ferro con la magistratura; le sentenze (parlo di quelle italiane) su Diaz e Bolzaneto sono arrivate nonostante molti ostacoli posti lungo il corso della giustizia, sul piano pratico come su quello simbolico e politico.
Sui primi ostacoli ricordo che l’atteggiamento autoassolutorio e di scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine è stato stigmatizzato dalla magistratura italiana in tutti i gradi di giudizio (critiche poi riprese dalla Corte Europea nella recente sentenza “Cestaro-Diaz”). Sui secondi ostacoli, basti rammentare le promozioni degli imputati e la loro conferma anche dopo le sentenze di condanna di secondo grado. La permanenza in servizio dei responsabili è avvenuta con l’ormai stantia motivazione che è compito della magistratura accertare i reati: quasi non fosse compito diretto dei corpi di polizia punire amministrativamente chi sbaglia e fare opera di prevenzione. Inutile aggiungere che la politica ci ha messo del suo per supportare queste azioni: gli abusi di oggi, da Genova in poi, sono figli di un’involuzione delle forze dell’ordine, a sua volta figlia di un percorso culturale che ha sancito il declassamento dei diritti nelle priorità dei cittadini e della politica.

Tutto questo per rispondere a chi, come Bruno Vespa, sostiene che “il nostro codice è già perfettamente attrezzato per punire reati di questo genere, compresa la ‘macelleria’ della Diaz a Genova. E se i colpevoli alla fine non sono stati puniti adeguatamente è perché i processi sono stati gestiti troppo lentamente” (su Il Resto Del Carlino 27 giugno 2015: “Dalla parte dei poliziotti”).
Quella della lentezza della magistratura italiana vista come sola causa del deludente esito del processo Diaz (a livello di scarsa entità ed efficacia delle condanne comminate) sembra essere un “pallino” del Resto del Carlino. Da “La legittima difesa delle divise” di Ugo Ruffolo (25 giugno): “per la macelleria messicana alla scuola Diaz le attuali norme in materia di lesioni, violenze, abusi … bastavano a buttar via la chiave. Non il nomen iuris dei reati contestati, ma il gioco delle prescrizioni e dei giudizi sulle prove (dunque, l’eccesso di garantismo e di durata dei processi) ha assicurato pene blande o nulle …”.
Insomma: il nostro impalcato giuridico, secondo questi commenti, sarebbe già sufficiente a punire i reati, se non fosse per la lentezza della magistratura. Una lentezza che, come abbiamo visto, è stata semmai causata proprio dall’atteggiamento ostruzionistico delle forze dell’ordine nei procedimenti genovesi (una difesa corporativa che nulla ha a che vedere con l’esigenza del Paese di avere giustizia su quel che accadde a Genova nel luglio 2001), e dall’assenza della politica, che ha “coccolato” gli imputati e – sovente – trattato i magistrati inquirenti come “nemici dello Stato”.

Sempre Vespa poi aggiunge: “se si ritiene tuttavia doveroso intervenire perché ce lo chiede la Corte europea…”. Quasi che la questione la si possa confinare a una sorta del “ce lo chiede l’Europa” in versione – per una volta – di diritti e civiltà… E’ dunque opportuno ricordare che già da anni si parla del rifiuto da parte del governo di aderire ad alcune raccomandazioni del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra cui l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Ma su questo tema l’Italia “fa spallucce” da più di vent’anni: la convenzione delle Nazioni Unite fu firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. L’ignavia del mondo politico è trasversale e tutt’altro che recente.

Il Resto del Carlino sembra particolarmente sensibile alle ragioni dei poliziotti. In un articolo del 25 giugno ("Le mani legate con i criminali", di Bruno Ruggiero) viene ricordata questa affermazione: “sono rimasto indignato – commentò nei mesi scorsi il magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Anticorruzione, e ora il Sap riporta le sue parole –. I fatti della Diaz sono vergognosi, ma le indagini hanno consentito di individuare le responsabilità, anche dei vertici, senza bisogno del reato di tortura”. 

Con un gioco di parole persino banale si potrebbe dire che Cantone ha preso una cantonata…
In primo luogo è da ricordargli che “il gioco delle prescrizioni” (per citare ancora Il Resto del Carlino) sarebbe stato molto meno efficace se quel reato fosse stato previsto. In secondo luogo, le responsabilità non sono state tutte accertate (alla Diaz come a Bolzaneto, a Genova in generale come in molti altri casi) per il mancato riconoscimento di chi commise fisicamente gli abusi.
(la questione può essere laterale, rispetto al tema principale di questo articolo e per questo la metto fra parentesi: è da ricordare che in Italia, oltre al reato di tortura, mancano regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine; altro argomento su cui i sindacati di polizia e le principali forze politiche fanno orecchie da mercante).
In terzo luogo, ribadisco che senza attendere Strasburgo già i giudici italiani (specie per Bolzaneto, ma pure per i fatti di Napoli di marzo 2001 – caserma Raniero) hanno rimarcato la mancanza del reato di tortura come causa della ridefinizione “al ribasso” delle contestazioni agli imputati.

Ometto qui di commentare alcune altre dichiarazioni. Quelle di Salvini ("Le forze di polizia devono avere libertà di azione assoluta, se poi un delinquente lo devo prendere per il collo e si sbuccia il ginocchio... cazzi suoi") perché non sono degne di attenzione. Un’altra di Bruno Vespa (“Da qualche anno le forze di polizia impiegate nel contrasto di violenze a sfondo politico … appaiono fortemente intimidite. Prefetti e questori preferirebbero cavarsi un dente piuttosto che autorizzare una carica”) perché talmente ridicola da ricevere al massimo un sorriso sarcastico.

Concludo ricordando che, dopo la sentenza europea sulla Diaz, originata dal ricorso di Arnaldo Cestaro, una delle vittime della “macelleria messicana”, siamo in attesa di nuovi pronunciamenti di Strasburgo su altri ricorsi. Alcuni vertono non sulla Diaz ma su Bolzaneto, e per questo saranno probabilmente ancora più interessanti, dal punto di vista della necessità di inserimento del reato di tortura nel nostro codice. Mi limito a ricordare, su Bolzaneto, un estratto dalla condanna in primo grado all’ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma: “… con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o comunque tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …”.
Ma, in fondo, la tortura può essere efficacemente sintetizzata con questa frase di Leonardo Sciascia, terribilmente attuale e che ho già ricordato in altre occasioni: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.

