mercoledì 24 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – quarta e ultima parte

    Ancora oggi benpensanti e moralisti continuano a squadrarmi in modo sinistro, quando non mi minacciano con lo spettro di maledizioni divine che francamente non mi danno alcuna emozione. Stupidi! Non si rendono conto che nessuna punizione può essere superiore a quella che già subisco in questa vita. La fratellanza con la morte è un legame che pesa, lega, segna... Nessun ripensamento può reciderlo, ed induce a confrontarsi costantemente col vuoto delle conoscenze umane sulla vita, disilludendo alla fine chi pensa che proprio quel legame consenta di risolverne il mistero.
    - E’ un problema di coscienza -, dicono.
    - L’uomo non si può sostituire a Dio -.
    Buffa cosa, la coscienza, buffa travestita da seria; basta poco per farla tacere. E buffa cosa è Dio, ciclicamente tirato fuori dai cassetti impolverati della memoria. Oggi si torna a parlarne ed io sono contento di questo: nonostante sia oggetto di anatemi fatti in suo nome le mie uniche, timide speranze per questa società le ripongo nel ritorno di una dimensione spirituale, non certo nel fumoso e spocchioso filosofeggiare degli uomini.
    I moralisti ed i progressisti in realtà sono solo presuntuosi e molto miopi. Si chiedono se sia legittimo che un uomo possa decidere della vita di un altro, ma sbattere lo stesso individuo in galera per vent’anni lo trovano normale, più che normale!, l’esercizio di un diritto pienamente naturale. L’autorità di stabilire per quanto tempo sottrarre ad un uomo affetti familiari, libertà e felicità sembra non aver bisogno di alcun benestare divino.
    Evidentemente per loro la sacralità della vita si limita a ciò che non sappiamo spiegare, che pure è prerogativa comune anche agli altri animali: il cuore che pulsa, il sangue che circola, i polmoni che pompano aria. Il resto no, il resto non è sacro. Quello che non possiamo rappresentare, far sentire o definire sinteticamente,... il nostro “essere uomini” insomma, non è sacro. Possiamo imporre solitudine e comminare infelicità, ma dare la morte compete a Dio.
    E’ mio parere che di questi pensatori si possa fare a meno, ma vedo che loro credono davvero in quel che predicano, e si ritengono uomini saggi, filosofi, innovatori del comune pensiero. Lo dico con tutta franchezza, senza il benchè minimo spirito polemico: un buon idraulico è più utile alla collettività di tutti questi pensatori. Le loro occhiatacce mi lasciano del tutto indifferente, non ho certo paura: sono arrivato ormai così vicino al Mistero da toccarlo, e non mi preoccupano certo dei buffi anatemi.

    Più delle maledizioni divine temo il rimorso. Quello salta fuori quando meno te l’aspetti e senza apparenti motivi, ma fino ad oggi quando guardo le mie mani vedo mani colpevoli, ma che non hanno mai tremato.

Fine

lunedì 15 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – terza parte

    Alla centesima esecuzione si pensò addirittura di dovermi premiare. Ricordo che la cerimonia era fissata per il primo maggio, festa del lavoro, proprio in piazza, sul palco delle esecuzioni. Una settimana prima scrissi al Podestà che rifiutavo qualsiasi riconoscimento per quello che consideravo solo il mio dovere. Era l’unico metodo per evitare quella buffonata senza dargli pubblicamente del pagliaccio. Per fortuna la consuetudine delle esecuzioni almeno qualcosa di buono l’ha raggiunto: altre ricorrenze di questo tipo, vuoi cronologiche vuoi numeriche, sono passate inosservate. Probabilmente mi avrebbero dato qualche bella targa d’argento, forse d’oro, ma quei riconoscimenti avrebbero avuto il solo effetto di aprire ancora maggiormente la ferita dentro di me.
    Credo sia capitato a tutti di avere delle frasi che, a volte, vagano nei pensieri inquiete, in apparenza immotivate, come a voler cercare una precisa collocazione e con essa una ragione di esistere. Spesso si tratta solo di qualche strano meccanismo della memoria, privo di senso; a volte è il modo che la nostra coscienza usa per farsi sentire. In quei giorni nella mia mente vagava una frase dantesca: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”... Forse solo oggi capisco che era qualcosa di più di una reminiscenza scolastica, nostalgia di un tempo in cui ero ancora innocente: se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare.
    Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita. Anche chi disponeva della libertà, del denaro o, in qualche modo subdolo, della felicità altrui, era ugualmente colpevole, e fu in quei giorni che in me maturarono definitivamente l’odio verso le istituzioni ed il disprezzo per la mia codardia, per il mio colpevole silenzio, per l’accettazione supina del ruolo assegnatomi.

