domenica 31 ottobre 2010

Calendario Memoria resistente 2011



Quella che vedete qui sopra è la manchette del calendario “Memoria resistente 2011”.
Non ho molto da aggiungere (l’immagine dice già tutto), se non ringraziare chi ha illustrato il calendario:

Gennaio: Christian Mirra

Febbraio: Lorenzo Ragno Celli

Marzo: Maurizio Ribichini

Aprile: Claudio Stassi

Maggio: Matteo Fenoglio

Giugno: Gianluca Romano

Luglio: Manuel De Carli

Agosto: Sylvie Bello

Settembre: Alessio Spataro

Ottobre: Toni Bruno

Novembre: Marco Paci

Dicembre: Cristina Spanò

Come abbiamo scritto nella pagina introduttiva: “Gli illustratori che hanno contribuito a questo calendario in molti casi hanno già lavorato o stanno lavorando su propri progetti riguardanti le stesse tematiche. Altri si sono proposti per la prima volta in questa direzione. Tutti hanno offerto il loro impegno con entusiasmo e gratuitamente (a loro va il nostro ringraziamento) e tutti hanno presentato una propria interpretazione, offrendo così una varietà di proposte stilistiche che costituisce il valore aggiunto di questo lavoro”.

Francesco “baro” Barilli



mercoledì 6 ottobre 2010

Ricordo di Francesca Dendena (associazione vittime strage di Piazza Fontana)

E’ morta questa mattina Francesca Dendena, storica rappresentante dell’associazione vittime della strage di Piazza Fontana. Aveva perso il padre, Pietro, nella “madre di tutte le stragi”, snodo cruciale della strategia della tensione. Il 12 dicembre 69 Francesca era un’adolescente, ma da allora e per i quarant’anni successivi si è distinta per lucidità e determinazione nella battaglia di verità e giustizia.
L’avevo incontrata nel marzo 2009, a casa sua. Era già ammalata, ma combattiva come sempre. “Devo partire da un aneddoto di quarant’anni fa, quando andammo a recuperare la macchina di mio padre. Già allora incontrammo alcuni giornalisti e a me – forse per esuberanza giovanile – venne spontaneo dire: mai più… Una cosa del genere non dovrà più succedere. E io, dicevo a me stessa, avrei dovuto impegnarmi affinché un’esperienza così terribile non dovesse capitare ad altri”.
Quel giorno dovevo intervistarla per il libro che stavo curando con Matteo Fenoglio sulla strage, che sarebbe uscito pochi mesi dopo (“Piazza Fontana”, ed. BeccoGiallo). Le avevo fatto leggere la prima bozza della sceneggiatura, e nel fumetto aveva notato una citazione dell’intervista che mi aveva concesso nel 2005, a pochi giorni dalla sentenza “tombale” della Cassazione (un verdetto che, pur riconoscendo le responsabilità della destra eversiva, aveva mandato assolti gli imputati). Proprio la vicinanza temporale a quella sentenza aveva portato Franca a parole amare: “Se penso a questo, al dolore dei parenti delle vittime, a tutte le battaglie fatte per avere giustizia, viene spontaneo dire: hanno vinto loro, quelli che hanno voluto le stragi…”. Nel marzo 2009, rileggendo quelle parole, aveva commentato: “dovevo essere proprio demoralizzata, in quel periodo!”.
Entrambi gli aneddoti possono far capire il temperamento e il livello di impegno civile di Franca. Quella battaglia di verità e giustizia, per lei, trascendeva il livello personale e la sentiva un dovere civile. Inoltre, considerava quello sfogo amaro non del tutto veritiero: “noi non ci siamo mai fermati. Ed abbiamo continuato a chiedere risposte, anche e soprattutto a quelle istituzioni da cui ci sentivamo delusi. … Credo che se certi risultati li abbiamo ottenuti lo dobbiamo proprio alla caparbietà di chi non si è mai arreso, anche continuando a chiedere risposte alle istituzioni. Risultati incompleti, certo, ma da non sottovalutare. … Recentemente ci siamo costituiti formalmente anche in un’associazione nostra: ‘Piazza Fontana 12 dicembre 1969. Centro studi e iniziative sulle stragi politiche degli anni ‘70’. Abbiamo deciso che dopo la sentenza questo sarà il nostro compito: continuare a raccontare la storia del 12 dicembre, innanzitutto nelle scuole… Tutto questo per far sì che nulla di questa vicenda venga distorto, per far sì che non ci sia più nessuno che dimentichi che questo è stato un Paese dove le stragi di cittadini innocenti sono state un mezzo usato per indirizzare la politica. Abbiamo deciso di farlo solo ora, e può sembrare strano, a quarant’anni dai fatti. In realtà abbiamo pensato che questo può essere lo strumento più adatto per proseguire nel nostro compito, che è anche una sorta di passaggio del testimone della memoria alle prossime generazioni”.

