martedì 2 gennaio 2007

Di orrori ed ipocrisie

Molti hanno tentato un parallelo fra l'uccisione di Saddam Hussein ed il processo di Norimberga. Chi l'ha fatto più lucidamente è stato Vittorio Zucconi, che ha parlato di "grottesco remake". Il parallelo è fondamentalmente corretto (anche stavolta i vincitori hanno processato i vinti), pur se con doverosi distinguo, ma se ci si ferma a quello l'analisi rischia di restare monca e superficiale.
In pochi, infatti, hanno sottolineato come l'orrore  di un'esecuzione capitale post-conflitto sia il figlio naturale dell'orrore verso il conflitto stesso, e che in generale la pena di morte ha una parentela stretta con la guerra, con ogni guerra.
Chi ha approvato l'intervento militare in Iraq è ipocrita nel prendere ora le distanze dalla pena capitale: guerra e pena di morte sono per molti versi consequenziali e sicuramente simili in termini di approccio intellettuale al diritto, perchè sono gli unici crimini che in certi momenti storici vengono spacciati per giustizia. E analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per la tortura, argomento guarda caso tornato all'attualità proprio durante i mesi del conflitto in Iraq.
Dunque, se "pietà l'è morta", come recitava una delle più conosciute canzoni sulla Resistenza, non c'è da sorprendersi: non tutte le vittime dei conflitti hanno una loro fisicità. Alla lunga lista di vittime di ogni conflitto possiamo aggiungere infatti la verità, che spesso muore per prima, e la pietà, che vacilla per qualche tempo, per poi cadere anch'essa.
E' venuto quindi il momento per dire con forza che al no alla guerra "senza se e senza ma" è giusto abbinare un'uguale contrarietà, senza distinguo ed eccezioni, verso la pena di morte e verso la tortura. E a certi distinguo tipo "la pena di morte è sbagliata, ma in alcuni casi...", oppure "la tortura è sbagliata, ma in condizioni eccezionali..." bisogna rispondere semplicemente che non si possono porre condizioni di accettabilità per queste barbarie.

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