Francesco “baro” Barilli

martedì 23 giugno 2015

“La madre dell’uovo”, di Giulio Laurenti

Ho conosciuto Giulio Laurenti a Genova. Non era un caso: eravamo lì a luglio di qualche anno fa – il 2011 se non erro – e insieme ad altri scrittori abbiamo parlato proprio delle maledette giornate del 2001. Ed è significativo che proprio a Genova o “a causa di” Genova io abbia incrociato la mia strada con quella di molti altri. Persone segnate, in diversa forma e misura, dal ricordo di quei giorni: uno spartiacque nell’esistenza individuale, in quella collettiva, nella storia dei diritti di questo Paese, che da allora sono scivolati verso un baratro di cui non si vede la fine…
Ho poi ritrovato Giulio tramite Facebook: strano frullatore di pensieri e notizie, che però consente di tenere aperta una finestra sul mondo e di restare in contatto con amici geograficamente lontani.
Sapevo dunque della sua intenzione di pubblicare un romanzo (“La madre dell’uovo”, Effigie Edizioni) che incrocia le storie di Carlo Giuliani, ucciso il 20 luglio 2001, e di Ilaria Alpi, giornalista assassinata in Somalia il 20 marzo 1994 assieme all’operatore Miran Hrovatin. E non mi hanno sorpreso le vicissitudini editoriali e umane che Giulio ha dovuto affrontare per pubblicare il suo lavoro (potete leggerne qui).

In questo romanzo (sulla definizione romanzo, forse impropriamente usata, tornerò più avanti) si incontrano dunque due storie apparentemente distanti, per contesto geografico e temporale, ma che hanno molti punti in comune. A cominciare da alcuni protagonisti.
Perché a Piazza Alimonda transitano uomini delle forze dell’ordine arrivati a Genova sette anni dopo essersi “distinti” nella missione Restore Hope in Somalia, le cui carriere sono passate indenni dalle ombre di Mogadiscio e in seguito non hanno risentito neppure di quelle genovesi . E poi un fotografo, malmenato e intimidito sul corpo di Carlo, che sceglie di non parlare. Sullo sfondo, i diari del maresciallo Aloi sulla missione Somala, contenenti accuse ad alcuni suoi commilitoni: violenze sulle donne locali e torture ai prigionieri. Sul caso Alpi non mi dilungo: potete leggere qui un mio vecchio articolo, contenente un’intervista a Giorgio e Luciana Alpi e mie riflessioni che, seppure ormai “datate”, affrontano pure il “memoriale Aloi”.

I nomi che ci porta Giulio non sono nuovi: chi ha seguito le numerose inchieste apparse on line sull’omicidio di Piazza Alimonda (a cominciare da quella di Pillola Rossa) già li conosce. Sappiamo chi erano i due ufficiali a cui erano affidate le due jeep che seguirono la carica laterale ai manifestanti che portò all’uccisione di Carlo (da una di queste vetture furono esplosi i colpi di pistola, di cui uno mortale). Sappiamo l’identità del reporter che scattò le prime fotografie a Carlo morente (brutalmente picchiato pochi istanti dopo dai carabinieri che gli distrussero le macchine fotografiche: così “sparirono” le immagini da lui riprese): probabile testimone della pietrata inferta sulla fronte del ragazzo quando era già a terra (anche questo è un argomento già affrontato e su cui io stesso mi soffermai, assieme a Manuel De Carli, nel nostro “Carlo Giuliani, il ribelle di Genova”). Nel suo lavoro, Giulio racconta anche la propria storia: quella di uno scrittore che, citando liberamente Pasolini, “cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, di rimettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un quadro, ristabilendo la logica dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”. Sarebbe dunque riduttivo affermare che “La madre dell’uovo” abbia il solo merito di avere approfondito questi elementi, includendoli per la prima volta in una cornice unica: questo lo si poteva fare anche solo cercando di riordinare le varie “controinchieste” apparse in questi anni. Giulio è andato oltre, raccontandoci non solo le menzogne delle narrazioni ufficiali su Piazza Alimonda e Mogadiscio, ma pure la fatica di chi a quelle menzogne non ha voluto arrendersi. Fatiche anche “private”, perché scrivere di argomenti così delicati produce un carico di stress emotivo (soprattutto per i rischi a cui si va incontro) che può produrre tensioni familiari: l’autore ce le racconta senza cadere in autoreferenzialità o voglia di protagonismo, ma con molto tatto.

“Romanzo”, dicevo. E il libro di Giulio può effettivamente essere letto come un noir: lo stile dell’autore accompagna adeguatamente un lettore che volesse semplicemente cimentarsi con un thriller. Ma, come accennavo prima, “La madre dell’uovo” è – anche – una controinchiesta affascinante e – soprattutto – una denuncia contro quegli abusi del potere che renderebbero accostabili gli omicidi di Ilaria e Miran con quello di Carlo pure senza la coincidente presenza di alcuni protagonisti.

Per certi versi il libro di Giulio è accostabile a “I segni sulla pelle” (2003, Tropea Editore) di Stefano Tassinari, autore scomparso nel 2012 e che già altre volte ho ricordato con affetto e rimpianto. Anche qui Stefano provò a coniugare le esigenze della controinchiesta con quelle della narrativa, cercando di dare una versione logica a un’ipotesi (agghiacciante e mai del tutto esplorata) sul 20 luglio 2001: quella secondo cui Carlo Giuliani non sarebbe stata l’unica vittima del G8 genovese…
Chi ha seguito le cronache del 20 luglio 2001 ricorderà come le notizie inizialmente si susseguissero senza controllo e contraddittoriamente, fra un manifestante ferito, due feriti in condizioni disperate, un morto spagnolo e un altro in gravi condizioni, una ragazza ridotta in fin di vita poco prima della tragedia in Piazza Alimonda… In seguito le notizie si fecero più nitide, arrivando in serata a definire l’identità della vittima, mentre sulla fantomatica ragazza scese il silenzio. Potete leggere a questo link un mio vecchio articolo, corredato da due interviste, una con Stefano e una con Haidi Giuliani, in cui si affrontano questi temi.
Ma tra i lavori di Stefano e Giulio ci sono molte differenze. Stefano scrisse un lavoro di pura narrativa, restituendoci innanzitutto il sapore della paura respirata nelle strade genovesi nel 2001. Giulio sceglie di raccontare se stesso e la propria ricerca, regalandoci invece il senso cupo degli “intrighi” di un potere che, per autotutelarsi, è disposto a tutto.
E per questo “La madre dell’uovo” è un libro estremamente attuale. Non ci parla solo di Carlo e di Ilaria, né degli intrighi dell’Italia “di ieri”. Parla di un Paese in cui la violenza, sotto diverse forme, si è “fatta sistema”, nell’indifferenza dei più. E in cui il silenzio non è solo la condizione a cui sono costretti i morti, ma bensì elemento fondante del sistema di potere stesso. Condanna per taluni, scelta consapevole per altri, vile rifugio per chi ha visto e sceglie di tacere.
Un libro che regala notti inquiete e insonni, quello di Giulio. Ma, soprattutto, un libro prezioso…

Francesco “baro” Barilli

martedì 5 maggio 2015

Pasolini allo specchio

Ragazz*
(con l’asterisco asessuato, come vuole l’odierno linguaggio corretto)
riscrivo il poeta
(ed è un amaro segno dei tempi che vi sia rimasto io…)

“Quando ieri a Milano avete fatto a botte coi poliziotti,
io non simpatizzavo.
Sentivo solo un grande smarrimento.
Ma ora i giornalisti (non di tutto il mondo, bastano i nostri)
non vi leccano il culo…”


Ripongo il poeta
(per evitare l’ingombrante paragone, prima che per rispetto…)

Le iene delle tv e dei social network
hanno maciullato un ragazzo intervistato
(lo meritava? Poco m’interessa)

Posso capire il sapore del grottesco
(ma il dileggio, sia chiaro, un po’ m’indigna)
ma trent’anni di subcultura televisiva non sono passati invano…
E se a sinistra resta un linguaggio da “Bertinotti involuto”
quello masticato nelle periferie abbandonate è un po’ diverso, sapete?

