venerdì 25 gennaio 2013

Da Piazza della Loggia a Carlo Giuliani, inseguendo un nome…

Tempo fa, tramite internet, avevo letto questo articolo di Gian Marco Chiocci, apparso su Il Giornale l’11 novembre 2012. In sostanza nell’articolo si insinua che per le stragi di Brescia e Bologna possano esistere “piste rosse”, in luogo di quelle “nere” ormai acclarate anche in via giudiziaria. Rimando all’articolo completo per i dettagli.
Sulla testata il pezzo viene definito pomposamente “inchiesta”: su questo termine (interessante spia linguistica, involontariamente ironica una volta che si è depurato l’articolo dalle molte inesattezze in esso contenute) tornerò più avanti.
Per un po’ ho pensato di scrivere una risposta – almeno per quanto concerne Piazza della Loggia, caso che ho seguito a fondo – a quello che veniva presentato come un “grande scoop”. Ad evitarmi la fatica ci ha pensato qualcun altro: a chi avesse la pazienza di leggersi tutto l’articolo del Giornale, consiglio di leggere la risposta di Ugo Maria Tassinari, che a sua volta sintetizza considerazioni di Giacomo Pacini.

A quest’ultimo pezzo aggiungo solo un particolare. Nella sua “inchiesta” Chiocci dice che “i magistrati di Brescia … all’inizio indagavano sull’eversione rossa forse perché il comizio dei sindacati bresciani era ‘contro il fascismo delle Br’.”
Non è la prima volta che organi di stampa, cercando “una sponda” per mettere in dubbio la matrice nera della strage, mettono in discussione che la manifestazione sindacale bresciana del 28 maggio 1974 fosse “antifascista”, parlandone invece come di un’iniziativa trasversale, se non addirittura contro le Brigate rosse. Sono voci che possono essere dettate solo da grossolana ignoranza o malafede. Basterebbe ripercorrere la cronologia dei fatti precedenti il 28 maggio 74 nel territorio bresciano per smentirle, o leggere i volantini scritti per pubblicizzare la manifestazione di quella mattina.
Riporto quanto detto dall’ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini, in Commissione stragi, seduta del 4.6.97: “posso dare lettura dei volantini diffusi nell’occasione … Il CUPA (ndr: Comitato Unitario Permanente Antifascista), d’accordo con Cgil, Cisl, Uil, indice una manifestazione antifascista: «Ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Tutto ciò deve cessare! Le indagini vanno portate sino in fondo, episodi di provocazione come quello di piazza Mercato (ndr: si tratta della morte del neofascista Silvio Ferrari, avvenuta durante un fallito attentato nella notte fra il 18 e il 19 maggio precedente) vanno stroncati sul nascere. La delinquenza nera deve essere isolata e schiacciata senza esitazione»”.
Dunque la manifestazione fu conseguenza dello stillicidio di attentati fascisti che avevano interessato la città fino al maggio 1974, e presentava un carattere prettamente antifascista. Poi, è vero, nei testi si leggeva anche “della sfida della banda di delinquenti comuni definitasi Brigate rosse contro lo Stato”. E’ ormai assodato, e non sarò certo io a negarlo, che specie in quei primi tempi un errore storico della sinistra fu vedere le BR come una banda di provocatori di dubbia estrazione ideologica, probabilmente (in quella miope lettura) “neri travestiti da rossi” (sempre per semplificare: l’argomento andrebbe ampliato, ma in questa sede risulterebbe dispersivo). Un errore grave fin che si vuole, ma in quel momento e in quella circostanza comprensibile. L’accenno alla “banda di delinquenti comuni definitasi Brigate rosse” rispondeva a un convincimento della sinistra dell’epoca: sicuramente sbagliato, ma in buona fede, almeno in quei momenti (le azioni delle Br erano agli inizi).