    Ma si raccontano tante frottole su come e perchè cessai la mia attività di boia. Forse non interesserà a nessuno cosa accadde quel giorno, ma io vorrei provare la soddisfazione di sapere che almeno qualcuno sa come sono andate davvero le cose. Non temo la morte, ma sicuramente temo che il modo in cui maturò la mia estrema ribellione finisca nell’oblio.
    Sfatiamo innanzitutto la leggenda secondo cui quel giorno strani cenni premonitori avrebbero spiegato ai più quel che stava per accadere. Tutte sciocchezze: non c’era niente di diverso. Dubitate, quindi, di chi vi racconterà che “quel giorno c’era qualcosa di strano nell’aria”, o dice d’aver colto qualche lampo strano nel mio sguardo; anche se, è vero, gravava sul palco e sulla folla la cappa di piombo di un cielo minaccioso. Temendo la pioggia, avevo cosparso i miei guanti ed il manico dell’accetta di un’abbondante razione della consueta pasta, affinchè l’ascia non potesse scivolarmi. Mi ero presentato sul palco un quarto d’ora prima dell’orario stabilito, come al solito.
    Poi arrivò il condannato. Un ragazzo di neanche vent’anni, come la mia prima vittima. La mia vita andava a fondersi in un ciclo ossessivo di orrore e di morte, dove io ormai non ero più il protagonista, ma solo uno spettatore privilegiato. Mentre la banda del paese suonava, colsi lo sguardo intelligente e vivace del condannato poco prima che le guardie provvedessero a bendarlo, mentre salutava la folla come se niente fosse, per niente spaventato, una folla che si accendeva e si agitava, attraversata da mille scariche di un’energia sconosciuta.
    Particolari soliti e per certi versi insignificanti cominciarono ad infastidirmi, mentre generalmente a questo punto afferravo saldamente l’accetta, cercando di non pensare a nulla, di concentrarmi. Ma quella volta non mi riusciva. Il rumore della banda mi infastidiva. Il vociare della folla mi sembrava intollerabile.
    Poi, in lontananza, ecco i primi tafferugli tra le forze dell’ordine ed i manifestanti contro la pena di morte. Guardai la folla: chi derideva il condannato, chi lo incoraggiava, chi lo malediceva... E a me parevano tutti uguali, una gigantesca marmellata di persone che ribolliva delle proprie contraddizioni.
    Decisi che quello era il momento giusto. A dire il vero non so se decidere sia il verbo più indicato, presupponendo un processo intellettivo cosciente: avevo meditato il mio “tradimento” da tempo, ma non avevo mai valutato nè come nè quando.
    Appoggiata l’ascia di traverso a lato del ceppo, la spezzai sicuro con un calcio; quindi sfilai i guanti, gettandoli con noncuranza sul palco; poi scesi le scale fra due ali di folla che si ritraeva stupita al mio passaggio, nemmeno fossi Mosè davanti al Mar Rosso.
    Dovettero rinviare solo di pochi giorni quell’esecuzione: l’Assemblea Generale non faticò molto a trovare un volontario che mi sostituisse, alle stesse condizioni economiche. Il Podestà telefonò inviperito per dirmi che me l’avrebbe fatta pagare cara.
    - Considerati già condannato -, berciò. - Brucerai all’inferno assieme alle tue vittime -.
    Gli risi in faccia: tutte cose che conoscevo già. Così come sapevo che la mia condanna o la mia ultima destinazione non erano certo dovute a determinazioni umane: Qualcuno doveva aver già disposto in tale senso. Ma trovai piuttosto sterile dare inizio ad una schermaglia filosofica.
    La mia decisione di smettere, vista da un esterno, probabilmente deve sembrare l’affare peggiore di tutta la mia vita: presso quelli che mi detestavano non acquistai alcun credito, mentre quelli che vedevano in me un eroe mi bollarono presto come codardo e traditore. Ma continuo a ritenere che quel giorno presi la decisione migliore: è vero che non acquistai altra stima che la mia, ma non m’aspettavo nemmeno quella.