Mi piace chiudere questo ricordo proprio con quella sua frase sul “passaggio del testimone”, ancora più significativa oggi, dopo la scomparsa di Franca.
Le rivolgo un ultimo saluto, consapevole che la sua battaglia deve continuare proprio perché interesse di tutti. Il migliore messaggio ai suoi familiari (e a tutti i componenti dell’associazione) oltre a un affettuoso abbraccio è assicurare che da parte nostra non resteranno soli in quell’impegno.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 4 ottobre 2010

Riflessioni e proposte sulla futura associazione “vittime delle forze dell’ordine”

Nel quinto anniversario dell’uccisione di Federico Aldrovandi, a Ferrara si sono riuniti i familiari di alcune “vittime di stato”, ragazzi uccisi in vicende riconducibili, direttamente o indirettamente, a “malapolizia”. Negli interventi una frase è ricorsa ripetutamente: “queste cose non devono più succedere”. Parole che fanno tornare alla mente la petizione “mai più come al G8”, promossa dai comitati Piazza Carlo Giuliani e Verità e Giustizia per Genova, e consegnata al Senato il 30 giugno 2005.
Riflettere sull’analogia, su questo auspicio comune alle due occasioni (“casi del genere non si ripetano più”) è agghiacciante se si pensa che il 25 settembre al tavolo dei relatori erano presenti testimoni di casi tutti successivi al G8 genovese e a quella petizione (ovviamente con l’eccezione di Haidi Gaggio Giuliani, la prima ad attivarsi, dopo il 20 luglio 2001 affinchè nascesse una rete di relazioni fra le “vittime di stato”).
La prima, e amara, constatazione conseguente è che quanto fatto finora è stato insufficiente. La seconda, più importante, è che affermare “queste cose non devono più accadere” deve essere il terminale – e non la partenza – di un percorso, fatto di proposte e iniziative che, partendo dal basso, obblighino la politica a scelte responsabili e concrete. Proposte che, ad onor del vero, con poche integrazioni potrebbero essere proprio quelle della petizione del 2005, che finora hanno trovato poco spazio sulla scena politica. Del resto è noto ad esempio, e ne ho scritto in passato, il rifiuto del governo di aderire ad alcune raccomandazioni del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra cui l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Ma va ricordato che l’Italia “fa spallucce” sull’argomento da più di vent’anni: la convenzione delle Nazioni Unite fu firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. Questo per dire che l’ignavia del mondo politico è trasversale e tutt’altro che recente, fatte salve lodevoli eccezioni.