Dunque sulla “inchiesta” di Chiocci non c’è molto altro da scrivere. E tutto sommato non era necessaria neppure la mia postilla alla risposta che ho già linkato sopra.
Forse vale la pena fare solo una riflessione su questo tipo di giornalismo. Che sugli anni ’70 non ha intenzione di chiarire un bel nulla (non ne ha l’interesse) ma bensì di intorbidire le acque, rendendo il quadro d’insieme ancora più confuso di quanto già non sia. Non ricordo chi ha detto che ad una certa ora della sera (e, aggiungo io, ad una certa distanza) tutti i gatti sono grigi. Ecco, mi sembra che lo scrivere di Piazza della Loggia o della strage di Bologna insinuando sospetti verso la sinistra (spesso ripercorrendo depistaggi già ampiamente demoliti e smentiti, tipo la presunta foto di Curcio in Piazza Loggia, tanto per dire) abbia come sola aspirazione proprio quella di dipingere quel periodo come anni in cui tutti i gatti erano grigi. La funzionalità politica di questo tipo di narrazione è fin troppo chiara; tanto che, al di là di lunghi discorsi, per rispondere basterebbe dire che, guardati da vicino, i gatti alla stazione di Bologna e – prima – in piazza a Brescia erano decisamente neri…

Ma il nome di Gian Marco Chiocci continuava a tormentarmi con la domanda “dove l’ho già sentito??”. Ho dunque cercato fra le carte del mio archivio, trovando questo (leggetelo tutto, specie le ultime righe, prima di tornare qui).

Ecco, dunque, dove avevo “incontrato” precedentemente Chiocci.
Non m’interessa rispondere alle falsità contenute in quell’articolo su Carlo. Un po’ perché si tratta di un articolo del 2007; ma soprattutto perché a mio modo l’ho già fatto raccontando, assieme a Manuel De Carli, “Carlo Giuliani, il ribelle di Genova”.

Su Elena Angeloni invece qualcosa va detto…
Innanzitutto ricorderò (brevemente e con molte lacune, per motivi di spazio) quale era il contesto della Grecia di quegli anni, prima e dopo l’attentato dimostrativo all’ambasciata USA di Atene in cui Elena trovò la morte.

21 aprile 1967
In Grecia un colpo di stato militare insedia il cosiddetto “regime dei colonnelli”. I militari golpisti giustificano la loro azione come un atto rivoluzionario compiuto per salvare la nazione dal pericolo comunista. Tra il regime dei colonnelli e le formazioni neofasciste italiane si instaurano, negli anni successivi, stretti rapporti di collaborazione.
25 novembre 1973
La dura repressione di una rivolta studentesca al Politecnico di Atene, con conseguente uccisione da parte dell’esercito di numerosi civili, apre le prime crepe nel regime dei colonnelli. Il generale Papadopoulos viene rimosso dal generale Ioannidis, che riuscirà comunque a mantenere il potere nelle mani dei militari, nonostante l’aumento dell'opposizione interna e le proteste internazionali.
17 novembre 1974
In Grecia si tengono libere elezioni. Dopo gli avvenimenti del novembre precedente, con l’avvicendamento fra i generali Papadopoulos e Ioannidis, e dopo un anno di tensioni fortissime, che avevano già portato prima ad altri passaggi di potere interni alla giunta militare e poi al ritorno in patria di Kostantinos Karamanlis (già primo ministro negli anni '50 e dal 1963 stabilitosi a Parigi) le elezioni sanciscono il definitivo crollo del regime. Karamanlis viene nominato primo ministro, dopo la vittoria elettorale del partito “Nuova Democrazia”.

La storia di Elena Angeloni (quella corretta, stavolta…) è stata recentemente raccontata grazie a Paola Staccioli e Haidi Gaggio Giuliani, nel loro “Non per odio ma per amore” (Derive Approdi, 2012), di cui consiglio la lettura e di cui riporto solo un passaggio: “nel 1983 l’allora primo ministro greco Andreas Papandreu invita ufficialmente ad Atene il figlio di Elena Angeloni a una cerimonia in onore delle vittime della Resistenza greca. Sono presenti, fra le altre personalità, Melina Mercuri, Giancarlo Pajetta, Rosario Bentivegna”.

(Tutto questo per dire chi era Elena Angeloni e quale sia il suo ricordo in Grecia…)

Ci sarebbe molto altro da scrivere, ma viene un momento in cui puntualizzare, rispondere, documentarsi per replicare sembra una fatica inutile.
Chi dovrebbe rettificare ha interesse o intenzione di farlo?
Io, in fondo, lo spero davvero?
I lettori delle mie puntualizzazioni non sanno già come stanno le cose?