Fine terza parte

martedì 9 gennaio 2007

Compagni, così non va…

Questa riflessione non pensavo neppure di pubblicarla. Specie per come è nata: una serie di tasselli che vanno a comporre un mosaico, il cui disegno va via via definendosi… Oppure (meglio…) come un domino, dove la caduta del primo tassello porta ad una cascata di conseguenze inarrestabili.
Grazie a proficue chiacchierate con amici e alla partecipazione al blog di Emo, quel mosaico è andato arricchendosi (o, se preferite, il disegno delle tessere del domino si sta facendo più chiaro): forse è il caso di dare a quella riflessione una veste un po’ più completa.

Innanzitutto, un po’ di ordine, con i fatti degli ultimi giorni:
- un mediattivista mi scrive parlandomi della chiusura o agonia di due siti di informazione alternativa;
- uno scrittore (a me molto caro - umanamente, intendo) al telefono mi dice che tra gli iscritti a Rifondazione dalle sue parti la disillusione è sempre più palpabile (e si riflette in un calo di iscritti... ma non è quello il problema...);
- mi comunicano problemi interni ad un'associazione che gravita attorno a reti-invisibili;
- un giornalista mi dice che i giornali di sinistra navigano in cattive acque (non è una novità) e che pure sul piano dell’informazione alternativa non ce la si passa molto meglio;
- mi comunicano quest’altra bella notizia.

Sono stato generico, lo so, ma spero comprenderete la mia volontà di rispettare la discrezione di coloro che mi hanno reso partecipe delle loro confidenze. E, soprattutto, spero capiate che il problema NON sta in “chi” mi ha detto “cosa”, né nella somma degli episodi che vagamente ho riportato qui sopra.
Il discorso è che c’è da essere pessimisti sullo stato di salute in generale del mondo che "gravita a sinistra" (sia per quanto concerne - per così dire - le istituzioni o i partiti, sia per quel che concerne l'informazione - classica o alternativa che sia, sia per quel che attiene le realtà “di movimento”). Questo per mille motivi, probabilmente più rilevanti di quello che vado a descrivervi io, che in sintesi consiste in una disaggregazione di quella “unità di intenti pur nella diversità”, un’unità che aveva caratterizzato il movimento tempo addietro, e che si era visto soprattutto nelle pur drammatiche giornate genovesi del luglio 2001.
Ripeto: molti analisti probabilmente non concorderebbero con me in questa valutazione. Altri rovescerebbero il rapporto causa-effetto. Ma a mio avviso, invece, questo problema sociale sta a monte (e non a valle) degli altri mille problemi.

Paul Eluard ha scritto:
Ci sono parole che fan vivere
E sono parole innocenti
La parola calore la parola fiducia
Giustizia amore e la parola libertà
La parola figlio e la parola gentilezza
Certi nomi di fiori certi nomi di frutti
La parola coraggio la parola scoprire
E la parola fratello e la parola compagno


I poeti hanno questa capacità di sintetizzare un concetto in poche parole che ti arrivano al cuore. Ma quelle parole non dovrebbero restare solo un’immagine affascinante da riscoprire quando ci sentiamo smarriti, ma indirizzare (se ci crediamo) il nostro vivere quotidiano.
Altri avevano sintetizzato quei versi in “Ci sono delle parole per cui vale la pena vivere: una di queste è compagno”. Anche in questa versione sintetica possiamo leggere innanzitutto un invito all’unità, al superare le differenze, al ricordarsi che la difesa di un certo patrimonio culturale e di valori in cui crediamo dovrebbe essere più importante della ricerca di “distinguo”, spesso dettati da personalismi, da ambizioni, da capziose ricerche identitarie.

