sabato 28 settembre 2013

Ben venga l’appello contro la tortura di Stato. Però…

Vi segnalo “l’appello per una campagna nazionale contro la repressione e la tortura di Stato”.

Non starò a sottolineare la stima che ho per i firmatari, nè l’affetto che mi lega ad alcuni di essi, e non starò neppure a rimarcare le molte parti che condivido. Non lo farò perché non voglio scivolare nel personale e – soprattutto – perché sarò già abbastanza prolisso nel soffermarmi sui soli passaggi che non mi sono piaciuti (li vedremo in seguito) e sulla “impronta” che quei passaggi, forse persino al di là delle intenzioni dei proponenti, finiscono col dare all’appello.

Mentre scrivo queste righe è il 25 settembre: 8 anni fa, l’uccisione di Federico Aldrovandi… Ricordarlo ora mi sembra più che doveroso. Chi mi conosce sa che il mio no alla tortura è scontato (ed è un no “senza se e senza ma”) e che mai ho mancato di sottolineare, della tortura, la matrice repressiva di stato, la strisciante impronta “di classe”, il suo utilizzo cosciente per combattere i conflitti sociali.

Ora, un aneddoto…

La scorsa estate ero con Matteo Fenoglio, in una delle tante iniziative dove abbiamo parlato della strage di Piazza della Loggia. Le circostanze fecero scivolare la discussione sugli anni 70: mi chiesero un parere sulle BR. Dissi che le BR, al di là delle intenzioni originali e della loro genesi e della buona fede di tanti, erano finite con l’essere un macigno calato sulle lotte sociali del ciclo partito col 68. Che lo Stato, dove non era riuscito con le stragi, era riuscito nei suoi intenti proprio col metodo più subdolo: strumentalizzare la violenza delle BR per instillare (lentamente: l’effetto lo abbiamo visto negli anni 80 e 90; oggi si è definitivamente affermato) il pensiero comune secondo cui gli anni 70 sono stati solo orrore follia violenza e morte. E, aggiunsi, la critica più forte che facevo alle BR non era tanto o solo l’aver provocato questo processo (ripeto: al di là della buona fede di tanti, delle intenzioni iniziali, delle storie individuali – anche diversissime – che si dipanano nella storia complessiva della lotta armata) quanto il non ammettere, oggi, quel torto.
Non l’avessi mai fatto!!! Mi si rispose (giuro: più o meno testuale) che “le BR sono state l’ultimo vero movimento di massa, i brigatisti sono stati la vera prosecuzione della lotta partigiana, tradita dai partiti di sinistra!!!, sconfitti SOLO dalle violenze e dalle torture dello stato”. A me non suonava mica tanto corretto…

Ora, vi chiederete, che c’entra tutto questo con l’appello? C’entra, c’entra… Perché il punto è:
- IPOTESI 1: l’appello tende a dire no alla tortura; a ricordare che il primo a torturare e reprimere è lo stato (dal povero Serantini a Triaca ai brigatisti nei ’70 fino ai casi recenti che purtroppo ben conosciamo). Allora ok, ci siamo.
- IPOTESI 2: oltre a dire no alla tortura, si vuole ridare dignità alla lotta armata. Ma lo si vuole fare al di là della ragionevolezza. Allora no, non ci siamo. Vedremo fra poco perché…

Parliamo dunque delle frasi a cui accennavo in premessa (quelle che non condivido): “… Professor De Tormentis” - capo della squadra di aguzzini alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, istituita per estorcere confessioni ai militanti delle Br nel pieno della guerra civile che si combatteva in Italia alla fine degli anni ’70”; “Il caso Triaca assume quindi una forte valenza simbolica, sineddotica: da un lato grimaldello per fare opera di memoria su quanto accaduto in Italia ai militanti politici tra il ’78 e l’82, dall’altro spiraglio per aprire un dibattito storicizzante sulle lotte degli anni’70, senza tabù e rischi di astrazioni decontestualizzanti volte a perimetrarne la portata e screditare con sommario arbitrio le esperienze rivoluzionarie che ne furono avanguardie”.