E comunque, necrofili dell’informazione e delle piazze virtuali, vi chiedo:
davvero pensate: “è lui il public enemy number one”??

Ma torno a rivolgermi a voi, ragazz*:
m’interessate di più…

I vecchietti al balcone non calano più le bottiglie d’acqua
come nel 2001:
invitano gli agenti… “sparategli alla testa!!”
Le osterie non sono più piene
e così pure le piazze
ma gli specialisti del “mandateli-in-galera-e-buttiamo-le-chiavi”
hanno nuovi luoghi per pontificare
(fosse per loro, a piede libero rimarrebbero in venti…)

Penso ancora al poeta
(stavolta letteralmente citato):
“Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.”


Voi, ragazz*, nemmeno avete più dove accamparvi!!
E dal potere, datemi retta, state lontani…
Non so se volevate “difendere la democrazia”
difendere un morto è un ossimoro, più che una nobile utopia.

Ma sono scivolato oltre “l’orlo della vergogna”
(dove “lui” si seppe fermare)
dunque mi rivolgo anche “agli altri”…

Avete ripulito “la vostra Milano”?
Ma quale era (o è) “la vostra Milano”?
Quella dove dormono “gli straccioni”?
Quella delle periferie abbandonate?
(abbandonate dalle giunte che le hanno cementificate,
quelle stesse giunte co-responsabili del linguaggio da barzelletta
che ora si mastica lì…)

Ora, voi potete festeggiare:
col sudore delle vostre spugne,
(e senza neppure accorgervene)
siete finiti dalla parte di chi è più forte…
Adesso, sfiniti dalla vostra civica pulizia,
nel silenzio potete sentirne le soddisfatte risate…

Francesco “baro” Barilli


lunedì 4 maggio 2015

3 maggio 2005 – 3 maggio 2015

Ricevo da Carlo Arnoldi (Presidente Associazione famigliari Piazza Fontana 12 dicembre 1969) e pubblico volentieri questo comunicato.

*****

3 maggio 2005 una data che per molti non vuol dire nulla.......non per noi famigliari delle vittime della strage di Piazza Fontana.......quel giorno di 10 anni fa la Cassazione di Milano metteva fine a tutti i processi sulla strage e dopo 36 anni non ci consegnava nessun colpevole per la stessa ma ci faceva addirittura pagare le spese processuali ..........come Associazione quel giorno ci siamo sentiti sconfitti lo Stato non era riuscito dopo tanti processi da Roma  a Milano ,Catanzaro, Bari poi di nuovo a Milano a darci una verità giudiziaria.................
Piazza Fontana non è esistita i 17 morti e gli oltre 80 feriti non hanno avuto giustizia.
Non sarà così la stessa sentenza riconosceva in Freda e Ventura di Ordine Nuovo di Padova gli organizzatori di tutti gli attentati avvenuti a Milano nel 1969 compresa la strage di Piazza Fontana, non più processabili in quanto già assolti precedentemente sia in Cassazione a Catanzaro che a Bari.
Catanzaro nel lontano 1979 tutti i componenti di Ordine Nuovo e Guido Gianettini agente segreto del Sid erano stati condannati  all'ergastolo, quindi quei giudici avevano visto giusto ma i tanti depistaggi hanno poi portato alla loro assoluzione.
Bene oggi dopo 10 anni trascorsi a portare la nostra testimonianza e almeno la verità storica soprattutto nelle Scuole e alle nuove generazioni possiamo dire che il nostro lavoro ha pagato, perché in questi anni sono usciti tantissimi libri sulla strage e sui responsabili, é uscito un film "Romanzo di una strage" di Marco Tullio Giordana e riscontriamo sempre un maggior interesse nei giovani che incontriamo e tanti hanno fatto tesi proprio sulla strage di Piazza Fontana, per noi una grande soddisfazione.
Un'aiuto importante é stato sicuramente la messa in rete di tutti i processi riguardante la Strage, e di questo non possiamo non ringraziare Ilaria Moroni e Benedetta Tobagi che tanto si sono prodigati per questo.
Oggi abbiamo un'opportunità in più il protocollo firmato esattamente un anno fa con il Miur che sicuramente porterà ancora più visibilità alla nostra Strage e a tutte le vittime innocenti del terrorismo sia esso di destra che di sinistra in quanto la violenza non ha colore.

Un sincero saluto a tutti quelli che quel giorno non l'anno dimenticato.

Carlo Arnoldi
Presidente Associazione famigliari Piazza Fontana 12 dicembre 1969

domenica 3 maggio 2015

La mimosa della partigiana Chicchi

Io e Manuel De Carli il 25 aprile lo abbiamo ricordato con questo omaggio a Teresa Mattei, la "partigiana Chicchi": vale sempre la pena di resistere, anche se sono passati 70 anni (e anche se, causa piccoli casini informatici col mio blog, arrivo a segnalarvelo un po’ in ritardo…). Per chi fosse interessato: contattare il Comitato Piazza Carlo Giuliani (piazzacarlogiuliani@tiscali.it).



Arrivederci Ken…

La storia editoriale di Ken Parker è da poco terminata, con la pubblicazione di “Fin dove arriva il mattino” (Mondadori Comics). Uno dei fumetti più attesi di quest’anno: racconto inedito e conclusivo di una saga molto amata dal pubblico, realizzato dalla coppia di autori che la ideò nel lontano 1977 (Giancarlo Berardi ai testi e Ivo Milazzo ai disegni).
Prima di parlare dell’ultima avventura è bene ripercorrere la storia del personaggio.

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Il rapporto fra Ken Parker e le edicole non fu certo un amore a prima vista. "Lungo Fucile" (come viene spesso chiamato il protagonista) faticò a conquistarsi una propria fascia di pubblico e, nonostante l'alta qualità della serie, finì nel limbo editoriale per diventare fenomeno di nicchia, amatissimo da una ristretta schiera di fans.

Ken Parker è un fumetto western, e forse proprio questo fu il tallone d'achille della serie: molti superficialmente accostarono, anche a causa del tipico formato bonelliano, il biondo trapper a Tex: niente di più sbagliato. In effetti un ostacolo che Giancarlo Berardi affrontò nell'approccio alla nuova serie fu la sostanziale ripetitività dei temi western, già all'epoca proposti in tutte le salse. Proprio per questo, constatando in sostanza che il genere aveva esaurito le sue risorse in termini di novità presentabili (gli attacchi degli o agli indiani, le rapine alle banche, i ladri di bestiame ecc) l'autore scelse di variare il punto di vista con cui queste situazioni venivano affrontate.

