lunedì 16 febbraio 2009

Su Sofri, vittime, memoria e collaboratori di giustizia

Ho seguito la polemica nata fra Adriano Sofri e alcuni parenti di vittime del terrorismo, apparsa su Repubblica fra il 5 e il 12 febbraio. Mi sento coinvolto e provo ad entrare, sommessamente e con rispetto, nella discussione.
Una premessa: conosco direttamente due dei quattro firmatari della lettera del 12 febbraio (Milani e Dendena). Ho raccolto in altre occasioni i loro racconti sulle stragi che ne hanno segnato le vite, ci uniscono amicizia e stima sincere e reciproche. Sofri lo conosco indirettamente: con lui ho in comune la passione civile per il caso Pinelli, che recentemente è stato centrale in nostri diversi e distinti lavori. Con questa premessa non voglio accreditarmi come paciere nella discussione (cadrei nel ridicolo) né vantare chissà quale autorevolezza in una materia complessa e delicata. Più semplicemente, intendo presentarmi come un osservatore esterno, che forse proprio per questo può avere il necessario distacco, ma pure come persona che nutre profondo rispetto per tutte le persone coinvolte nella discussione, al di là delle diverse posizioni.
La mia analisi comincia da un fatto apparentemente marginale, ma su cui tutti gli interessati sono intervenuti, ossia l’interpretazione del finale del Pescatore di De Andrè. La lettura corretta della canzone è proprio quella proposta da Sofri, ossia una condanna – su cui, beninteso, si può non concordare – della delazione. Se questa può apparire vaga e sfumata nel Pescatore, assume maggiore nettezza in un’altra canzone del cantautore genovese. Nel Testamento di Tito De Andrè riscrive criticamente i dieci comandamenti biblici, ivi compreso quello che invita a non fornire falsa testimonianza. Tito, sulla croce, ricorda le proprie menzogne (“Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore”) opponendole con orgoglio al precetto (“Non dire falsa testimonianza e aiutali a uccidere un uomo”).
Chiaramente si tratta della suggestione di un artista, da sola insufficiente a chiudere la questione (si farebbe un torto allo stesso De Andrè), e andrebbe fatta ben altra disamina sulla differenza fra delazione e assunzione piena delle proprie responsabilità, con conseguenti chiamate di correità. Bene hanno fatto Milani, Dendena e gli altri a ricordare che senza il contributo dei collaboratori di giustizia non si sarebbe arrivati a certi risultati su Piazza Fontana (per quanto incompleti, ma questa è un’altra faccenda) né, aggiungo io, ad istruire il processo attualmente in corso per Piazza della Loggia. E’ però altrettanto opportuno ricordare che non è casuale se certe collaborazioni sono emerse a tanti anni dai fatti, iscrivendosi in un panorama complessivo di indagini su cui gravano omissioni, reticenze e depistaggi non occasionali ma fortemente voluti da apparati dello Stato. Per Piazza Fontana i “pentiti” hanno confermato che la pista che già i magistrati Stiz e Calogero stavano seguendo, senza poterla percorrere fino in fondo, era quella giusta. Ma è pure vero che i collaboratori di giustizia non sempre si sono dimostrati limpidi nelle proprie dichiarazioni, come proprio il caso Sofri può dolorosamente dimostrare, quasi specularmente rispetto agli altri casi citati.
Infine, sul caso Pinelli ritengo che il dissertare se vada o meno inserito fra le vittime del terrorismo sia utile solo se non ci si ferma ad elementi che potremmo definire “semantica del diritto”. E’ pacifico che, seguendo rigidi schematismi, la morte del ferroviere anarchico non può essere annoverata nell’elenco. Più utile sarebbe però discutere del caso Pinelli iscrivendolo nel disegno (da tempo ormai accertato e che procedette per lungo tempo dopo la sua morte) che voleva indirizzare le indagini su Piazza Fontana verso la pista anarchica. Molte cose a quel punto potrebbero essere più chiare. E il nome di Pinelli, se non nell’elenco delle vittime del terrorismo, potrebbe essere annoverato in quello delle molte vittime collaterali di quella stagione. Un elenco che esiste, ed è non solo lungo e doloroso, ma rappresenta pure un altro ostacolo che impedisce una vera chiusura di quegli anni e la costruzione di una memoria condivisa, vanificando ancora oggi quella che potremmo chiamare una “soluzione sudafricana”.

Francesco “baro” Barilli