(due spiegazioni brevissime per coloro a cui i nomi di Triaca o  di “De Tormentis” fossero sconosciuti. Delle torture subite dai brigatisti, e in generale dai componenti di gruppi armati di sinistra, si parlò all’epoca dei fatti. Si è tornati a parlarne dopo che Nicola Rao ha pubblicato nel 2011 “Colpo al cuore”, Sperling & Kupfer. Un libro fondamentale sulla questione, che ricostruisce la genesi e lo sviluppo della “strategia delle torture” e può contare su testimonianze dirette di chi commise gli abusi. “Professor De Tormentis” era il nome in codice del capo della “squadra speciale” incaricata delle torture, finalizzate ad estorcere confessioni. Enrico Triaca fu tra quelli che, torturati, presentarono denuncia: fu condannato per calunnia… Il caso è stato riaperto, anche a seguito del libro di Rao, e ad ottobre partirà la revisione del processo che lo vide condannato. Tutte cose che ho sintetizzato brutalmente: le trovate spiegate in modo più esauriente nell’appello).

Torniamo a noi… Dicevo che se davvero l’appello rientra in quella che ho definito “ipotesi2” (“oltre a dire no alla tortura, si vuole ridare dignità alla lotta armata”) non ci siamo proprio…

Attenzione: non metto in discussione quelle che furono le intenzioni originarie di compagni e compagne che scelsero la lotta armata; ma “le avanguardie” si sono screditate da sole, con le loro azioni che, via via, degenerarono. Poi, su quelle degenerazioni lo Stato ha avuto gioco facile nel costruire il revisionismo e, siccome gli faceva comodo, le torture le ha cancellate dalla propria storia. Ma (proprio perché noi vogliamo denunciare e combattere l’ipocrisia dello stato e il revisionismo) non è che per riportare a galla le torture si debbano cancellare le degenerazioni della lotta armata: sarebbe una sorta di revisionismo speculare. E non vorrei che (magari in buona fede) fosse questa l’intenzione di alcuni dei firmatari dell’appello; o, se non l’intenzione, finisse con l’esserne l’effetto o la percezione…

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Entriamo dunque nel merito di quel periodo (sommariamente i primi anni ’80) in cui per affrontare la cosiddetta “emergenza terrorismo” lo Stato non si mostrò semplicemente “forte” (come vuole la retorica ufficiale che racconta quegli anni, nell’ansia semplicistica di ricondurre quella stagione a una lotta del “bene” contro il “male”), ma si spinse sulla strada della ferocia. Questa degenerazione fu in parte palese e portò a disposizioni che andarono a restringere la sfera dei diritti individuali, in parte fu sotterranea (ma comunque conseguenza del succitato impalcato normativo emergenziale) e sfociò nella pratica della tortura. C’è una bella frase di Leonardo Sciascia, terribilmente attuale: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.

Nel 1982, dopo reiterate denunce, l’allora ministro dell’interno Virginio Rognoni dovette rispondere in Parlamento a interrogazioni che possiamo riassumere in una sola domanda fondamentale: per battere il terrorismo erano stati superati i limiti posti come base della democrazia e dello stato di diritto? Quella che fu la risposta di Rognoni, e in generale delle istituzioni, mi sembra scontata. Del resto anche George W. Bush nel novembre 2005, quando era Presidente degli Stati Uniti, disse perentoriamente “Noi non torturiamo”, incurante delle smentite fattuali, avvenute prima e dopo quell’affermazione. Ironicamente (come ha notato Naomi Klein in un articolo su The Nation e come ha ricordato Chiara Acheri su Liberazione del 22 febbraio 2006) Bush pronunciò quella frase a Panama, dove gli USA gestirono fino al 1984 “la School of the Americas, il famigerato laboratorio di addestramento controrivoluzionario dove migliaia di agenti segreti e soldati … hanno appreso i metodi di pressione fisica e psicologica poi ampiamente usate dalle squadre di Pinochet in Cile e dagli altri regimi latinoamericani” (estratto dal citato articolo di Acheri).
Solo successivamente Bush ha ammesso di essere stato a conoscenza delle tecniche di interrogatorio usate nella lotta al terrorismo internazionale, e di averle avallate. Si tratta di metodi (fra cui il tristemente famoso waterboarding, utilizzato pure in Italia nel periodo fine 70 inizi 80) sicuramente definibili come torture, ma dichiarati ammissibili “in punta di diritto” dall’amministrazione statunitense. Del resto già Blaise Pascal denunciava con un aforisma come la forza possa sostituirsi al diritto: “Non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”. Tutto questo avviene anche grazie a un indebolimento della capacità di risposta della società, la quale – travolta da ansie securitarie – appare disposta ad accettare limitazioni dei diritti civili, se queste comportano, almeno a livello di percezione, maggiore sicurezza.
Tornando in Italia, e al di là delle risposte dell’allora ministro Rognoni, il numero e l’omogeneità delle denunce possono portare a una conclusione: le torture non furono il frutto di “poche mele marce”, ma di una strategia in cui l’efficacia poteva e doveva andare a discapito dei principi.

