lunedì 15 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – terza parte

    Alla centesima esecuzione si pensò addirittura di dovermi premiare. Ricordo che la cerimonia era fissata per il primo maggio, festa del lavoro, proprio in piazza, sul palco delle esecuzioni. Una settimana prima scrissi al Podestà che rifiutavo qualsiasi riconoscimento per quello che consideravo solo il mio dovere. Era l’unico metodo per evitare quella buffonata senza dargli pubblicamente del pagliaccio. Per fortuna la consuetudine delle esecuzioni almeno qualcosa di buono l’ha raggiunto: altre ricorrenze di questo tipo, vuoi cronologiche vuoi numeriche, sono passate inosservate. Probabilmente mi avrebbero dato qualche bella targa d’argento, forse d’oro, ma quei riconoscimenti avrebbero avuto il solo effetto di aprire ancora maggiormente la ferita dentro di me.
    Credo sia capitato a tutti di avere delle frasi che, a volte, vagano nei pensieri inquiete, in apparenza immotivate, come a voler cercare una precisa collocazione e con essa una ragione di esistere. Spesso si tratta solo di qualche strano meccanismo della memoria, privo di senso; a volte è il modo che la nostra coscienza usa per farsi sentire. In quei giorni nella mia mente vagava una frase dantesca: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”... Forse solo oggi capisco che era qualcosa di più di una reminiscenza scolastica, nostalgia di un tempo in cui ero ancora innocente: se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare.
    Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita. Anche chi disponeva della libertà, del denaro o, in qualche modo subdolo, della felicità altrui, era ugualmente colpevole, e fu in quei giorni che in me maturarono definitivamente l’odio verso le istituzioni ed il disprezzo per la mia codardia, per il mio colpevole silenzio, per l’accettazione supina del ruolo assegnatomi.

    Ma si raccontano tante frottole su come e perchè cessai la mia attività di boia. Forse non interesserà a nessuno cosa accadde quel giorno, ma io vorrei provare la soddisfazione di sapere che almeno qualcuno sa come sono andate davvero le cose. Non temo la morte, ma sicuramente temo che il modo in cui maturò la mia estrema ribellione finisca nell’oblio.
    Sfatiamo innanzitutto la leggenda secondo cui quel giorno strani cenni premonitori avrebbero spiegato ai più quel che stava per accadere. Tutte sciocchezze: non c’era niente di diverso. Dubitate, quindi, di chi vi racconterà che “quel giorno c’era qualcosa di strano nell’aria”, o dice d’aver colto qualche lampo strano nel mio sguardo; anche se, è vero, gravava sul palco e sulla folla la cappa di piombo di un cielo minaccioso. Temendo la pioggia, avevo cosparso i miei guanti ed il manico dell’accetta di un’abbondante razione della consueta pasta, affinchè l’ascia non potesse scivolarmi. Mi ero presentato sul palco un quarto d’ora prima dell’orario stabilito, come al solito.
    Poi arrivò il condannato. Un ragazzo di neanche vent’anni, come la mia prima vittima. La mia vita andava a fondersi in un ciclo ossessivo di orrore e di morte, dove io ormai non ero più il protagonista, ma solo uno spettatore privilegiato. Mentre la banda del paese suonava, colsi lo sguardo intelligente e vivace del condannato poco prima che le guardie provvedessero a bendarlo, mentre salutava la folla come se niente fosse, per niente spaventato, una folla che si accendeva e si agitava, attraversata da mille scariche di un’energia sconosciuta.
    Particolari soliti e per certi versi insignificanti cominciarono ad infastidirmi, mentre generalmente a questo punto afferravo saldamente l’accetta, cercando di non pensare a nulla, di concentrarmi. Ma quella volta non mi riusciva. Il rumore della banda mi infastidiva. Il vociare della folla mi sembrava intollerabile.
    Poi, in lontananza, ecco i primi tafferugli tra le forze dell’ordine ed i manifestanti contro la pena di morte. Guardai la folla: chi derideva il condannato, chi lo incoraggiava, chi lo malediceva... E a me parevano tutti uguali, una gigantesca marmellata di persone che ribolliva delle proprie contraddizioni.
    Decisi che quello era il momento giusto. A dire il vero non so se decidere sia il verbo più indicato, presupponendo un processo intellettivo cosciente: avevo meditato il mio “tradimento” da tempo, ma non avevo mai valutato nè come nè quando.
    Appoggiata l’ascia di traverso a lato del ceppo, la spezzai sicuro con un calcio; quindi sfilai i guanti, gettandoli con noncuranza sul palco; poi scesi le scale fra due ali di folla che si ritraeva stupita al mio passaggio, nemmeno fossi Mosè davanti al Mar Rosso.
    Dovettero rinviare solo di pochi giorni quell’esecuzione: l’Assemblea Generale non faticò molto a trovare un volontario che mi sostituisse, alle stesse condizioni economiche. Il Podestà telefonò inviperito per dirmi che me l’avrebbe fatta pagare cara.
    - Considerati già condannato -, berciò. - Brucerai all’inferno assieme alle tue vittime -.
    Gli risi in faccia: tutte cose che conoscevo già. Così come sapevo che la mia condanna o la mia ultima destinazione non erano certo dovute a determinazioni umane: Qualcuno doveva aver già disposto in tale senso. Ma trovai piuttosto sterile dare inizio ad una schermaglia filosofica.
    La mia decisione di smettere, vista da un esterno, probabilmente deve sembrare l’affare peggiore di tutta la mia vita: presso quelli che mi detestavano non acquistai alcun credito, mentre quelli che vedevano in me un eroe mi bollarono presto come codardo e traditore. Ma continuo a ritenere che quel giorno presi la decisione migliore: è vero che non acquistai altra stima che la mia, ma non m’aspettavo nemmeno quella.

Fine terza parte

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