Segno distintivo di Ken Parker furono comunque le tematiche affrontate: dal razzismo allo sfruttamento, dalla condizione femminile di fine '800 allo smarrimento dell'uomo comune di fronte ai cambiamenti epocali che andavano delineandosi, fino ad aspetti più intimisti, con incursioni nel teatro e nella letteratura. Argomenti tutti inseriti con abilità e coerenza nello scenario western classico. Il "selvaggio ovest americano" nelle vicende di Lungo Fucile è soprattutto uno sfondo, dipinto in maniera dettagliata e senza concessioni alla retorica o alla manichea divisione fra buoni e cattivi. E il protagonista non è il classico eroe senza macchia e senza paura. Non è nemmeno un duro hollywoodiano e ama leggere, destreggiandosi bene fra i versi di Walt Whitman, l'Amleto e "Il Capitale".

Altra importante innovazione portata da Berardi e Milazzo nel fumetto italiano fu la non staticità della serialità. Mentre i personaggi dei fumetti di quegli anni passavano da un'avventura all'altra restando più o meno immutati, nella sua serie Ken cambia città, lavoro, amici, invecchia. Sposa una donna indiana, in seguito uccisa durante un'incursione di soldati americani, e adotta il figlio che la donna aveva avuto da un precedente compagno.

Molte sono le influenze cinematografiche della serie, nei testi come nei disegni (la composizione delle tavole è spesso "contaminata" da influenze cinematografiche). Questo a cominciare dai tratti somatici del protagonista (il Robert Redford di "Corvo Rosso") per proseguire con l'ambientazione generale (che ha molto in comune con "Il piccolo grande uomo") e con i bizzarri incontri di Lungo Fucile, che durante le sue avventure incrocerà il suo cammino con Totò e Poirot, marcerà assieme a dei lavoratori che sembrano quelli di Pellizza da Volpedo, stringerà amicizia con Nanuk (versione fumettistica del Dersu Uzala di Kurosawa), e flirterà con Marilyn Monroe.

Ken Parker fu anche una sorta di "palestra per talenti" per artisti che in seguito si distinsero e arrivarono alla notorietà, nella "Bonelli" e altrove. Se infatti la serie è nota per il team artistico dei citati Berardi e Milazzo, ad impegnarsi nelle avventure di Lungo Fucile troviamo pure Alessandrini, Trevisan, Marraffa e molti altri.

*****

Veniamo dunque a “Fin dove arriva il mattino”.
Se “Ken personaggio” è stato assente dalle edicole per molti anni, anche il “Ken uomo” è, nella realtà narrativa, da tempo lontano da una vita normale: è stato rinchiuso in carcere per vent’anni per avere ucciso un poliziotto, durante la repressione di uno sciopero.
Il nuovo episodio presenta due vicende, narrate in parallelo. Nell’attualità, Ken è sessantenne. Acciaccato nel fisico e indebolito nello spirito, è uscito di prigione per un indulto. Compie un viaggio assieme ad alcuni rapinatori. Col gruppo sono presenti due donne rapite dai malviventi, madre e figlia, che subiscono gli abusi sessuali dei rapitori.
Nel flashback, viene invece raccontato un episodio della detenzione del protagonista. Una storia che ci fa capire quanto sia stata drammatico il periodo vissuto in carcere, e quanto (anche in quelle atroci condizioni) il protagonista sia rimasto fedele ai propri principi morali.

(Una descrizione vaga, l’ammetto, ma non voglio rovinare il piacere della lettura a chi volesse procurarsi il volume. Ma è bene precisare che NON è possibile parlare di questo episodio conclusivo senza anticipazioni. Per cui invito chi volesse leggere “Fin dove arriva il mattino” a NON proseguire oltre in questo articolo…)

Nell’attualità, il lettore viene inizialmente sorpreso dalla “arrendevolezza” di Lungo Fucile, che sembra addirittura complice dei rapitori. In realtà, scopriremo nel finale, Ken è consapevole della propria debolezza e sta aspettando solo il momento propizio…
Ha dovuto stringere i pugni per non reagire alle violenze che vedeva commettere dai suoi ex compagni di galera (troppi, e più giovani di lui). Ha visto le condizioni delle due donne rapite. Ha visto la più giovane, Frances, addirittura “innamorarsi” del proprio aguzzino (e qui spunta il solito Ken: non giudica, non condanna…).
Ha sopportato tutto perché non è nelle condizioni di salvarle: deve aspettare il momento giusto e qualche inaspettato alleato… Riesce nell’intento, ma subito dopo muore, ucciso da una circostanza crudele e paradossale: un proiettile sparato dalla ragazza, appena liberata. Una realtà resa più crudele dal fatto che subito dopo la madre compie un gesto necessario ma ancora più spietato, uccidendo la figlia.

Lo stile di Berardi e Milazzo è il solito. Asciutto, tagliente nei dialoghi ed ancor più nell’intensa durezza dei disegni. TUTTA la saga di Ken Parker è stata amata proprio per il suo realismo. Il protagonista non è, come accennato prima, un eroe perfetto, invincibile e senza macchia. E’ un uomo inquieto, invecchiato, fisicamente fragile e stanco. Che ha già vissuto momenti duri e tragedie. Che ha già dovuto prendere decisioni difficili e strazianti.
Ken muore perché accade a tutti di morire. Ricordandoci che, nel fumetto come nella realtà, si può morire in modo crudele e imprevedibile. E, come il “solito, vecchio e amato Ken”, affronta la fine con commovente dignità.
Chi, legittimamente e in nome dell’amore per il personaggio, ha sperato in un lieto fine sappia che non poteva che morire così. Non semplicemente “dopo l’ennesima avventura”: la conclusione della sua vicenda umana non poteva essere consolatoria o “celebrativa del mito”.

*****

Un breve cenno alla vita editoriale di "Lungo Fucile".
La serie originale durò 59 numeri. Dopo l'interruzione, Ken Parker è stato protagonista di alcuni speciali ("Un principe per Norma", "Dove muoiono i Titani", "Un alito di ghiaccio", "Il respiro e il sogno"), pubblicato su riviste antologiche (“Orient Express”, “Comic Art”), e poi su una nuova iniziativa editoriale autonoma ("Ken Parker Magazine", 36 numeri).

Oggetto di diversi tentativi di ristampe ("KP Raccolta", "KP serie oro", "KP serie oro raccolta", nessuna completa), con “Ken Parker Collection” (Panini Comics, 42 volumi) ha avuto una ristampa finalmente integrale, che però si fermava a “Faccia di Rame”. Nella recentissima iniziativa di Mondadori Comics (50 volumi) la serie ha trovato, come accennato, una nuova ristampa e la propria conclusione, con l’inedito “Fin dove arriva il mattino”.