(Aggiungo una considerazione “laterale” – meriterebbe uno sviluppo più ampio, ma appare doveroso formularla perlomeno come accenno: l’Italia è tuttora priva nel suo ordinamento giuridico di un titolo di reato specifico sulla tortura, a più di 25 anni dalla firma della convenzione ONU sulla materia. La questione viene periodicamente ripresa, ma con molto meno vigore di quanto meriterebbe, da alcuni politici e dagli organi di stampa – tanto per citare un solo caso eclatante: quando si è parlato di quanto accaduto alla caserma di Bolzaneto durante i fatti del G8 genovese del luglio 2001 – ma il maturare di una seria coscienza sull’argomento appare ancora lontano).

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Tempo fa avevo scritto un lungo racconto, imperniato su una ragazza, ex militante di un gruppo armato (che intenzionalmente lasciavo nel vago) che subiva quelle torture… Lo iniziai nel 2008 (tranquilli, non voglio parlare di me o farmi pubblicità: non so se mai vedrà la luce e non è questo il punto). Come accennavo sopra, delle violenze subite dai brigatisti nei primi’80 nessuno parlava da tempo. Sembrava una pagina “rimossa”, più che dimenticata.
La pagina è stata riaperta da Nicola Rao col suo libro. Si è così tornati a parlarne, ma sempre sommessamente, quasi con fastidio, riuscendo a spegnere in fretta il dibattito che si stava aprendo, o confinandolo nelle pagine “di retrovia” dei quotidiani fino a farlo sparire del tutto. Così ripresi in mano il racconto…

Mentre scrivevo, il tema dei cosiddetti “anni di piombo” è sporadicamente riaffiorato. Per essere, sempre, chiuso in fretta e con fastidio. Spesso con la chiosa delle lamentele di alcuni parenti di vittime di quella stagione, persone che magari manifestavano sdegno per interventi di ex brigatisti.
L’atteggiamento di chi ha perso i propri cari è assolutamente comprensibile e non va bollato come semplice “vendettismo”. Ritengo però si debba distinguere questa posizione personale da quella di chi ne appoggia le istanze, sembrandomi quest’ultima strumentale e demagogica, e soprattutto interessata più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere una sorta di risarcimento morale alle vittime sotto la forma discutibile (e non so quanto efficace) di una condanna al silenzio verso i protagonisti di quella stagione. Ho inoltre la sensazione che quella condanna al silenzio rischierebbe di essere estesa implicitamente tanto ai carnefici quanto alle vittime, perché la violenza politica degli anni ’70 e ’80 è una memoria scomoda per quanto già emerso, ma pure per lo strato tuttora sommerso. Sintomatico, da questo punto di vista, è che il dibattito su quegli anni spesso si limita a circoscrivere il fenomeno alle BR o comunque alle sole formazioni dell’estrema sinistra: su tutto il resto, compreso lo stragismo “nero” da Piazza Fontana in poi, è sceso il silenzio, salvo lodevoli eccezioni.
Ritengo che la domanda fondamentale, per chi si interessa a quegli anni, sia questa: la stagione della lotta armata la vogliamo semplicemente chiudere, come accennato precedentemente, descrivendo una lotta di “bene” contro “male”, oppure vogliamo interrogarci sul contesto degli “anni di piombo” e sui processi che si svilupparono? Purtroppo si tratta di una domanda retorica: da più parti si vorrebbe che quegli avvenimenti fossero rimossi, negando si possano e debbano inquadrare. Si punta ad arrivare al finale di un ragionamento (una condanna delle degenerazioni) negando i passaggi intermedi, senza quindi interrogarsi sui perché delle degenerazioni.
Le rimozioni mi inquietano: quasi mai sono innocenti, sicuramente mai risultano utili, se non a fini che di storico hanno ben poco. Per questo scelsi, nel racconto, di soffermarmi sulle torture riservate ai componenti delle formazioni armate della sinistra extraparlamentare, ossia su un aspetto mai veramente affrontato. Non m’interessava chiedermi se quei metodi fossero o meno necessari: mi bastava non cadessero nel dimenticatoio. Non m’interessava analizzare se le mani che hanno contribuito a sconfiggere la lotta armata dovevano affondare nel sangue o se potevano evitarlo: mi bastava denunciare che l’hanno fatto, e ricordare che quelle mani oggi non possono pretendere di presentarsi pulite e profumate… Ma non voglio combattere quella rimozione con una uguale e di segno contrario.