Proprio la politica è stata una sorta di spettro incombente, sul convegno di Ferrara e sull’idea che i familiari si riuniscano in un’associazione rendendo stabile e formale quella rete già esistente nei fatti e nei rapporti umani. Alcuni preferirebbero un approccio totalmente estraneo ad essa, in base a una sfiducia verso “il palazzo” che, va detto, è tutt’altro che infondata. Altri temono, anch’essi a ragione, di essere strumentalizzati.
Se sfiducia e timore sono comprensibili e, in certa misura, condivisibili, non devono però costituire un ostacolo al rapporto che, inevitabilmente, dovrà stabilirsi fra l’associazione e la politica, perché solo attraverso questo si potrà passare da una fase puramente rivendicativa all’ottenimento di risultati concreti. Il punto, semmai, è come costituire questo rapporto: su che basi? Con quali rapporti di forza?
La risposta in realtà è una sola: sarà l’associazione a dover tenere in mano bussola e timone del percorso, avanzando le proprie proposte senza che nessuno possa tentare di “metterci sopra il cappello”; i politici che aderiranno saranno solo l’interfaccia con le istituzioni.
Mi si potrebbe obbiettare che questo costituisce una sorta di strumentalizzazione al contrario, ma personalmente non mi sembra un problema. Ritengo infatti che i genitori di Aldrovandi e gli altri presenti a Ferrara non debbano sentirsi (o essere trattati come) “questuanti alla corte del re”, né semplicemente  persone da risarcire (in senso etico, s’intende) per “farli tacere”, ma – innanzitutto – cittadini. Ossia cellula fondamentale (e sovrana…) proprio di quell’entità collettiva chiamata Stato che, invece di tutelarli, li ha così tragicamente colpiti. E’ dunque sacrosanto che, in una democrazia rappresentativa, i cittadini “utilizzino” chi dovrebbe rappresentarli. Che purtroppo avvenga sovente il contrario è una constatazione amara che non nega l’assunto precedente; semmai lo rafforza, evidenziando il degrado della vita politica, argomento su cui c’è molto da dire ma ci porterebbe fuori tema.

Dunque, non devono esserci remore etiche da parte dell’associazione nello “strumentalizzare” (in senso etimologico: utilizzare qualcuno per il raggiungimento di un fine) i politici. L’operazione in senso contrario andrà sventata, ma prima bisogna essere consapevoli della sua duplice versione.
Sulla prima (i politici che tenteranno di “mettere il cappello” sulle proposte dell’associazione) ho già detto. La seconda è più insidiosa e speculare alla prima: alcuni sottolineeranno che tali proposte (per citarne due scontate: inserimento del reato di tortura e codici di riconoscibilità delle forze dell’ordine) sono già state avanzate dalla sinistra, e nel migliore dei casi sosterranno che i familiari delle vittime sono inconsapevoli strumenti di una battaglia di parte. Credo stia all’associazione riuscire a connotare le proprie proposte come un fatto di civiltà che prescinde dagli schieramenti.
Mi sia consentita però una riflessione a margine. Non credo che l’indipendenza dalla politica sia un valore assoluto e non ho mai trovato la parola “bipartisan” particolarmente attraente. Peraltro, l’opposto di bipartisan è partigiano, termine che pure nel Paese bislacco che è diventato l’Italia dovrebbe rappresentare qualcosa di cui andare fieri. Incidentalmente, è il caso di ricordare che il 25 settembre, oltre a ricorrere l’anniversario dell’uccisione di Aldro, è la data di nascita (nel 1896) di Sandro Pertini. So che non c’entra nulla, ma cito la coincidenza per due motivi. In primo luogo, è il mio modo di ricordare (seppure in modo “ingenuo”, ma visto che nessuno l’ha fatto va bene anche così…) il più grande Presidente che l’Italia abbia avuto. In secondo luogo, si tratta di sottolineare che certe proposte non sono “di tutti”, ma patrimonio culturale di una parte. Se su di esse si raccoglierà un consenso ampio e trasversale, se una petizione della futura associazione sarà sostenuta da esponenti del centrodestra, non lo troverò né spiacevole né paradossale ed accoglierò quel sostegno con soddisfazione. Ma, allo stato attuale, è doveroso ricordare che per la destra – almeno in Italia – esiste un problema culturale nel rapporto verso le forze dell’ordine, quasi una sudditanza acritica. Prese di posizione personali di segno contrario non vanno negate e sono da guardare con rispetto, ma per dirsi colmata quella distanza culturale ci vorrà tempo. Sarei lieto se proprio l’associazione fosse la scintilla che consentirà di innescare quel percorso.