Leggete “Una vita in prima linea” di Sergio Segio: scoprirete che anche nel 68 o nel 77, i movimenti nati in quegli anni vissero lo stesso problema essenziale: non saper resistere a spinte centrifughe. Non voglio con questo disegnare scenari foschi (tutti sappiamo che piega presero gli eventi dopo il fallimento del 68 e del 77, al di là della complicata matassa delle diverse esperienze individuali dipanatesi da quegli anni). Inoltre, la "caduta" dei movimenti del 68 e del 77 non dipese certo SOLO da quei fenomeni di disaggregazione (migliori approfondimenti potete trovarli sempre nel libro di Segio).
Non mi sono accorto ora che l'onda lunga di Genova si era fermata da un po', per carità. Ma non credevo stessimo già vivendo addirittura il riflusso. Anche perchè le fasi successive (se è vero che la storia si ripete) temo consistano nel solito strascico perverso che porta con sé ogni fallimento. La ricerca delle colpe, il rinnegare o dimenticare anche le cose positive fatte…

Credetemi: mai come in questo caso ho sperato di aver sbagliato totalmente la valutazione.

lunedì 8 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – seconda parte

    Il mio primo giustiziato lo ricordo bene: un ragazzo di vent’anni, parricida confesso. La sua storia era di quelle diventate purtroppo comuni: era un tossicodipendente, e non aveva nessuna voglia di liberarsi da quel vizio che ti succhia l’anima. I soldi per comprarsi la droga li aveva spillati per mesi e mesi al padre, che fino ad una settimana prima dell’omicidio non aveva saputo dirgli di no. Poi, un giorno, ecco il rifiuto; un gesto più disperato che deciso, privo di quella forza necessaria all’arte della vera dissuasione. I tentativi del ragazzo di ottenere le somme consuete continuarono, sempre più insistenti, arginati solo da quel rifiuto tentennante, nemmeno sostenuto da qualche accenno minaccioso alle Autorità o alle punizioni possibili e conseguenti. Per conto mio sarebbe stato cento volte meglio per entrambi se il padre avesse sbattuto fuori di casa il figlio, costringendolo ad entrare in una comunità di disintossicazione. Comunque il resto della storia la si può immaginare…
    Quando mi comunicarono che avrei dovuto eseguire la mia prima condanna restai attonito, ma una volta saputo di quel ragazzo mi sentii quasi sollevato. Per un gesto come il suo ero ben convinto ci volesse una punizione esemplare, anche prima della reintroduzione della pena di morte, e pensai che l’ascia poteva essere per me un po’ più leggera. Ma quando me lo portarono davanti piangente la mia sicurezza scomparve. Si dibatteva ed urlava come un bambino, e come un bambino aveva gli occhi talmente pieni di lacrime che parevano di gelatina. Non c’era più traccia di un assassino.
Con grande fatica riuscirono a legargli le mani dietro la schiena, così non riuscì nemmeno a pulirsi il naso che gli colava. Non ho mai potuto sapere se con quelle mani volesse semplicemente strapparmi l’ascia, o afferrare le mie per chiedere pietà. Preferirei credere che volesse tentare qualche gesto disperato, ammazzarmi magari; così potrei pensare di aver fatto bene, almeno per autodifesa, a mozzargli la testa d’un colpo. Ma è inutile mentirmi: voleva solo pietà, ed io non ero autorizzato a dargli altra pietà se non quella della mia destrezza. Era la mia prima volta da assassino, ma bastò per farmi capire che il buon Guillotin ed il Dottor Louis forse avevano sbagliato nelle loro valutazioni, perchè quella sensazione di qualcosa di sottile e di freddo che penetra nell’anima forse non la provò la mia vittima, ma io sicuramente sì.