Intendiamoci: sono sempre stato più portato a capire che non a condannare. E le torture subite dai brigatisti non mi sono mai sembrate la semplice risposta uguale e contraria alle loro colpe. La violenza di chi punisce per me ha sempre un sapore inaccettabile. Mostra che i vincitori sanno esibire solo la superiorità della loro forza, e questo mi fa dubitare della superiorità delle loro ragioni. Quelle torture, inoltre, erano particolarmente odiose, perché esercitate da uno Stato che voleva presentarsi come “forte ma giusto”. Sui crimini dei brigatisti si è parlato molto; quelli dello Stato, sapientemente occultati, demolivano il senso della giustizia proprio mentre pretendevano di affermarlo.

Francesco “baro” Barilli

martedì 17 settembre 2013

La Palestina nei fumetti di Joe Sacco e Guy Delisle

E’ persino banale cominciare questo pezzo lamentando la scarsa e superficiale fama di cui gode il fumetto in Italia, fatta eccezione per una ristretta nicchia di appassionati e addetti ai lavori. Anche fermandoci alla sola categoria del cosiddetto graphic journalism, opere di questo tipo vengono spesso recensite positivamente, ma ad esse sembra riconosciuto il solo merito della capacità di sintesi, di una maggiore fruibilità da parte dei giovani, quasi si trattasse di “bigini” buoni per infarinarsi su un dato argomento, riservando l’approfondimento ad altre (e “più alte”) forme espressive.
Può dunque sembrare paradossale che proprio una tematica complessa la si possa esaurientemente raccontare a fumetti. La questione Palestinese (drammatica e che affonda le radici in secoli lontani, ma giunge fino all’attualità con un’atroce scia di sangue e soprusi) è un esempio paradigmatico di questa possibilità. E i tre lavori di cui parliamo oggi sono “Palestina. Una nazione occupata”, “Gaza 1956. Note ai margini della storia” (entrambi di Joe Sacco, Mondadori) e “Cronache di Gerusalemme” (Guy Delisle, Rizzoli Lizard): un ottimo compendio sul dramma palestinese, anche perché incentrati su tre momenti storici diversi.

“Palestina. Una nazione occupata”
Con questo primo libro Joe Sacco racconta il proprio viaggio compiuto in Cisgiordania e nella striscia di Gaza tra la fine del 1991 e l’inizio del 92, con la prima Intifada già in azione da tempo. E lo fa con uno stile diventato ormai riconoscibilissimo a livello mondiale: rappresentandosi in prima persona, occhialini tondi, nasone e labbra pronunciate, un berretto calato sui capelli corti quando il freddo è pungente.
Ma l’autorappresentarsi di Sacco non è segno di narcisismo o protagonismo, né della volontà di mettere il proprio punto di vista al centro del lavoro. L’autore incrocia, nel proprio percorso, diverse persone: lascia a loro raccontare storie ed emozioni. Il giovane giornalista, all’epoca poco più che trentenne, sembra volere, quasi paradossalmente vista la scelta di autoinserirsi fra i personaggi del fumetto, accantonare le proprie sensazioni (che comunque lascia scivolare in alcune occasioni) per lasciare spazio a quelle degli intervistati. Sembra essersi proiettato in un mondo per lui fino a poco prima sconosciuto.
Quella di Sacco non è la ricerca dell’obbiettività assoluta (che è pura astrazione), ma dell’onestà intellettuale, figlia della consapevolezza di essere un giornalista, che ha nelle proprie mani la piccola parte di un’arma formidabile: migliaia di lettori, il potere di far dimettere Presidenti, di contribuire a cambiare il corso della Storia. O perlomeno di dare voce a chi non ne ha mai avuta, facendo così vibrare coscienze addomesticate dalle versioni di comodo del potere…
Sacco è un testimone, nel senso più alto e ampio della parola, di storie (della Storia…) altrui. Non è certo un eroe: delle sue sensazioni quella che emerge più nitidamente è la paura, quando si trova a doverla condividere coi suoi occasionali compagni di viaggio. L’autore non dà mai risposte; si intuiscono le sue domande, la sua – naturale e umana prima che professionale – curiosità e la sua partecipazione, ma quel che gli interessa è trasmettere i racconti degli intervistati, che a loro volta ci trasmettono l’occupazione israeliana non tanto nei “grandi eventi”, che rischiano di affondare la percezione della tragedia in una sorta di assuefazione all’orrore, quanto nei terrificanti segni della quotidianità.

