lunedì 20 luglio 2015

20 luglio 2001: Quel sorriso che ci hanno strappato

La prima volta che sono stato in piazza Alimonda ho cercato il punto esatto. E, ti sembrerà strano, m’è venuta in mente la segatura sul suo sangue. Segatura mescolata a sangue e fiori. Mi hanno detto che per giorni il rosso continuava ad affiorare. Chissà se era vero, o solo un’impressione. Poi m’è venuta in mente quella massima degli antichi. Muore giovane chi è caro agli dei. M’è sempre sembrata un’idiozia: vedi cosa ci si riesce a inventare per difendersi dal dolore? Comunque, fosse vero, un motivo in più per confermare la mia scarsa considerazione per qualsiasi divinità.

Oggi mi chiedi di scrivere qualcosa su Carlo. Sono fra chi ne ha parlato in questi dieci anni e tu vuoi tornare a quel giorno, sapere cosa è rimasto, cosa è cambiato. È così che me ne accorgo: è vero, ho scritto parecchio su di lui. Su un ragazzo che non ho visto nascere o vivere ma ho visto morire mille volte. Ho incrociato documenti e articoli con foto, filmati, immagini. Tutto finisce sempre nello stesso istante e allo stesso modo. Un corpo steso a terra, ripreso da diverse angolazioni. Il Carlo vivo rimane ai margini, tutto sembra cristallizzato alle 17 e 27 di quel 20 luglio.

Anche dall’altra parte sono stati bravi a fermare l’istante. Il ragazzo già conosciuto alle forze dell’ordine. Il punk a bestia che viveva di elemosina. Uno che in fondo se l’è cercata e gli sta bene. Forse ci hanno sperato davvero. Che fosse un figlio di nessuno, come si diceva una volta. Per noi non sarebbe stato diverso o meno crudele. Ma quelle affermazioni sono false. Chi si lamenta oggi della macchina del fango sarebbe più credibile se avesse dimostrato uguale indignazione dieci anni fa. Perché, noi lo sappiamo, dietro quell’uomo una famiglia c’era.

Sì, definisco Carlo uomo. L’espressione «Carlo Giuliani, ragazzo» non mi ha mai convinto del tutto. Ne capisco il senso doloroso, sincero, suggestivamente valido e persino necessario, ma mi sembra sminuire la sua ultima scelta, derubricarla a pulsione incontrollata di un adolescente. Non fu così: se ci fu rabbia nel suo gesto non fu quella del ragazzo, ma dell’adulto che sceglie da che parte stare. «Di indignarsi di fronte alle ingiustizie», potrei dire parafrasando il Che. Preferisco citare proprio Carlo: «Agii consapevole di quello che accadeva». È il verso di una sua poesia scritta sei anni prima. Dice già tutto.

Ma, forse, sto sottilmente eludendo la richiesta. Tu vuoi da me qualcosa di diverso, un ricordo di quel 20 luglio. Chiudo gli occhi e vedo tre immagini.

Nella prima una giovane dottoressa è china sul corpo senza vita di Carlo. Capisce che non c’è più nulla da fare e abbassa il capo, impotente. E’ l’unico slancio di dolorosa umanità in quella scena, circondata dall’indifferenza delle forze dell’ordine.

La seconda è una foto scattata in via Tolemaide, circa mezz’ora prima dell’omicidio. L’aria è grigia per i lacrimogeni, la folla di manifestanti sembra accendersi e agitarsi, attraversata da mille scariche di un’energia sconosciuta. Tutto è in movimento, solo Carlo e un blindato sono immobili. Il mezzo è pesante, minaccioso. Retoricamente potrei dire: trasuda l’arroganza del potere.

Poi c’è il volto, stavolta sì di un ragazzo, gli occhi azzurri e luminosi. Proprio la sua famiglia me l’ha fatta scoprire. È un filmato del 1999. Carlo in una trattoria. Estrae una sigaretta dal pacchetto. Con un sorriso naturale, solare. Quello che gli hanno tolto, ci hanno tolto.