    Dopo l’esecuzione domandai udienza al mio amico Podestà, chiedendogli di provvedere affinchè ai condannati fossero bendati gli occhi. Lui mi rispose: - Va bene, chi lo desidera avrà la benda, proprio come una volta -, ma quel che volevo era diverso. Come tutte le persone che non hanno nessuna intenzione di spiegare i propri motivi, mi limitai ad insistere pesantemente, dicendo che, se l’Assemblea Generale non avesse sancito l’obbligatorietà in ogni caso della benda, lui poteva anche cercarsi un altro per quel compito. Il mio amico restò sorpreso dalla mia foga, ma accettò.
    L’editto che sanciva quanto concordato fra me ed il Podestà fu motivato con le solite, retoriche ragioni di “umanità” verso il condannato. Nessuno seppe che la pietà di quel gesto era rivolta a me: non avrei più dovuto vedere gli occhi di un uomo che sa di dover morire. Non avrei più dovuto vedere rabbia, paura, ribellione; implorazioni silenziose e per questo ancora più laceranti.
    Mi ero reso conto che la morte era diventata qualcosa di diverso, per me. Se prima poteva essere solo un concetto che mi affascinava in modo quasi asettico, lasciando le mie emozioni intatte, ora che io ne ero diventato un dispensatore era diventata una parte di me, impalpabile, indefinibile ed inseparabile come la mia ombra. La sola parola morte, anche quando si abusava della sua religiosità riferendola ad un gatto o ad una pianta, aveva ora un sapore fraterno e sinistro al tempo stesso. Pronunciata da qualsiasi bocca aveva l’effetto di una freccia che, scoccata da quelle labbra, mi apriva una ferita nell’anima, ricordandomi che ora io ero diverso, che la mia diversità stava in quella ferita, e che quella ferita si chiamava consapevolezza.
    Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini.

Fine seconda parte

giovedì 4 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – prima parte

21 Marzo 2091
Ero ancora un bambino quando ebbi il mio primo contatto con la morte, e fino a quel giorno il suo pensiero non m’aveva mai sfiorato. Fu un contatto che non mi ferì direttamente, è vero, ma sufficiente a farmi aprire gli occhi su quella realtà per me ancora sconosciuta, nella mia puerile ingenuità.
            Ero in macchina con mio padre, che procedeva come sempre a bassa velocità, quando vidi due cani attraversarci la strada. Mio padre li evitò, ma mentre il cane più grosso riuscì ad arrivare al ciglio opposto, quello più piccolo, evidentemente meno esperto, non fu evitato dall’automobile che proveniva nell’altro senso di marcia. Lo vidi rotolare sotto le ruote, quindi lanciare un lungo guaito mentre arrancava verso il ciglio stradale con la sola forza delle zampe anteriori, trascinando quelle posteriori. Aveva la bocca aperta in un modo tremendo: il terrore gliela faceva spalancare oltre misura.
            Vidi quella povera bestia dal finestrino dell’auto, le zampe ancora frementi sull’erba, gli occhi sbarrati; ma il particolare che più mi colpì fu la bocca spalancata in quel guaito interminabile, testimone non solo del dolore, ma soprattutto della consapevole incombenza della morte che, fino a pochi istanti prima, sembrava tanto lontana.
            - Non guardare -, disse premuroso mio padre, ma io finsi solamente di obbedire. Pensai che non sarebbe cambiato niente. Il dolore e la paura sarebbero rimasti: ormai anch’io ne avevo preso coscienza.

            Molto peggiore fu il secondo contatto con la morte, questa volta diretto e lacerante. Mio padre morì dopo una lunga pena per un male incurabile. Lo assistetti nell’ultima notte; respirava a fatica, e anche lui all’arrivo della morte si presentava con gli occhi aperti, fissi e vuoti.
            Mi stupiva l’attaccamento del suo corpo alla vita. Ripeto, solo del corpo. L’anima se n’era già andata dov’era attesa, ma quel grumo di carne teso e freddo, gli occhi sbarrati, non voleva raggiungerla. Era sbalorditivo vedere tutta quella disperata forza istintiva in quel povero corpo già abbandonato dalla scintilla cosciente della vita.
            Tremo ancora oggi se penso a quell’ultimo respiro, quando mio padre strinse i pugni e, completamente irrigidito, levò il capo dal cuscino. Sembrava guardarmi, con quegli occhi sbarrati, e dirmi: “Guarda come si muore!... Ora sai cosa vuol dire...”.
            Mi vien da ridere quando mi parlano della “forza del pensiero”. Non ho mai conosciuto niente di così debole e soggetto al cambiamento del vento! La forza rabbiosa di quel corpo negli ultimi respiri, quella sì era genuina, incommensurabile (pur nella sua inutilità) ed ancora oggi mi lascia ammirato e stupefatto. Non c’è mai stato un “pensiero” che mi comunichi una “forza” paragonabile a quel respiro affannoso, che sembrava sempre più stretto coi denti.
            Con questo non voglio dire che la morte mi spaventasse: non ho mai provato orrore o paura della Nera Signora; semplicemente mi affascinava il suo mistero, oscuro e molesto ma seducente. Aggettivi contrastanti, ma applicabili a tutte le perversioni.