Quindi la chiudo qui. A chi è interessato ad approfondire le varie vicende che ho descritto ho già dato abbastanza spunti per cercare altri materiali. A me resta solo l’amara riflessione su un certo modo di fare giornalismo, che ho scoperto riflettersi nella stessa penna in due casi che – per diversi motivi – sento vicini. Del resto Pasolini, in un passaggio meno noto del famoso “Io so”, diceva che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”. Forse lo stesso può dirsi della prassi giornalistica.

Francesco “baro” Barilli

domenica 20 gennaio 2013

"Carlo Giuliani" pubblicato in Francia






La cover di Manuel De Carli per "Bello Ciao", versione francese di "Carlo Giuliani, il ribelle di Genova", per Les Enfants Rouges.
Sempre bravo Manuel... E sempre importante continuare a raccontare, a ricordare, anche fuori dai nostri confini...



Misunderstanding

Al signor G. Da lui, a modo suo, l’ho avuto. 
A lui, a modo mio, lo restituisco.

*****

… Cos’è stato quel clic? Ah, la cassetta è finita, aspetti che la giro. Registra tutto, come si vede nei film. Bravo, mi sembra un atteggiamento serio e professionale! Guardi però che ci sono mezzi un po’ più moderni per registrare, eh? Non voglio farmi i fatti suoi, ma insomma…
Dove eravamo rimasti l’altra volta? Sì, le dicevo che dopo quel che m’è successo tutta la mia vita avrebbe bisogno di un lifting. Proprio tutta, dal primo vagito in poi. Comprese le idee. Che poi le idee per noi uomini sono come i genitali per i gatti: ce le lecchiamo per un po’, poi ci stufiamo e le lasciamo lì. Inerti…
Bisognerebbe, almeno ogni tanto, riuscire a fare una cosa inaspettata. Come un attore che per una volta reciti improvvisando, uscendo dal copione e sorprendendo se stesso, il regista, il pubblico. Capisce? Ma cosa glielo dico a fare, “capisce”, certo che capisce! E’ intelligente, è il suo lavoro. E poi la pago per quello. Oddio, la pago… A dire il vero mica la pago io direttamente. Come lo chiamano? “Supporto psicologico per le vittime dei reati”. Gentile lo Stato, almeno a qualcosa serve.

Ha le dita un po’ viola. Aspetti, le allento le corde. Così va meglio, vero?

Le dicevo che dovrei sottoporre la mia vita a un lifting. Bella l’espressione, no? La può utilizzare con altri pazienti, faccia pure, non me la prendo. Anzi, ne sarò contento. Il punto è che, per quanto mi riguarda, fare una revisione critica della mia esistenza è un bel casino. Siamo fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni, diceva il Bardo. A volte degli incubi. E a volte di sogni che si trasformano in incubi… Ecco: il lifting, la revisione, sono termini adatti a cose fisiche (le rughe su un volto, un’automobile…). Come applicarli ai sogni? Ci vorrebbe la metafisica. La metafisica può dare spiegazioni dove la scienza fallisce, o pretende di farlo (pensi alle religioni: non sono forse la migliore dimostrazione del mio assunto?). Ma con la metafisica non si fa la psicanalisi, almeno credo.

Sto divagando dottore, mi scusi. Mi sembra irritato. Ma forse non riesce a respirare bene… Respira?
Ho visto morire un cane una volta, sa? Mi sembrava soffocare, povera bestia. Aveva un po’ il suo sguardo. Aspetti, diamo un’occhiata al bavaglio… No, non è così stretto, dai!!!
Le ho portato delle clementine. Le vendeva un camioncino lungo la strada. Sono buone, gliel’assicuro. Niente semi, pelle sottilissima, sugose. Puro nettare zuccherino. Quando si sarà liberato potrà mangiarle, le piaceranno. Non mi ringrazi, ci mancherebbe…

Ora basta, vengo al sodo.