“Gaza 1956. Note ai margini della storia”
Colpito dalla situazione che aveva rappresentato in “Palestina”, nel 2002 Sacco torna negli stessi luoghi. Ma non scrive una sorta di “attualizzazione” del precedente fumetto. La scelta poteva sembrare scontata: da un paio d’anni era in corso la seconda Intifada, e poteva essere naturale che l’autore volesse raccontarla, dopo aver vissuto nei Territori per due mesi durante la prima. Sceglie invece di raccontare un periodo più antico, che ci costringe a una breve digressione storica.

Durante la cosiddetta crisi di Suez, o guerra del Sinai, la Striscia fu occupata dall’esercito israeliano. Con la scusa della ricerca dei fedayn, gli israeliani procedettero a una vera e propria caccia all’uomo. Sacco racconta in particolare dei rastrellamenti a Rafah e Khan Younis (a sud della striscia di Gaza), dove gli uomini adulti furono sistematicamente radunati in aree aperte e – molti – uccisi. Siamo nel novembre 1956: fatti tragici quanto dimenticati, scalzati da orrori più recenti; “note ai margini della storia”, come amaramente sintetizza Sacco nel sottotitolo a “Gaza 1956”.

Con lo stesso approccio stilistico e narrativo visto nel precedente volume, Sacco incontra diversi testimoni, sopravvissuti del novembre 56. Tutti ricordano in particolare le violenze, la paura, le umiliazioni dei rastrellamenti. Proprio l’omogeneità dei racconti li rende più attendibili. Può sembrare distonico o fuori luogo (ma in fondo non so se e quanto davvero lo sia…) ricordare quanto scrissero, tanti anni dopo e in un Paese e un contesto diversi, i pubblici ministeri genovesi nella memoria conclusiva del processo sui fatti della Scuola Diaz: “… l’unico elemento omogeneo e convergente (ndr: rispetto agli occupanti della scuola Diaz) si è dimostrato essere la drammatica rappresentazione dei fatti resa da ciascuno di loro. Ciò che lega una ventenne studentessa americana proveniente dall’Oregon, un giornalista di un diffuso e noto quotidiano italiano, una sessantaquattrenne signora spagnola residente in Germania, un’esule turca con asilo politico in Svizzera, un violoncellista di Berlino e ancora giovani di ogni provenienza è solo un racconto uniforme, coerente, fluente e impressionante; un dettagliato resoconto che … è stato trasferito in tutta la sua viva dimensione anche nel corso del processo, con la partecipazione di chi alle incredule orecchie che ascoltavano ha dovuto trasmettere la sensazione di aver vissuto un incubo, descrivendo la furia di colpi inferti senza ragione, con determinazione, odio e disprezzo”.