La proposta d’incarico come boia del paese mi fu avanzata poco dopo l’approvazione della Legge 115, che ripristinava la pena di morte e demandava alle singole Assemblee Generali la scelta del metodo di esecuzione e del personale addetto.
            A me telefonò personalmente il Podestà: un mio amico di vecchia data, di qualche anno più anziano, che in adolescenza era stato per me come un fratello maggiore. Il tempo, poi, ci aveva diviso: lui si era presto gettato in politica; era abile e intelligente e scaltro (il suo lato che meno amavo e dal quale, pure, mi sentivo maggiormente attratto); io ero rimasto un inetto disoccupato.
            Col senno di poi devo dire che sulla scelta del metodo di esecuzione (l’antica decapitazione con accetta) mi soffermai meno di quanto fosse opportuno; al contrario indugiai molto sui motivi che portarono al mio nome. Ormai da tempo non mi chiedo più cosa spinse il mio vecchio amico a scegliere proprio me, ma ricordo che dopo aver accettato la prima domanda che mi rivolsi fu proprio: “Perchè io?”. Non so se il Podestà avesse visto in me, già da ragazzi, qualche lato oscuro, o se le notizie della mia indigenza (ero sposato e con un figlio di pochi mesi) l’avessero spinto ad offrirmi un lavoro.
            Non ho mai saputo darmi una risposta: di meritarmi oggi di essere definito “cinico”, nella migliore delle ipotesi, sono perfettamente consapevole, ma evidentemente questa fama di uomo duro, spietato, che disprezza i propri simili, dovevo possederla già allora. Mi dispiace: può suonare falso, ipocrita, e addirittura offensivo, ma non è così che mi sento.
            Comunque accettai. Ero giovane; inesperto e violento come solo un giovane può essere; eccessivo e dispotico, come solo un giovane può essere. In quei tempi di criminalità dilagante i giornali ci rovesciavano addosso cronache di efferatezze di ogni genere, e l’idea di ripristinare la pena capitale aveva trovato anche il mio consenso, l’ammetto senza vergogna. E poi ero disoccupato, con una giovane moglie ed un figlio appena nato cui pensare. Considerai che, in ogni caso, il mio rifiuto non avrebbe salvato la vita a nessuno… E pensavo che le esecuzioni sarebbero state rarissime, una ogni dieci anni magari, e già per la prima io avrei potuto procurarmi una diversa occupazione… Ma le mie sono motivazioni la cui debolezza mi condanna già, lo so. Probabilmente ero solo un predestinato: parlare del destino mi sembra una banalità da astrologo, ma ci sono uomini che sembrano davvero toccati dalla sua mano; chi con un segno di speranza, chi con un marchio opposto. Io sono fra questi ultimi.
fine prima parte