Sì, ero in quel ristorante quand’è scoppiata la bomba. Gliel’ho raccontato la volta scorsa, ma lei non era soddisfatto. Voleva un racconto più dettagliato e completo, m’ha detto. Per capire le mie oscillazioni emotive (mi scusi: l’ho odiata quando ha usato quell’espressione).
Bene: nel locale c’era questa ragazza bellissima. Un cappello di vimini vezzoso, adornato di fiori, da cui uscivano ciocche di capelli neri che cadevano sul viso come decorazioni.  Dopo un piatto di tagliatelle ai funghi l’ho vista leggere il giornale, mentre la sua bocca indulgeva in smorfie di insoddisfazione o perplessità. Non capivo cosa fosse, ma mi sembrava terribilmente altezzosa e sexy. Forse le smorfie servivano a quello.

L’altra volta m’ha chiesto cos’ho provato quando… Ho risposto che gliel’avrei detto oggi. La risposta più sincera è “non lo so”. So cosa penso d’aver provato, ma non ne sono sicuro. Niente di particolarmente intelligente; nemmeno segnato da partecipazione o sentimenti particolari. In quei momenti non si prova nulla, tutto qui. Si diventa qualcos’altro, qualcosa di diverso da sé.
Il botto mi ha stordito, più che spaventarmi. Anzi, spaventato non lo ero per niente. Non so come reagiscano altri, ma io mi sono trovato subito a cercare di razionalizzare, a capire se ero ferito o se, come mi resi conto subito, ero tutto intero.
Quella ragazza che avevo visto (e che, non glielo nascondo, anche alla mia età m’aveva attirato) veniva verso di me. Il cappello era volato via e di quelle ciocche nere ne era rimasta una sola, bruciacchiata come il resto del volto. L’esplosione le aveva lacerato la camicetta, il tronco era nudo, ma non c’era più nulla di sensuale in quel petto scarnificato. Il braccio destro era stato strappato via poco sotto il gomito. Ma la cosa peggiore era lo squarcio nella gola. Fece qualche passo verso di me. Non so quale forza la tenesse in piedi, poi s’accasciò all’indietro.
Mi avvicinai. Dalla bocca non potevano uscire parole, solo un grottesco gorgoglio di suoni. E sangue che la stava soffocando. Ma gli occhi imploravano quasi con violenza un aiuto che nessuno, tantomeno io, poteva darle. Mi sentii sollevato quando spirò fra le mie braccia…
Qualcuno ha parlato di follia criminale. Lo si fa sempre in queste occasioni. Ma non c’era nulla di folle, anzi… Una lucida e crudele volontà aveva progettato quell’attentato in cui erano morte 7 persone. Una di queste l’avevo vista trasformata, sempre da quella crudele volontà, da donna bellissima in un osceno manichino che pretendeva aiuto da me.
Ero irrazionalmente infuriato con quell’atroce creatura. E pieno di vergogna per la mia (questa sì: folle!) inumanità, che nessuno stato di shock può giustificare (quindi lei non ci provi nemmeno!). E pieno di rabbia verso chi aveva voluto tutto questo.

Quando morì mia moglie, due anni fa, io ero al lavoro. Però non stavo lavorando, stavo giocando al “campo fiorito” di Windows… Dicono che quando succede qualcosa di brutto a una persona a cui vuoi bene dovresti sentire qualcosa. Un brivido, un presentimento. Io no. Mentre mia moglie si aggrappava al corrimano delle scale colpita dall’infarto io facevo il quadro intermedio del campo fiorito in 36 secondi.
Prima che chiudessero la bara ricordo di averle sfiorato la fronte per un ultimo bacio. Il profumo dei suoi capelli mi entrò dentro e non mi ha più lasciato. Quel momento, anche se terribile, diventò così qualcosa di tenero, a cui posso aggrapparmi ancora. In quell’istante capii cos’era e cosa sarebbe rimasta, per me, mia moglie: il profumo del mio ricordo più bello.
Ma non piansi. Neppure al funerale. Giorni dopo mi venne in mente lei che mi faceva la mela grattugiata. Perché a me piaceva, come a un bambino, e lei me la faceva perché mi piaceva, anche se non sono più un bambino da un pezzo. Allora piansi, capisce? Per il ricordo di lei che grattugia una mela, aggiunge due cucchiaini di zucchero e poi me la passa con un sorriso. E per il pensiero che nessuno avrebbe mai potuto capire quel che io non saprò mai spiegare. Sarebbe come trovare l’algoritmo dell’amore, il bosone di Higgs dei sentimenti…
Piansi per il ricordo di mia moglie che grattugia una mela, per il senso di colpa di aver fatto 36 secondi in un gioco mentre moriva. Non ho più mangiato una mela grattugiata o giocato a “campo fiorito”. Non tutte le espiazioni sono proporzionali alle colpe a cui si riferiscono. Al massimo si rapportano al nostro personale senso di colpa, che è un’altra cosa…

Piansi anche con quella ragazza fra le mani. Ma non per il dolore. E nemmeno, solo, per la rabbia. Piansi e basta, non so perché.