Ci hanno tolto anche altro, lo sappiamo entrambi: hanno ucciso le speranze di un’intera generazione, l’hanno espropriata della sua proposta politica, della sua carica di innovazione e speranza. I cinquanta tu li hai già visti, io sto per arrivarci. Mi dispiace per quei giovani, non per noi

Non sono stati solo quelli “dall’altra parte” i colpevoli. Fa male ammetterlo ma è così. In questi anni ho sentito spesso parlare di «spirito di Genova». Come fosse un mantra liberatorio, un’immaginetta da evocare mentre ci si reca in pellegrinaggio in un luogo sacro per chiedere una grazia. A volte ho sentito l’invocazione proprio da chi quello spirito sembrava aver smarrito, se non tradito. Sono stati commessi errori, da parte di chi avrebbe dovuto difendere e rinnovare la magica alchimia del «movimento dei movimenti». In buona e mala fede. Personalismi, compromessi politici, vere e proprie miserie umane. Feroci contrapposizioni fra le tante anime di quella stagione.

Ma non è questo che vuoi sentire, né quel che ho voglia di raccontare. Mi hai chiesto qualcosa e questo posso darti.
Sangue fiori e segatura.
Una ragazza china su un corpo senza vita.
Un giovane uomo che fronteggia un blindato mentre tutto attorno è in movimento.
Sopra tutto, il sorriso di un ragazzo.




NOTA: racconto pubblicato su “Per sempre ragazzo. Racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani” (a cura di Paola Staccioli. Tropea Editore, 2011)

venerdì 3 luglio 2015

Dalla parte di chi tortura?!

Il dibattito sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale si è “arricchito” di nuove voci (alcuni sindacati di polizia, Matteo Salvini, Bruno Vespa e in generale Il resto del Carlino) tutte contrarie al nuovo progetto di legge. Un progetto che pure, va ricordato, ha già avuto altri pareri, sempre critici ma originati da un punto di vista assai diverso. Infatti, il disegno di legge fin qui formulato porterebbe all’inserimento del reato come “fattispecie generica”, ossia eludendo lo spirito della normativa internazionale in materia, che vorrebbe invece individuarlo come specifico abuso commesso da funzionari dello Stato.

Ma soffermiamoci sui commenti recenti. Sembrano tutti accomunati dall’intenzione di liquidare gli abusi delle forze dell’ordine come casi isolati di “estremismo in divisa”, partendo innanzitutto da Genova e dimenticando il prima quanto il dopo. E il punto non è stabilire se gli abusi siano sporadici o frequenti, quanto lo stabilire se a quegli abusi si sia reagito (in termini penali, amministrativi, politici) con adeguata fermezza.

Partiamo pure dal G8 di Genova: la Diaz e Bolzaneto potevano essere persino una buona occasione per un percorso autocritico delle forze di polizia, per un’inversione di tendenza. Al contrario, Genova ha testimoniato l’accentuarsi delle chiusure corporative. Le forze dell’ordine hanno addirittura ingaggiato un braccio di ferro con la magistratura; le sentenze (parlo di quelle italiane) su Diaz e Bolzaneto sono arrivate nonostante molti ostacoli posti lungo il corso della giustizia, sul piano pratico come su quello simbolico e politico.
Sui primi ostacoli ricordo che l’atteggiamento autoassolutorio e di scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine è stato stigmatizzato dalla magistratura italiana in tutti i gradi di giudizio (critiche poi riprese dalla Corte Europea nella recente sentenza “Cestaro-Diaz”). Sui secondi ostacoli, basti rammentare le promozioni degli imputati e la loro conferma anche dopo le sentenze di condanna di secondo grado. La permanenza in servizio dei responsabili è avvenuta con l’ormai stantia motivazione che è compito della magistratura accertare i reati: quasi non fosse compito diretto dei corpi di polizia punire amministrativamente chi sbaglia e fare opera di prevenzione. Inutile aggiungere che la politica ci ha messo del suo per supportare queste azioni: gli abusi di oggi, da Genova in poi, sono figli di un’involuzione delle forze dell’ordine, a sua volta figlia di un percorso culturale che ha sancito il declassamento dei diritti nelle priorità dei cittadini e della politica.