Francesco "Baro" Barilli

martedì 24 marzo 2015

Imagine

Non ho mai amato molto i Beatles. Ne riconosco la grandezza e il genio: nessuno, prima e dopo di loro, ha saputo produrre una simile serie di pezzi che ancora oggi, a decenni di distanza, suonano così attuali; nessuno ha saputo influenzare così tanto “il modo” di comporre una canzone. Insomma, seppure da incompetente della musica, ne capisco l’oggettiva importanza e l’unicità. Ma, semplicemente, i loro dischi (e ne possiedo diversi, sia chiaro) non sono fra quelli che porterei con me su un’isola deserta.
Idem dicasi della produzione solista di Lennon. E Imagine, il suo brano più famoso, non m’ha mai scaldato più di tanto. Bella, certo, ma della musica di quegli anni amavo, e amo tuttora, Deep Purple, Led Zeppelin, il rock duro degli inizi o le sonorità più complesse di Genesis e Pink Floyd, per dire. La melodia semplice semplice al pianoforte di Imagine era piuttosto lontana dai miei gusti, e il testo mi sembrava bello quanto ingenuo.
Mi sbagliavo… Recentemente ho visto “USA contro John Lennon”, documentario sul periodo “più impegnato” dell’ex Beatle, duramente contrastato dall’amministrazione Nixon. Così m’è capitato di riascoltarla, quella canzone. E di trovarla stupenda.
Non ricordo chi ha detto che il suo dono è quello di “far suonare” le sue parole con la musica più appropriata. Un testo semplice scorre su una melodia immediata e avvolgente: una composizione in cui testo e musica procedono in perfetta armonia. Ma, soprattutto, il pacifismo di Imagine ha cessato di sembrarmi banale e “adolescenziale”. Le affermazioni di Lennon sono in realtà taglienti: affinchè si possa creare un mondo diverso e migliore si deve, innanzitutto, desiderarlo. E per mantenerlo non dovrebbero esistere nazioni, religioni, desideri di possesso. Concetti rivoluzionari oggi quanto allora.
La tragica e prematura morte di Lennon (ucciso l’8 dicembre 1980) ha fatto diventare quel brano, che già prima era il suo pezzo più celebre, una sorta di “inno depotenziato”. Tutti possono canticchiarlo, fregandosene del contenuto. Esattamente come feroci capi di stato hanno potuto sfilare per le strade di Parigi dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo: la retorica del potere offusca il quadro complessivo, lo piega ai suoi fini. Ed è purtroppo molto efficace.
E’ uno schema codificato: si rende un dato personaggio una sorta di immaginetta sacra (lo si è fatto anche con Mandela, per fare un solo esempio, ma ce ne sarebbero molti altri), depotenziando e banalizzando il messaggio di cui è stato portatore in vita. Citate pure Luther King, dategli ragione, ma poi agite nella direzione opposta; condannate iniquità e sfruttamento, ma non disturbate chi li produce e ne trae profitto; canticchiate Imagine, ma non mettetela in pratica. Questo sembra volerci dire chi detiene il potere… Ma ciò non toglie che quella canzone, con più di quarant’anni sul groppone, sia ancora bellissima e attuale.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 28 gennaio 2015

Ancora sui fatti di Cremona

La discussione è andata avanti, qui sul blog e su facebook.
Intervengo quindi con un nuovo post solo per consentire una migliore lettura a chi è interessato.
Carlo è quello che ha detto la sua più puntualmente e lo ringrazio per il tempo e la passione che ha dedicato. Trovate il suo contributo sia nei commenti sul blog sia su facebook, “sotto” il mio primo articolo.

Ecco la mia risposta.

Caro Carlo,
il tuo intervento l’ho apprezzato, in molte parti condiviso, ma m’è rimasta l’impressione che stiamo parlando di due cose diverse.
Il tuo scritto contiene molte considerazioni politiche. Sono degnissime e mi soffermo brevemente su quelle, ma NON sono il punto nodale della discussione, a mio avviso.
Parli di politicismo, di quelli che vogliono “i voti degli operai ma non stanno nelle lotte operaie, vogliono i voti degli esclusi ma non li portano a occupare le case, vogliono i voti degli antifascisti ma…”. Di chi “ogni anno fa un comitato elettorale con un nome diverso, lo riempie di “yes man” e poi chiede ai primi di votarlo, così da avere ancora quei due-tre stipendi a provincia da far girare”.
Concordo. Quando poi accenni a comunicati di Rifondazione e altri che hanno preso le distanze dal Dordoni posso solo dirti che ne ho evitato la lettura. Meglio per il mio fegato…

Ma, ti dicevo, il punto non sta nell’analisi politica, quanto in quella logica e “fattuale”. Secondo me, ovvio.

A Cremona ho vissuto per anni, nel cremonese lavoro. Evito di leggere il quotidiano locale, quando non vi sono costretto per lavoro, per principio e, anche in questo caso, perché mi dà male al fegato.
Dopo il tentato omicidio di Emilio (uso volutamente un’espressione forte: intendo che la gravità di quanto successo non mi sfugge, anzi, e così pure rabbia e indignazione conseguenti) ho cercato di “annusare l’aria”.
Beh, posso assicurarti che dopo il fatto, e prima del corteo, qualcosa si stava muovendo. Persino una timida solidarietà dal giornale, prese di posizione contro casa Pound da parte di “moderati” (uso categorie per semplificare).
Solidarietà “pelosa” quella del giornale (peraltro sempre velata di “equidistantismo”, per coniare un neologismo)? Prese di distanza ipocrite quelle di altri? Certo, non pensarmi così ingenuo. Ma c’erano…
Tu stesso vi hai accennato, quando hai parlato della conferenza stampa tenuta dalla moglie di Emilio nei giorni precedenti in cui (ti cito) “auspica che la manifestazione possa essere il viatico per una città senza più violenza. Conferenza tenuta insieme a ANPI (leggi PD), ARCI (leggi PD)…”.

Ora, attenzione, di fronte all’aggressione a Emilio avevi due strade. Entrambe legittime, entrambe con pro e contro:
1. cerchi di allargare il fronte antifascista. E a questo punto giocoforza ti mescoli con gente differente in nome di un obbiettivo superiore e comune (spezzoni di Pd, Sel e compagnia). Stringi un patto di civiltà, per usare un’espressione enfatica ma in cui credo, con chi magari non è proprio come te, ma dentro di sé ha “un antifascista dormiente che s’è svegliato”. 
2. rifiuti la solidarietà (tanto quella pelosa e “di facciata” quanto quella sincera, per quanto ingenua e magari non priva, nel passato, di ambiguità e contraddizioni). E vai da solo.

Ripeto: entrambe le strade sono legittime e hanno pregi e difetti. Ma o segui una o l’altra. Mixarle è impossibile e se ci provi produci uno sgorbio.