Cos’ho provato, cosa provo? Un dolore continuo e pungente, come un dente guasto. Non lo posso spiegare meglio. Voi analisti ignorate, della natura umana, il lato più importante: il saper sfuggire a ogni tentativo di incasellamento. Ma lo sa che per alcuni filosofi il presente non esiste? Perché, se ci pensa, l’istante in cui faccio un’affermazione – il mio presente – nel momento in cui lei l’afferra e la fa sua diventa il suo presente – e il mio passato. E già questo complica tutto: lei mi chiede di qualcosa che per me è stato reale, ma ora, in una certa misura, è irreale

Capisce, è tutto un fraintendimento. Un misunderstanding direbbero gli inglesi. Io non amo usare termini stranieri per esprimere concetti definibili benissimo in italiano. Ma se ci fa caso quella è una parola bellissima, con i suoi riccioli fonetici, con quelle lettere che sembrano formare montagne russe con le sillabe. E’ come il prisencolinencinanciusol di Celentano, un termine “che dà l’idea”.

Le basta per capire le mie oscillazioni emotive?

lunedì 7 gennaio 2013

Caro Ingroia, la verità è rivoluzionaria

Caro Ingroia,

l'attesa e la speranza che sta suscitando il suo progetto politico ci spinge a prendere parola e a scriverle questa lettera pubblica. Crediamo, infatti, che una vera "rivoluzione civile" non può prescindere dalle istanze e dalle proposte nate dalla società civile e dai movimenti degli ultimi dieci anni. E ci rivolgiamo a lei proprio nella sua veste di candidato alla presidenza del consiglio alle prossime elezioni.

Non le nascondiamo che negli ultimi giorni, accanto a simpatia e speranza per il nuovo soggetto politico, ha trovato posto la delusione, per l'assenza di molte questioni dai punti prioritari fin qui affrontati da "Rivoluzione Civile". Assenza che si può spiegare solo parzialmente con la velocità impressa agli eventi, dalla crisi di governo in poi, e la conseguente e forzata fretta di queste ore.

Noi speravamo che il nuovo soggetto politico della sinistra, grazie alla sua novità ed autonomia, potesse permettersi uno slancio diverso e maggiore coraggio.

Lo speriamo ancora, e per questo siamo ancora a chiedere, come faremo anche con i candidati premier del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle:

- il varo di una legge che preveda il reato di tortura (come fattispecie giuridica imprescrittibile quando commessa da pubblici ufficiali);

- l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti avvenuti nel 2001, durante il vertice G8 di Genova e, precedentemente, il Global Forum di Napoli;

- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;

- l'istituzione di un organismo "terzo" che vigili sull'operato dei corpi di polizia;

- l'impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS;

- la revisione del Codice Rocco e dei reati, come l'introduzione dei siti militarizzati di interesse nazionale, costruiti per criminalizzare il conflitto sociale e le lotte per la ripubblicizzazione dei beni comuni. Nel Paese ci sono quasi ventimila fascicoli su reati come resistenza e oltraggio oppure devastazione e saccheggio applicabili con una insopportabile discrezionalità per infliggere pene sproporzionate agli attivisti politici;

- la revisione dei metodi di reclutamento e di addestramento per chi operi in ordine pubblico e la revisione delle funzioni di ordine pubblico per Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale dello Stato, l'Italia è un'anomalia unica al mondo con cinque organi nazionali di Polizia con compiti di ordine pubblico;

- la revisione delle leggi proibizioniste che hanno riempito le carceri di povera gente aumentando a dismisura il Pil delle narcomafie e dei trafficanti di esseri umani.