“Cronache di Gerusalemme”
Canadese, 42 anni alla fine del 2008, Guy Delisle si trasferisce per un anno in Israele con tutta la famiglia, dove segue la moglie Nadège, impegnata in Medici senza Frontiere.
Anche Delisle si autorappresenta nel fumetto. E anche lui usa, o cerca di mantenere e di trasmetterci, freddezza e distacco pure nelle scene più “scomode”. Ma queste sono le uniche analogie con lo stile di Sacco.
La differenza non sta tanto o solo nel segno grafico (caricaturale ma ricco e dinamico quello di Sacco; povero, statico ed essenziale, quasi “infantile” quello di Delisle. La modulazione delle tavole del primo è estremamente varia, ricca di vignette e didascalie oblique o verticali, spesso priva della “gabbia” regolare – a strisce di due/tre vignette – che invece caratterizza quasi sempre la rigida “griglia” delle tavole del secondo).
Sacco, nei campi profughi, infila i suoi piedi nello stesso pantano in cui sono costretti “gli ospiti” (uso intenzionalmente il termine che, da noi, la retorica ufficiale vuole usare per i prigionieri dei C.I.E.). In generale, nei suoi soggiorni in Palestina si costringe a vivere le stesse condizioni di precarietà di chi vive stabilmente nei Territori occupati. Anche Delisle si mescola con la gente (anche perché, come accennato, la sua permanenza continuativa a Gerusalemme è stata molto più lunga), ma lo fa in modo più “aristocratico”. Frequenta “ambienti buoni”, lo vediamo in giro per supermercati o ritratto nelle incombenze quotidiane coi suoi due figli. La sua curiosità, sicuramente accostabile a quella del collega americano, è quella dell’osservatore distante e “terzo”, laddove Sacco invece cerca di azzerare le distanze. La cifra stilistica di Delisle, a livello di approccio narrativo, è un’ironia che vuol farsi didattica.

Se Sacco dopo un po’ sembra essere, o sforzarsi di essere, “uno dei palestinesi”, Delisle dà l’impressione di voler rimanere un estraneo che si sforza di comprendere una realtà lontana e aliena. E la sua estraneità pare volercela comunicare attraverso il famigerato muro, che rende i suoi spostamenti difficili e tortuosi (e pressochè impossibili quelli dei palestinesi): non solo lo rappresenta in varie sequenze, ma spesso si mostra ai lettori fermo nell’atto di disegnarlo, magari fino a quando un militare israeliano non lo allontana con fermezza.
L’autore sembra poi particolarmente impressionato dalle piccole e grandi “manie” che le diverse religiosità manifestano a Gerusalemme e dintorni. Anche per queste Delisle ha un atteggiamento che, seppur rispettoso dei diversi credo, denota uno sguardo scettico verso riti che devono apparirgli non solo poco comprensibili, ma soprattutto viva testimonianza di come l’ottuso integralismo religioso (di diverse matrici) impedisca da secoli in quella regione una civile convivenza fra i popoli.
Forte della sua terzietà, Delisle si sforza di presentare anche piccoli e timidi tentativi di convivenza fra palestinesi e israeliani. Ma su tutto lascia incombere l’ombra di quella diversità culturale, ben simboleggiata dalla sua già menzionata ossessione per il muro e dalle sue frequenti denunce dell’arroganza dei coloni israeliani.

***

1956, 1992, 2008. Sacco e Delisle abbracciano un arco di cinquant’anni di storia della regione. Momenti diversi, certo, ma la storia non è un insieme incoerente di schegge isolate, quanto un unico flusso di avvenimenti, dove ogni fatto si lega al precedente e al successivo. Rimuoverne o dimenticarne uno rende incomprensibile il quadro completo.
Ma, più di tutto, al lettore resta l’esemplare e umanissima chiosa finale di Sacco nel suo “Gaza 1956”. Quando un vecchio palestinese, alla domanda su quale sia la cosa peggiore che ricorda di quei giorni, risponde “La paura. La paura…”. E’ allora che Sacco si autorappresenta per una volta diverso dal prototipo del giornalista freddo e impassibile.  Di profilo, se ne scorgono labbra serrate e occhi strizzati in un moto di dolore e rabbia, mentre sottolinea: “E all’improvviso provai vergogna per aver perso qualcosa lungo la strada mentre verificavo le mie prove, le sbrogliavo, le sezionavo, le indicizzavo e le registravo sulla mia tabella. E mi ero ricordato quanto spesso mi ero trovato a parlare con vecchi che mettevano alla prova la mia pazienza, che menavano il can per l’aia, che mescolavano le cose, che saltavano dei passaggi, che non si ricordavano del filo spinato al cancello o di quando i mukhtar si erano alzati o dove erano parcheggiate le jeep. Quante volte avevo sospirato e alzato gli occhi al cielo perché ne sapevo di più io di quel giorno che loro”. Le vignette successive, silenziose, ripercorrono un rastrellamento, il terrore nei visi di vecchi palestinesi, le bastonate, e tutto si conclude in un riquadro nero.

Francesco “baro” Barilli