Tutto questo per rispondere a chi, come Bruno Vespa, sostiene che “il nostro codice è già perfettamente attrezzato per punire reati di questo genere, compresa la ‘macelleria’ della Diaz a Genova. E se i colpevoli alla fine non sono stati puniti adeguatamente è perché i processi sono stati gestiti troppo lentamente” (su Il Resto Del Carlino 27 giugno 2015: “Dalla parte dei poliziotti”).
Quella della lentezza della magistratura italiana vista come sola causa del deludente esito del processo Diaz (a livello di scarsa entità ed efficacia delle condanne comminate) sembra essere un “pallino” del Resto del Carlino. Da “La legittima difesa delle divise” di Ugo Ruffolo (25 giugno): “per la macelleria messicana alla scuola Diaz le attuali norme in materia di lesioni, violenze, abusi … bastavano a buttar via la chiave. Non il nomen iuris dei reati contestati, ma il gioco delle prescrizioni e dei giudizi sulle prove (dunque, l’eccesso di garantismo e di durata dei processi) ha assicurato pene blande o nulle …”.
Insomma: il nostro impalcato giuridico, secondo questi commenti, sarebbe già sufficiente a punire i reati, se non fosse per la lentezza della magistratura. Una lentezza che, come abbiamo visto, è stata semmai causata proprio dall’atteggiamento ostruzionistico delle forze dell’ordine nei procedimenti genovesi (una difesa corporativa che nulla ha a che vedere con l’esigenza del Paese di avere giustizia su quel che accadde a Genova nel luglio 2001), e dall’assenza della politica, che ha “coccolato” gli imputati e – sovente – trattato i magistrati inquirenti come “nemici dello Stato”.

Sempre Vespa poi aggiunge: “se si ritiene tuttavia doveroso intervenire perché ce lo chiede la Corte europea…”. Quasi che la questione la si possa confinare a una sorta del “ce lo chiede l’Europa” in versione – per una volta – di diritti e civiltà… E’ dunque opportuno ricordare che già da anni si parla del rifiuto da parte del governo di aderire ad alcune raccomandazioni del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra cui l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Ma su questo tema l’Italia “fa spallucce” da più di vent’anni: la convenzione delle Nazioni Unite fu firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. L’ignavia del mondo politico è trasversale e tutt’altro che recente.

Il Resto del Carlino sembra particolarmente sensibile alle ragioni dei poliziotti. In un articolo del 25 giugno ("Le mani legate con i criminali", di Bruno Ruggiero) viene ricordata questa affermazione: “sono rimasto indignato – commentò nei mesi scorsi il magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Anticorruzione, e ora il Sap riporta le sue parole –. I fatti della Diaz sono vergognosi, ma le indagini hanno consentito di individuare le responsabilità, anche dei vertici, senza bisogno del reato di tortura”. 

Con un gioco di parole persino banale si potrebbe dire che Cantone ha preso una cantonata…
In primo luogo è da ricordargli che “il gioco delle prescrizioni” (per citare ancora Il Resto del Carlino) sarebbe stato molto meno efficace se quel reato fosse stato previsto. In secondo luogo, le responsabilità non sono state tutte accertate (alla Diaz come a Bolzaneto, a Genova in generale come in molti altri casi) per il mancato riconoscimento di chi commise fisicamente gli abusi.
(la questione può essere laterale, rispetto al tema principale di questo articolo e per questo la metto fra parentesi: è da ricordare che in Italia, oltre al reato di tortura, mancano regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine; altro argomento su cui i sindacati di polizia e le principali forze politiche fanno orecchie da mercante).
In terzo luogo, ribadisco che senza attendere Strasburgo già i giudici italiani (specie per Bolzaneto, ma pure per i fatti di Napoli di marzo 2001 – caserma Raniero) hanno rimarcato la mancanza del reato di tortura come causa della ridefinizione “al ribasso” delle contestazioni agli imputati.

Ometto qui di commentare alcune altre dichiarazioni. Quelle di Salvini ("Le forze di polizia devono avere libertà di azione assoluta, se poi un delinquente lo devo prendere per il collo e si sbuccia il ginocchio... cazzi suoi") perché non sono degne di attenzione. Un’altra di Bruno Vespa (“Da qualche anno le forze di polizia impiegate nel contrasto di violenze a sfondo politico … appaiono fortemente intimidite. Prefetti e questori preferirebbero cavarsi un dente piuttosto che autorizzare una carica”) perché talmente ridicola da ricevere al massimo un sorriso sarcastico.

Concludo ricordando che, dopo la sentenza europea sulla Diaz, originata dal ricorso di Arnaldo Cestaro, una delle vittime della “macelleria messicana”, siamo in attesa di nuovi pronunciamenti di Strasburgo su altri ricorsi. Alcuni vertono non sulla Diaz ma su Bolzaneto, e per questo saranno probabilmente ancora più interessanti, dal punto di vista della necessità di inserimento del reato di tortura nel nostro codice. Mi limito a ricordare, su Bolzaneto, un estratto dalla condanna in primo grado all’ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma: “… con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o comunque tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …”.
Ma, in fondo, la tortura può essere efficacemente sintetizzata con questa frase di Leonardo Sciascia, terribilmente attuale e che ho già ricordato in altre occasioni: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.

Francesco “baro” Barilli