(Carlo scusa la parentesi, necessaria perchè non mi stai leggendo solo tu. Quando, in questo come in altri casi, esprimo giudizi duri su Sel o sul Pd – ma anche su Rifondazione, sia chiaro – mi riferisco ovviamente ai partiti, alle loro linee, alle loro direzioni. So bene che se parlo di singole persone la questione è moooolto più complessa e il giudizio è assai diverso: ci trovi tante persone degnissime, è persino banale sottolinearlo)

La manifestazione di Cremona, secondo me, è stato il tentativo di mixare l’opzione 1 e la 2. Più precisamente, si è convocata una manifestazione secondo l’opzione 2, dopo segnali (fra cui la conferenza stampa) che potevano far pensare si cercasse l’opzione 1.
Hai fatto intravedere quel “patto di civiltà” di cui parlavo prima. Un patto che (piaccia o meno, e con tutta la concessione della buona fede) è saltato DURANTE la manifestazione, e i cui frutti amari li vedremo col tempo. Su questo tornerò nel finale…

Scusa, ora ti sembrerà che io faccia un salto logico. Non è così e ti prego di seguirmi.
Ad un certo punto sottolinei l’aspetto su cui ci troviamo più d’accordo. Il passaggio dove dico “Quest’anno cade il settantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo. Una liberazione ottenuta combattendo, non sfilando coi palloncini colorati. Ricordarlo è un dovere ecc.”. Tu rispondi “Sono ovviamente d’accordo. Bisognerebbe anche ricordare le cause che spianarono la strada al fascismo, la sua natura di gendarme del capitale in una fase di crisi. Bisognerebbe ricavarne le analogie con la fase attuale ecc.”
Sapevo che ci saremmo trovati d’accordo. E ne sono contento, perché questo è DAVVERO il punto fondamentale, davanti al quale il resto sono chiacchiere da tastiera. Però, attenzione, proprio la riflessione che proponi va portata fino in fondo.
Come è stato sconfitto il fascismo? Allargando il fronte antifascista, superando le divisioni in nome di un obbiettivo primario e superiore. La Resistenza quello è stato.
Qualcuno mi dirà che il fascismo era già indebolito: la guerra andava come andava, l’8 settembre eccetera. Ma sta di fatto che il regime, nel ventennio, trema seriamente già nel 1924 dopo l’omicidio di Matteotti, quando però proprio le divisioni del fronte antifascista “sterilizzarono” la possibilità di una caduta di Mussolini, che al contrario con il discorso del 3 gennaio 1925 e le successive leggi fascistissime diede un giro di vite e creò le condizioni per restare al potere per anni, liquidando opposizioni, giornali, sindacati… (Chi vuole si cerchi il film “il delitto Matteotti”, lo trovate anche su youtube).
Tutto questo per farla breve, non sto facendo un trattato di storia. M’interessa solo la “macroquestione”, per così dire: la Resistenza innanzitutto compattò il fronte antifascista. Restarono le differenze interne, certo, ma l’obbiettivo superiore (politicamente, ma pure “moralmente”) le fece accantonare.

Avrai capito che a Cremona, a mio avviso, l’opzione giusta, PROPRIO perché considero GRAVISSIMO quanto successo a Emilio, era la 1: allargare il fronte antifascista, mescolarsi con gente differente in nome di un obbiettivo comune ecc.

Oh, una cosa sia chiara: come dicono giustamente alcuni compagni di Foggia, in questo campo “ogni critica è un'autocritica”. Le cose che ho detto e dico le dico pure (innanzitutto) a me, guardandomi allo specchio. Criticare, avanzare dubbi, cercare di capire, dovrebbe essere uno spunto di riflessione, non qualcosa percepito come un tradimento (non mi riferisco a te, che hai speso belle parole – di cui ti ringrazio – per sottolineare che le critiche che hai rivolto non erano per me, ed hai dimostrato – nei fatti e non solo a parole – d’avere apprezzato la mia voglia di capire).

La manifestazione di Cremona è stata una sconfitta. Che alcuni, sicuramente in buona fede, vogliono vedere come una vittoria.
Il risultato fattuale (ti dicevo prima che Cremona e il territorio cremonese lo conosco) è: ora il Dordoni è solo. Anche (non “solamente”) per la codardia di chi poi fa i comunicati e domani cercherà voti, questo è pacifico.

Tu dipingi un quadro della situazione terribile. Io credo che la realtà sia ancora più terrificante. Vuoi saperla? Qui ti giuro che spero di sbagliarmi: dal punto di vista della strategia complessiva della repressione, Cremona, e non la Val di Susa, sarà un laboratorio.
Dopo il 24 gennaio Forza Italia e la Lega a Cremona si sfregano le mani. Casa Pound ha stappato lo champagne. La frattura fra centri sociali e la sinistra peggiorerà. Il PD avrà ancora più alibi. Sel continuerà ad ondeggiare. Assieme a Rifondazione, ininfluente, attenderanno lo Tsipras italiano, meglio se di seconda mano. Sul breve periodo (sul lungo, vedremo) il Dordoni sarà percepito come un corpo estraneo alla città, se va bene. Le persone che si sono allontanate dal corteo sabato 24 in piazza ci andranno sempre meno. I vecchietti che applaudono al balcone o “la professoressa di 50 anni che sfila in corteo”, come dici tu, scordateli. Resteremo solo noi, testimoni frastornati di un passato e di un presente che non hanno saputo diventare futuro.

Con amicizia

Francesco “baro” Barilli

lunedì 26 gennaio 2015

Vogliamo ragionare su quanto successo a Cremona?

Per una serie di questioni personali, peraltro spiacevoli, non ero presente alla manifestazione di Cremona di sabato 24, convocata dopo la violenta aggressione effettuata da militanti di casa Pound a danni di Emilio, del CSA Dordoni. Chi mi conosce sa che ci sarei andato molto volentieri, anche per il mio legame con quella città. E prima di procedere oltre voglio mandare un abbraccio a Emilio, alla sua famiglia, ai suoi compagni e compagne.

Ho seguito on line diversi commenti sull’esito della manifestazione. Ne scelgo alcuni: persone che non si conoscono fra loro e che io invece conosco e stimo. Visto che non voglio far diventare questo articolo l’occasione per uno scazzo personale fra loro, li chiamerò Soggetto 1, Soggetto 2 eccetera, nominandoli al maschile per renderli totalmente impersonali. Sintetizzerò brutalmente le rispettive posizioni, mantenendo ovviamente il contenuto.

Soggetto 1: era alla manifestazione e l’ha abbandonata disgustato, quando una minoranza di violenti ne ha stravolto il senso originario. Molti, afferma, hanno fatto come lui.

Soggetto 2: dice l’esatto opposto. La versione di un corteo “rovinato da una minoranza di violenti” è falsa: la maggioranza dei manifestanti era compatta nel condividere le modalità “più dure” della manifestazione. Dice, soprattutto, che quella “maggioranza dura” esprimeva essa stessa il senso con cui l’iniziativa cremonese era stata convocata.

