giovedì 4 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – prima parte

21 Marzo 2091
Ero ancora un bambino quando ebbi il mio primo contatto con la morte, e fino a quel giorno il suo pensiero non m’aveva mai sfiorato. Fu un contatto che non mi ferì direttamente, è vero, ma sufficiente a farmi aprire gli occhi su quella realtà per me ancora sconosciuta, nella mia puerile ingenuità.
            Ero in macchina con mio padre, che procedeva come sempre a bassa velocità, quando vidi due cani attraversarci la strada. Mio padre li evitò, ma mentre il cane più grosso riuscì ad arrivare al ciglio opposto, quello più piccolo, evidentemente meno esperto, non fu evitato dall’automobile che proveniva nell’altro senso di marcia. Lo vidi rotolare sotto le ruote, quindi lanciare un lungo guaito mentre arrancava verso il ciglio stradale con la sola forza delle zampe anteriori, trascinando quelle posteriori. Aveva la bocca aperta in un modo tremendo: il terrore gliela faceva spalancare oltre misura.
            Vidi quella povera bestia dal finestrino dell’auto, le zampe ancora frementi sull’erba, gli occhi sbarrati; ma il particolare che più mi colpì fu la bocca spalancata in quel guaito interminabile, testimone non solo del dolore, ma soprattutto della consapevole incombenza della morte che, fino a pochi istanti prima, sembrava tanto lontana.
            - Non guardare -, disse premuroso mio padre, ma io finsi solamente di obbedire. Pensai che non sarebbe cambiato niente. Il dolore e la paura sarebbero rimasti: ormai anch’io ne avevo preso coscienza.

            Molto peggiore fu il secondo contatto con la morte, questa volta diretto e lacerante. Mio padre morì dopo una lunga pena per un male incurabile. Lo assistetti nell’ultima notte; respirava a fatica, e anche lui all’arrivo della morte si presentava con gli occhi aperti, fissi e vuoti.
            Mi stupiva l’attaccamento del suo corpo alla vita. Ripeto, solo del corpo. L’anima se n’era già andata dov’era attesa, ma quel grumo di carne teso e freddo, gli occhi sbarrati, non voleva raggiungerla. Era sbalorditivo vedere tutta quella disperata forza istintiva in quel povero corpo già abbandonato dalla scintilla cosciente della vita.
            Tremo ancora oggi se penso a quell’ultimo respiro, quando mio padre strinse i pugni e, completamente irrigidito, levò il capo dal cuscino. Sembrava guardarmi, con quegli occhi sbarrati, e dirmi: “Guarda come si muore!... Ora sai cosa vuol dire...”.
            Mi vien da ridere quando mi parlano della “forza del pensiero”. Non ho mai conosciuto niente di così debole e soggetto al cambiamento del vento! La forza rabbiosa di quel corpo negli ultimi respiri, quella sì era genuina, incommensurabile (pur nella sua inutilità) ed ancora oggi mi lascia ammirato e stupefatto. Non c’è mai stato un “pensiero” che mi comunichi una “forza” paragonabile a quel respiro affannoso, che sembrava sempre più stretto coi denti.
            Con questo non voglio dire che la morte mi spaventasse: non ho mai provato orrore o paura della Nera Signora; semplicemente mi affascinava il suo mistero, oscuro e molesto ma seducente. Aggettivi contrastanti, ma applicabili a tutte le perversioni.

La proposta d’incarico come boia del paese mi fu avanzata poco dopo l’approvazione della Legge 115, che ripristinava la pena di morte e demandava alle singole Assemblee Generali la scelta del metodo di esecuzione e del personale addetto.
            A me telefonò personalmente il Podestà: un mio amico di vecchia data, di qualche anno più anziano, che in adolescenza era stato per me come un fratello maggiore. Il tempo, poi, ci aveva diviso: lui si era presto gettato in politica; era abile e intelligente e scaltro (il suo lato che meno amavo e dal quale, pure, mi sentivo maggiormente attratto); io ero rimasto un inetto disoccupato.
            Col senno di poi devo dire che sulla scelta del metodo di esecuzione (l’antica decapitazione con accetta) mi soffermai meno di quanto fosse opportuno; al contrario indugiai molto sui motivi che portarono al mio nome. Ormai da tempo non mi chiedo più cosa spinse il mio vecchio amico a scegliere proprio me, ma ricordo che dopo aver accettato la prima domanda che mi rivolsi fu proprio: “Perchè io?”. Non so se il Podestà avesse visto in me, già da ragazzi, qualche lato oscuro, o se le notizie della mia indigenza (ero sposato e con un figlio di pochi mesi) l’avessero spinto ad offrirmi un lavoro.
            Non ho mai saputo darmi una risposta: di meritarmi oggi di essere definito “cinico”, nella migliore delle ipotesi, sono perfettamente consapevole, ma evidentemente questa fama di uomo duro, spietato, che disprezza i propri simili, dovevo possederla già allora. Mi dispiace: può suonare falso, ipocrita, e addirittura offensivo, ma non è così che mi sento.
            Comunque accettai. Ero giovane; inesperto e violento come solo un giovane può essere; eccessivo e dispotico, come solo un giovane può essere. In quei tempi di criminalità dilagante i giornali ci rovesciavano addosso cronache di efferatezze di ogni genere, e l’idea di ripristinare la pena capitale aveva trovato anche il mio consenso, l’ammetto senza vergogna. E poi ero disoccupato, con una giovane moglie ed un figlio appena nato cui pensare. Considerai che, in ogni caso, il mio rifiuto non avrebbe salvato la vita a nessuno… E pensavo che le esecuzioni sarebbero state rarissime, una ogni dieci anni magari, e già per la prima io avrei potuto procurarmi una diversa occupazione… Ma le mie sono motivazioni la cui debolezza mi condanna già, lo so. Probabilmente ero solo un predestinato: parlare del destino mi sembra una banalità da astrologo, ma ci sono uomini che sembrano davvero toccati dalla sua mano; chi con un segno di speranza, chi con un marchio opposto. Io sono fra questi ultimi.
fine prima parte

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