lunedì 8 gennaio 2007

APPUNTI DI UN BOIA – seconda parte

    Il mio primo giustiziato lo ricordo bene: un ragazzo di vent’anni, parricida confesso. La sua storia era di quelle diventate purtroppo comuni: era un tossicodipendente, e non aveva nessuna voglia di liberarsi da quel vizio che ti succhia l’anima. I soldi per comprarsi la droga li aveva spillati per mesi e mesi al padre, che fino ad una settimana prima dell’omicidio non aveva saputo dirgli di no. Poi, un giorno, ecco il rifiuto; un gesto più disperato che deciso, privo di quella forza necessaria all’arte della vera dissuasione. I tentativi del ragazzo di ottenere le somme consuete continuarono, sempre più insistenti, arginati solo da quel rifiuto tentennante, nemmeno sostenuto da qualche accenno minaccioso alle Autorità o alle punizioni possibili e conseguenti. Per conto mio sarebbe stato cento volte meglio per entrambi se il padre avesse sbattuto fuori di casa il figlio, costringendolo ad entrare in una comunità di disintossicazione. Comunque il resto della storia la si può immaginare…
    Quando mi comunicarono che avrei dovuto eseguire la mia prima condanna restai attonito, ma una volta saputo di quel ragazzo mi sentii quasi sollevato. Per un gesto come il suo ero ben convinto ci volesse una punizione esemplare, anche prima della reintroduzione della pena di morte, e pensai che l’ascia poteva essere per me un po’ più leggera. Ma quando me lo portarono davanti piangente la mia sicurezza scomparve. Si dibatteva ed urlava come un bambino, e come un bambino aveva gli occhi talmente pieni di lacrime che parevano di gelatina. Non c’era più traccia di un assassino.
Con grande fatica riuscirono a legargli le mani dietro la schiena, così non riuscì nemmeno a pulirsi il naso che gli colava. Non ho mai potuto sapere se con quelle mani volesse semplicemente strapparmi l’ascia, o afferrare le mie per chiedere pietà. Preferirei credere che volesse tentare qualche gesto disperato, ammazzarmi magari; così potrei pensare di aver fatto bene, almeno per autodifesa, a mozzargli la testa d’un colpo. Ma è inutile mentirmi: voleva solo pietà, ed io non ero autorizzato a dargli altra pietà se non quella della mia destrezza. Era la mia prima volta da assassino, ma bastò per farmi capire che il buon Guillotin ed il Dottor Louis forse avevano sbagliato nelle loro valutazioni, perchè quella sensazione di qualcosa di sottile e di freddo che penetra nell’anima forse non la provò la mia vittima, ma io sicuramente sì.

    Dopo l’esecuzione domandai udienza al mio amico Podestà, chiedendogli di provvedere affinchè ai condannati fossero bendati gli occhi. Lui mi rispose: - Va bene, chi lo desidera avrà la benda, proprio come una volta -, ma quel che volevo era diverso. Come tutte le persone che non hanno nessuna intenzione di spiegare i propri motivi, mi limitai ad insistere pesantemente, dicendo che, se l’Assemblea Generale non avesse sancito l’obbligatorietà in ogni caso della benda, lui poteva anche cercarsi un altro per quel compito. Il mio amico restò sorpreso dalla mia foga, ma accettò.
    L’editto che sanciva quanto concordato fra me ed il Podestà fu motivato con le solite, retoriche ragioni di “umanità” verso il condannato. Nessuno seppe che la pietà di quel gesto era rivolta a me: non avrei più dovuto vedere gli occhi di un uomo che sa di dover morire. Non avrei più dovuto vedere rabbia, paura, ribellione; implorazioni silenziose e per questo ancora più laceranti.
    Mi ero reso conto che la morte era diventata qualcosa di diverso, per me. Se prima poteva essere solo un concetto che mi affascinava in modo quasi asettico, lasciando le mie emozioni intatte, ora che io ne ero diventato un dispensatore era diventata una parte di me, impalpabile, indefinibile ed inseparabile come la mia ombra. La sola parola morte, anche quando si abusava della sua religiosità riferendola ad un gatto o ad una pianta, aveva ora un sapore fraterno e sinistro al tempo stesso. Pronunciata da qualsiasi bocca aveva l’effetto di una freccia che, scoccata da quelle labbra, mi apriva una ferita nell’anima, ricordandomi che ora io ero diverso, che la mia diversità stava in quella ferita, e che quella ferita si chiamava consapevolezza.
    Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini.

Fine seconda parte

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