L’idea che uno dei due stia raccontando balle può sorgere spontanea. Ma, come ho detto, li conosco entrambi: mi sento d’assicurare che non stanno mentendo. Qualcuno potrebbe dire “la verità sta nel mezzo”: perdonatemi, m’è sempre sembrata una sciocchezza. Non c’è bisogno di filosofeggiare sul significato profondo di “verità”: sì, a volte è equidistante fra due versioni, altre volte pende decisamente da una parte.
Dunque, Soggetto 1 e Soggetto 2 non mentono, hanno solo percepito una realtà diversa. Lo dico senza ironia: che più osservatori forniscano in buona fede ricostruzioni diverse dello stesso evento è più normale e frequente di quanto si possa pensare.

Decido dunque di approfondire…
Franco Bordo è un parlamentare di Sel. Non lo conosco e sapete la mia scarsa opinione di Sel. Di lui faccio il nome perché il suo ruolo lo rende diverso da “Soggetto 1 e 2”: per lui è corretto riportare con nome e cognome quanto dice su Facebook: “Questa era la testa del corteo antifascista di Cremona, pacifico e molto partecipato. Con un colpo di mano, un gruppo di violenti ben organizzati ha obbligato la testa del corteo, moglie di Emilio inclusa, a farsi da parte per dar vita ad un pesante scontro con la polizia. Questo non è antifascismo”.

Quindi c’è un primo elemento da verificare: che alla testa del corteo ci fossero i familiari di Emilio, suppongo assieme ai compagni più stretti, mi sembra naturale. Sono stati allontanati dai ragazzi con caschi e bastoni? Oppure il cambio alla testa del corteo era o è stato concordato?

Arrivo quindi a Soggetto 3: arrivava da fuori Cremona. In tanti, dice, come lui sentivano l’esigenza di una manifestazione antifascista, dopo l’aggressione ad Emilio. Sostiene che molti compagni se ne sono dovuti andare poco dopo la partenza del corteo, quando il cordone “armato” s’è messo alla testa del corteo, imponendo la propria presenza e la propria modalità di manifestare.

Incuriosito, cerco un comunicato del CSA Dordoni. I più colpiti, anche umanamente, dal dramma di Emilio e i più titolati a dire come è andata. Lo riporto integralmente (sottolineature mie).
“Ieri, sabato 24 Gennaio, diecimila antifascisti hanno attraversato le vie di Cremona per ribadire la propria solidarietà ad Emilio ed ai militanti del centro sociale Dordoni aggrediti domenica pomeriggio fuori dallo spazio autogestito di via Mantova.
Il corteo si è mosso con determinazione verso la sede locale di CasaPound, da cui in questi ultimi mesi sono partite numerose aggressioni ai danni degli antifascisti/e cremonesi.
Sabato è stata data una risposta forte e chiara: chi tenta di uccidere un compagno ne paga le conseguenze!
Che cosa ci si poteva aspettare dopo la gravissima aggressione di domenica 18 gennaio, quando sessanta fascisti hanno lasciato in fin di vita  Emilio, storico compagno del centro sociale, colpendolo ripetutamente con spranghe e calci in testa?
La polizia, connivente e complice con i fascisti, ha permesso domenica sera a sessanta assassini di andarsene indisturbati dopo il tentato omicidio premeditato e, successivamente, ha caricato il presidio di solidali accorsi sul posto dopo la diffusione della tragica notizia.
Dopo tutto ciò, che cosa ci si aspettava?
In migliaia si sono mossi uniti e compatti, con buona pace della questura che ha dichiarato una partecipazione di sole duemila persone, verso il covo fascista che da un anno a questa parte è il luogo da cui partono azioni squadriste ai danni di attivisti politici, migranti e studenti; sede che la polizia era schierata a difendere.
I fascisti di CasaPound che hanno tentato di ammazzare Emilio e la Polizia che ha permesso loro di compiere indisturbati il vile agguato sono i soli e unici responsabili della tensione che si è creata ieri a Cremona!
I danneggiamenti di banche e del comando della Polizia Locale, avvenuti sul finire del corteo, erano ampiamente evitabili; ma in un corteo di tali dimensioni non potevamo controllare tutto.

Dopo l'attacco premeditato e scientificamente organizzato di domenica pomeriggio al centro sociale Dordoni, con Emilio che ancora lotta per la vita in un letto d'ospedale, la rabbia nel corteo era tanta: i responsabili di tutto ciò rimangono gli assassini di CasaPound e la Questura di Cremona.
L'Antifascismo non è un vuoto rituale commemorativo, ma valore e pratica quotidiana: dai picchetti contro gli sfratti, nelle lotte contro lo sfruttamento e la miseria, fino alla giornata di ieri!
Un ulteriore abbraccio a Emilio e a tutta la sua famiglia!
#EmilioResisti
I compagni e le compagne del CSA DORDONI”


Il comunicato mi sembra dire:
- La tensione creatasi al corteo del 24 è conseguenza di quanto successo il 18: è colpa dei fascisti, che hanno aggredito Emilio, e delle forze dell’ordine che li hanno protetti.
- Il CS Dordoni concorda sul fatto che il corteo dovesse muoversi verso la sede di casa Pound, ma non ha voluto gli scontri e in parte li condanna (“I danneggiamenti di banche e del comando della Polizia Locale … erano ampiamente evitabili”).

Qui comincio ad esprimere una mia valutazione. NON “politica” ma sul piano logico e magari erronea (ricordo che mi esprimo su testimonianze raccolte, non su osservazione diretta): il comunicato mi sembra debole e imbarazzato.
E’ sacrosanto convocare una manifestazione dopo l’aggressione del 18. Ed è logico ci siano rabbia e indignazione: il punto è vedere “come” le si vuole esprimere, sapendo che il corteo sarà molto partecipato e con sensibilità diverse. Il Dordoni è, politicamente, il soggetto più coinvolto: prima dell’evento sta a lui stabilire cosa “si deve fare”, cosa “si può fare”, cosa “si può accettare”, cosa “si deve rifiutare”.

A questo punto guardo i video degli scontri per chiarirmi le idee.
Effettivamente all’inizio il corteo è aperto da uno striscione. Dietro, molte persone e molte bandiere.
Ad un certo momento lo scenario cambia, arrivano ragazzi con caschi e bastoni e si mettono “a cordone”, alla testa. Da questo momento le immagini si fanno più confuse, ma non riesco più a vedere le molte bandiere e gli striscioni precedenti. La sensazione è che abbia ragione Soggetto 3 quando dice che molti hanno scelto di allontanarsi poco dopo la partenza.
I poliziotti tirano lacrimogeni come li avessero comprati in svendita all’Ikea. Ma arretrano, mantengono sempre una distanza fra sé e il fronte dei manifestanti. Su altre fonti leggo che ci sono stati dei feriti, ma nei video non si vedono arrivare a contatto le forze dell’ordine e i manifestanti. Non sembra una riedizione di Genova 2001, sembra un balletto: sassi e fumogeni contro sassi e lacrimogeni. Più che uno scontro sembra il preliminare di una rissa che entrambi i contendenti vogliono evitare. In questo contesto anche l’assalto alle banche appare uno stanco rituale: ricordo che l’iniziativa di Cremona era in solidarietà a un compagno gravemente ferito, contro casa Pound e le sedi fasciste. Fumogeni e lacrimogeni sembrano una festa di San Pietro (chi è di Cremona mi comprende) sui generis e fuori stagione.