mercoledì 3 gennaio 2007

I casi in cui ogni tanto inciampa la vita

Era da tempo che pensavo di aprire un blog, e la decisione è stata “facilitata” dalla circostanza dell’esecuzione capitale di Saddam Hussein, su cui ho scritto il primo intervento di questo diario virtuale. Intendo dire che il tema della pena di morte l’ho sempre sentito  molto “mio”, per cui mi è risultato naturale sbloccare la mia incertezza ed aprire il blog.
Ora, seguitemi, andiamo ad alcuni anni fa. Un periodo (sarà stato il ‘98 o il ‘99) in cui avevo riflettuto sulle esecuzioni capitali e ne era nato un racconto, “Appunti di un boia”. Avevo cercato di dare una forma “nuova” e provocatoria a quelle mie riflessioni: avevo immaginato che in un’ipotetica Italia del futuro la pena di morte fosse stata ripristinata, e per enfatizzare il mio giudizio su questa forma di barbarie avevo ipotizzato che la sua reintroduzione fosse avvenuta con l’aspetto più osceno si potesse immaginare: la decapitazione con accetta. Avevo inoltre deciso di scegliere un punto di vista particolare: quello del boia, che a “fine carriera” racconta la sua versione dei fatti, scoprendosi più strumento e spettatore che non artefice di quei delitti legalizzati.
Anni dopo avevo dato una forma diversa e più ampia a quel racconto, trasformandolo in un romanzo. Avevo anche dato uno sviluppo diverso alla trama, approfondendo meglio il tardivo pentimento del boia e le sue conseguenze… Ma ora non è il caso di dilungarmi su questo. Vi basti sapere che il romanzo, seppure terminato, giace da tempo fra le mille cose da riguardare, da rivedere e correggere.

Oggi, sempre per quelle casualità cui accennavo all’inizio, ho scoperto che la mia idea di base (la pena di morte vista da un boia) non era poi così originale. Conoscevo di fama le “gesta” di Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello stato Pontificio fra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma non sapevo che questo signore avesse scritto le sue memorie (romanzate e adattate probabilmente a posteriori da altro autore). Le memorie di Mastro Titta potete scaricarle qui
L’ho scoperto, dicevo, oggi. Non l’ho ancora letto, ma mi riservo di farlo e di trovare nuovi stimoli per rivedere la versione-romanzo di “Appunti di un boia”. Intanto, però, il riflettere su tutte queste casualità mi porta a pubblicare in 4 puntate la sua versione-racconto: Comincerò a farlo nei prossimi giorni.

martedì 2 gennaio 2007

Di orrori ed ipocrisie

Molti hanno tentato un parallelo fra l'uccisione di Saddam Hussein ed il processo di Norimberga. Chi l'ha fatto più lucidamente è stato Vittorio Zucconi, che ha parlato di "grottesco remake". Il parallelo è fondamentalmente corretto (anche stavolta i vincitori hanno processato i vinti), pur se con doverosi distinguo, ma se ci si ferma a quello l'analisi rischia di restare monca e superficiale.
In pochi, infatti, hanno sottolineato come l'orrore  di un'esecuzione capitale post-conflitto sia il figlio naturale dell'orrore verso il conflitto stesso, e che in generale la pena di morte ha una parentela stretta con la guerra, con ogni guerra.
Chi ha approvato l'intervento militare in Iraq è ipocrita nel prendere ora le distanze dalla pena capitale: guerra e pena di morte sono per molti versi consequenziali e sicuramente simili in termini di approccio intellettuale al diritto, perchè sono gli unici crimini che in certi momenti storici vengono spacciati per giustizia. E analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per la tortura, argomento guarda caso tornato all'attualità proprio durante i mesi del conflitto in Iraq.
Dunque, se "pietà l'è morta", come recitava una delle più conosciute canzoni sulla Resistenza, non c'è da sorprendersi: non tutte le vittime dei conflitti hanno una loro fisicità. Alla lunga lista di vittime di ogni conflitto possiamo aggiungere infatti la verità, che spesso muore per prima, e la pietà, che vacilla per qualche tempo, per poi cadere anch'essa.
E' venuto quindi il momento per dire con forza che al no alla guerra "senza se e senza ma" è giusto abbinare un'uguale contrarietà, senza distinguo ed eccezioni, verso la pena di morte e verso la tortura. E a certi distinguo tipo "la pena di morte è sbagliata, ma in alcuni casi...", oppure "la tortura è sbagliata, ma in condizioni eccezionali..." bisogna rispondere semplicemente che non si possono porre condizioni di accettabilità per queste barbarie.