Tutti punti, questi, richiesti in questi anni da decine e decine di migliaia di persone che hanno aderito alle petizioni lanciate dai comitati di memoria, verità e giustizia e dalle madri delle vittime di "malapolizia". La legittimità di queste richieste, nel Paese, è stata spesso offuscata dal malcelato tentativo di derubricarle a questioni di ordine pubblico, producendo lesioni gravi nelle garanzie costituzionali e nello stato di diritto nel nostro paese, come molti esiti dei processi hanno dimostrato da Genova in poi. E per questo crediamo che il prossimo Parlamento abbia l'obbligo morale prima che politico di approvare una serie di riforme ed iniziative di legge non più prorogabili per un paese che vuole definirsi civile.

I numerosi riferimenti alla "questione Genova" non sono da intendersi come la semplice volontà, da parte nostra, di restare ancorati al passato, né di inquadrare quei fatti solo nella loro dimensione "da ordine pubblico". Non possiamo ritenere che la storia di Genova sia stata scritta solo nelle aule di tribunale.

Questa parola di chiarezza non la chiediamo solo oggi, né ci basterebbe venisse espressa col solo intento di recuperare una parte di potenziale elettorato, ormai disorientato e disilluso. La chiediamo come inequivocabile scelta di campo, culturale e civile prima che politico-elettorale: questo, sì, sarebbe davvero rivoluzionario.

Cordiali saluti

Francesco "baro" Barilli e Marco Trotta (reti-invisibili.net)

Patrizia Moretti e Lucia Uva (Associazione Federico Aldrovandi)

Lorenzo Guadagnucci ed Enrica Bartesaghi (Comitato Verità e Giustizia per Genova)

Haidi Gaggio Giuliani (Comitato Piazza Carlo Giuliani - Onlus)

Italo Di Sabato e Checchino Antonini (Osservatorio sulla Repressione)

domenica 6 gennaio 2013

Monti e la “post democrazia”

Molti compagni hanno detto che, in sostanza, fra Monti e Berlusconi non ci sono differenze. A mio avviso il montismo è peggiore, o almeno più pericoloso, del berlusconismo, e comunque è in parte diverso.
Prima di parlare di politica parlerò della “persona di nome Mario Monti”. Non sorprendano certi apprezzamenti: fanno anch’essi parte della valutazione complessiva che arriverà alla fine…

A me sembra un buon uomo, onesto (nel senso: rigoroso coi propri principi, ma incapace di vederne altri), colto (limitatamente ai settori in cui vanta competenza), paziente nell’ascoltare ma incapace di valutare un punto di vista che esca dai propri schemi, altezzoso ma non arrogante. Non so fino a che punto sia conscio del suo ruolo di “amministratore per conto terzi” o “curatore fallimentare” dell’attuale fase politica, che voglio battezzare post-democrazia. Vi dirò persino che, a mio avviso, non credo abbia davvero “deciso” di “candidarsi”, seppure nella strana forma che ha scelto – essendo già senatore a vita – alle prossime elezioni. Credo che un coagulo di forze (in parte palesi in parte occulte; in parte nazionali in parte sovranazionali) gliel’abbiano chiesto, ricordandogli che il suo compito di “curatore fallimentare” della post-democrazia non era ancora concluso e forse facendo leva su un certo narcisismo di fondo del professore, meno sguaiato ma per certi versi accostabile a quello del predecessore: entrambi sono convinti di essere “l’uomo che ci vuole” (Monti credo in buona fede, a differenza del cavaliere di Arcore).
E’ comunque pacifico che sul piano umano Monti sia altra cosa rispetto a Berlusconi (non che ci volesse molto…) se non altro per quella sobrietà adottata, più che come esigenza d’immagine o questione di stile, come consapevole e personale scelta di vita. Questa considerazione NON c’entra nulla con la fuffa sulla “serietà e credibilità internazionale” che i media e in generale l’apparato borghese/industriale/clericale va sbandierando da un anno a questa parte: sto parlando di un “modello antropologico” che Monti incarna, distante da quello del ventennio berlusconiano. Ma proprio questa patina di serietà e competenza rende forse il montismo più pericoloso…