Provo a tirare le conclusioni. Mie personali e assolutamente criticabili.

1. Casa Pound è protagonista di una smaccata apologia del fascismo. Che una simile realtà sia non solo tollerata ma addirittura coccolata è scandaloso. Quest’anno cade il settantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo. Una liberazione ottenuta combattendo, non sfilando coi palloncini colorati. Ricordarlo è un dovere. E così pure metterlo a cappello di queste conclusioni.
2. L’antifascismo deve farsi testimonianza culturale costante nella società. Il fascismo lo si combatte innanzitutto mostrandone l’orrore, combattendo il revisionismo storico, sottolineando le alleanze odierne (con la Lega in primis) e le colpevoli banalità sul passato (i vari “il fascismo ha fatto anche cose buone” e via dicendo). Senza questa attività preventiva, sfasciare vetrine per attestare la propria esistenza in vita non serve a nulla. E lo dico sul piano pratico, non su quello etico. Non m’interessa parlare di cosa è giusto fare e cosa no: vorrei parlare di cosa è utile fare, di cosa è inutile e di cosa è, addirittura, controproducente.
3. Qualcuno dirà “E le sedi di casa Pound non vanno forse chiuse? Agendo sul piano culturale, senza una dura reazione nei fatti non si ottiene nulla!!!”. Vero solo in parte: con un’attenta operazione culturale e di memoria quelle sedi non verrebbero neanche aperte. Al fascismo e ai suoi rigurgiti si deve impedire di trovare terreno fertile, così la malapianta non cresce neppure.
4. Una manifestazione non è fatta solo dai contenuti che si vogliono esprimere, ma anche dalle modalità con cui le si vuole esprimere. In questo campo, la forma è essa stessa sostanza. Poi, chiaro, le modalità possono essere diverse anche all’interno di una data manifestazione (è una ricchezza, non un difetto!) ma è bene che quelle diversità siano discusse prima. E accettate (allora si manifesta insieme) o rifiutate (e allora chi vuole può farsi una propria manifestazione, in altro tempo o luogo).
5. In questi casi in troppi vogliono solo sottolineare il proprio purissimo pedigree antifascista. Una sorta de “il mio antifascismo è più lungo del tuo!” che non m’appassiona. Ma l’antifascismo visto a Cremona è stato solo un’inutile rappresentazione muscolare e di facciata.

A chi invece volesse commentare “da destra”, dando dell’ipocrita a quei manifestanti allontanatisi dal corteo di Cremona perché “i violenti li si doveva isolare” (ho letto anche questo) rispondo solo di non dire cazzate, che facciamo prima.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 15 gennaio 2015

Il “Dopo” di Licia Pinelli

Di Licia Pinelli mi hanno sempre colpito la dignità, la pacata fermezza, la capacità di sintesi. Tutte cose che ho ritrovato in “Dopo”, breve ma completo racconto della sua vita successiva alla tragica notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969.
A qualcuno potrebbe venire il sospetto che la narrazione di Licia (che oggi ha 87 anni) sia mediata da un ghost writer. Chi ha il piacere di conoscerla personalmente quel dubbio non può averlo: altra caratteristica di Licia è una totale indipendenza intellettuale, e mai affiderebbe ricordi tanto intimi a un intermediario. Anche in “Una storia quasi soltanto mia” (Mondadori, 1982; ristampato e aggiornato da Feltrinelli nel 2009) la bravura di Piero Scaramucci stava nell’ascoltare e raccogliere, da giornalista abile e amico discreto quale è, la sua testimonianza, più immediata rispetto alla morte del marito. Ma pure in chi lo avesse davvero, quel dubbio sparirà non appena avrà letto “Dopo”: lo stile è proprio quello asciutto, ma non per questo meno toccante, della donna che ha dovuto aspettare quarant’anni perché lo Stato fornisse almeno un tardivo riconoscimento di “vittima innocente” a Pino Pinelli.

La storia di Giuseppe Pinelli è – almeno spero – nota a tutti quelli che mi stanno leggendo. Più volte ne ho parlato: per chi volesse approfondire segnalo solo questa mia vecchia intervista, proprio con Licia.
Giuseppe Pinelli era il ferroviere anarchico (ma a me piace ricordarlo anche come giovanissimo partigiano) che il 12 dicembre 1969 seguì spontaneamente, col proprio motorino, la polizia che lo aveva invitato in Questura. Da quell’ufficio uscirà la notte fra il 15 e il 16 dicembre, precipitando da una finestra del quarto piano. La sua memoria fu inizialmente infangata proprio dai vertici della Questura milanese, che lo dipinsero come pesantemente implicato nell’attentato di Piazza Fontana. La sua totale estraneità ai fatti fu chiara da subito… Ma non è su questo che si sofferma “Dopo”, né vuole soffermarsi questo articolo.

Il racconto di Licia parla di “una lotta per la normalità” come conseguenza di una vicenda che nulla ebbe di “normale”.

Due figlie, da crescere e proteggere da una tragedia che non è solo personale, ma intreccia i propri fili con una delle pagine più oscure della storia dell’Italia repubblicana, con un peso che avrebbe potuto schiantare chiunque. La vita deve andare avanti, innanzitutto per loro…

Poi ci sono gli incontri. Con il dottor Giulio Maccacaro, il primo a offrirle un impiego e con esso non solo un aiuto economico, ma soprattutto il ritorno a un clima di solidarietà umana. E poi quelli con Enzo Jannacci, Franca Rame, Camilla Cederna, il già citato Scaramucci e molti altri. Tutti accanto a lei, in diversa forma e misura, nella denuncia dell’ingiustizia subita, nella ricerca di verità e giustizia, nel mantenimento della memoria di Pino. Una lotta che da 45 anni Licia conduce in prima fila e che oggi vede come protagoniste anche le due figlie, Claudia e Silvia.

Nel suo pamphlet Licia riesce, con il suo stile sereno ed essenziale, a raccontare una storia che è insieme personale, familiare, politica. Arricchendola persino con sfaccettature gustose (come un certo misticismo, un lato della sua personalità che non conoscevo e mi ha sorpreso, oppure la sua partecipazione al coro del maestro Bordignon, a cui si unì come contralto).

Ma non perdete altro tempo nel leggermi: “Dopo” è disponibile in e-book (per informazioni cliccare qui): andate a scaricarlo…

Francesco “baro” Barilli