Per entrare ancor più nel merito delle proposte da avanzare, sono costretto ad un’ulteriore riflessione, forse un’altra divagazione.
Molto spesso, nei casi Aldrovandi, Cucchi eccetera, la discussione si incaglia spesso sul cosiddetto tema delle mele marce e sulla sostanziale integrità delle istituzioni cui si dovrebbe rispetto (“a prescindere”, direbbe Totò) e chi mette in discussione la doverosità o l’automatismo di quel rispetto viene additato come pericoloso sovversivo. Trovo tutto questo fuorviante: sono le istituzioni a essere a servizio dei cittadini, a dover rappresentare e rispettare i cittadini, e non viceversa. Se con rispetto delle istituzioni si intende il riguardo dovuto alle forme e alla sostanza della democrazia che le genera, bene (in fondo, in questo senso i cittadini rispettano se stessi…); se invece si intende la venerazione di un Totem, di una sorta di divinità “superiore” e distante dalla gente, nulla potrebbe interessarmi di meno.
Riguardo le mele marce, poi, ritengo stucchevole interrogarsi se nel cesto esse siano 2, 3 o 8 su 10. Nel banale esempio ortofrutticolo, nessuno si sognerebbe di chiedere spiegazioni alle mele (marce o sane), ma parlerebbe direttamente al contadino che sovrintende al frutteto, col dovere di mettere sul mercato solo i frutti sani. Certo, sarebbe buona cosa avere la garanzia che questo abbia l’onestà di non farci pagare la frutta immangiabile, ma meglio sarebbe sapere che ad ogni raccolto farà di tutto affinchè sul mercato arrivino solo prodotti buoni.
L’esempio, l’ammetto, è assai privo di originalità, ma serve per ricordare un elemento quasi mai affrontato quando si parla di “vittime di stato”: la necessità di una formazione preventiva delle forze dell’ordine (la categoria va intesa in senso più ampio: polizia, carabinieri, ma pure agenti penitenziari ecc) alla cultura del dialogo, alla consapevolezza della responsabilità nell’utilizzo della forza, ai principi della nonviolenza.
In altre parole, sarebbe già un passo avanti sapere che le mele marce non debbano più godere di sacche di impunità, ma sarebbe assai più confortante se ad ogni raccolto si vigilasse affinchè queste non debbano nuovamente infettare il cesto. La certezza della fine dell’impunibilità è sacrosanta, ma non basta se si limita a stabilire che d’ora in poi gli abusi saranno puntualmente puniti; molto meglio attrezzarsi affinchè gli abusi vengano impediti. Gli aspiranti “Rambo” non solo devono sapere che loro comportamenti scorretti non saranno tollerati, ma soprattutto devono essere consapevoli, preventivamente, che non troveranno più nelle forze dell’ordine uno spazio accogliente.

Se le premesse di questo mio intervento sono state lunghe (ma, ritengo, necessarie), molto più breve è l’elenco delle proposte a mio avviso da avanzare; ad alcune ho già accennato e in sostanza sono quelle su cui si ragionava già ai tempi della petizione “mai più come al G8”:
- adeguare il nostro ordinamento alle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, introducendo il reato di tortura.
- L'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti avvenuti nel 2001, durante il vertice G8 di Genova e, precedentemente, il Global Forum di Napoli.
- Formazione professionale delle forze dell’ordine finalizzata a promuovere una coscienza civica e deontologica conforme a funzioni difensive e nonviolente.
- L'impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
- La definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine.

A queste, aggiungerei almeno le seguenti:
- l'istituzione di un organismo "terzo" che vigili sull'operato dei corpi di polizia (un po’ sulla falsariga della commissione che vigila sugli episodi di “malasanità”).
- Stabilire che nei casi in cui un cittadino segnali un qualsivoglia addebito a carico di un esponente delle forze di polizia le indagini siano affidate a una struttura che garantisca imparzialità e terzietà, e non dagli stessi colleghi di chi è sottoposto ad indagine.
- Rendere indipendenti le indagini amministrative da quelle penali. Troppe volte, infatti, è successo che a fronte di denunce i vertici delle forze dell’ordine si trincerassero dietro l’attesa delle decisioni della magistratura per non intraprendere azioni disciplinari (sospensioni dal servizio e simili).

Sicuramente c’è altro da aggiungere. Vorrei che si prendesse il mio intervento come un semplice contributo, qualcosa, spero utile, su cui ragionare per cominciare una discussione sull’argomento.

Francesco “baro” Barilli