Veniamo dunque al lato politico della questione. Confesso di non aver letto “l’agenda”, se non per qualche resoconto giornalistico. Ho seguito le sue dichiarazioni, cercando alcune spie linguistiche o comportamentali.
Del premier dimissionario mi preoccupa, ancor più di quanto dice, quanto tace; e le motivazioni per cui tace: specchio di una forma mentis assai chiara. E’ agghiacciante come qualsiasi tema sociale, fra quelli a me cari, sia assente dalle parole di Monti. Non gliene faccio una colpa: sarebbe come chiedergli un parere sul campionato di calcio in Giappone: credo rispetti chi ne è appassionato (probabilmente ritenendolo un simpatico eccentrico) ma non conosce l’argomento e non ne vede l’importanza.
Il tema dei diritti dell’individuo, in qualsiasi forma o campo possa essere declinato, gli è del tutto estraneo. Mi ha colpito, ma è solo un esempio, l’accenno alla necessità di valorizzare il ruolo della donna (anche) nel campo del lavoro, subito specificato dalla ragionieristica considerazione sul PIL che aumenterebbe se una percentuale maggiore di donne avesse un’occupazione.
Anche il suo leit motiv elettorale (conservatori contrapposti a progressisti, arruolando CGIL e Vendola nella prima categoria e se stesso nella seconda) è sintomatico. Innanzitutto di una continuità “stilistica” nel vendere il “nuovo” come soluzione taumaturgica ai mali del “vecchio” (alla faccia dell’innovazione, anche solo semantica o di metodo, rispetto all’uomo di Arcore). E in secondo luogo – ma forse è più importante – nel proporre il superamento delle “vecchie ideologie” senza dire che, con esse, si vuole buttare nella pattumiera gli ideali.
Monti sembra voler archiviare non tanto e non solo il ‘900 delle ideologie contrapposte, ma pure quello in cui un moderato/liberal come Robert Kennedy spendeva parole di fuoco contro il PIL (come parametro che “misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”). Preciso: nessuna rilettura, nelle mie parole, della figura di Kennedy (non ne ho la competenza e, al momento, sarebbe dispersivo); semplicemente la faccenda è paradigmatica di come “l’innovazione” montiana sia tesa solo alla conservazione di rapporti di forza sociali ormai consolidati. Quella di Monti è una modernità tecnica/tecnocratica fatta di marketing; intelligente e non becero come quello del suo predecessore a palazzo Chigi, ma sempre marketing è.

Secondo la mia cultura la partecipazione, diretta o per delega, era la base delle scelte politiche e del vivere comune. Oggi invece l’Italia è inserita in un sistema odioso e oscuro: farne parte è doloroso, uscirne sembra impossibile. Intendiamoci: tutti noi c’illudiamo di essere padroni del nostro destino, singolo o collettivo, almeno nel perimetro circoscritto delle possibilità. Quel perimetro è andato via via riducendosi, senza che noi all’interno ne avessimo percezione. Del resto anche per un pesce rosso il proprio acquario è l’universo noto, e questo non cambia quando lo si mette in una vaschetta ancora più piccola. Fuori, in ogni caso, più che la libertà c’è la morte.
La vaschetta dei pesci rossi Monti la vede come il nostro habitat naturale, e forse i suoi sforzi li vede sinceramente tesi a renderla più confortevole. Sicuramente non la vede come una prigione.
La sua visione di “moderatezza” è il convincimento che non si devono sognare alternative. Non è una novità: la strategia più efficace, per il potere, non è tanto quella di vendere una proposta di mondo come fosse la migliore, ma evidenziare che non esistono alternative (“there is no alternative”, diceva la Tatcher, era un suo motto).
Un mondo omologato e unanime è il sogno di Monti. I suoi recenti strali contro Fassina e Vendola (che, sia chiaro, non sono a me idealmente vicini) sono sintomatici: chiunque veda ancora la questione sociale come elemento centrale della politica è pericoloso per la sua weltanschaung (non m’interessa definirla conservatrice o progressista; sicuramente molto “minimalista”).

Ora che ci penso, tra le spie linguistiche di Monti c’è che non gli ho mai sentito pronunciare, se non occasionalmente e con poco interesse, la parola democrazia. Aristocraticamente ed istintivamente espunta dal suo lessico…

Francesco “baro” Barilli