giovedì 25 novembre 2010

Varie ed eventuali…

In questi giorni alcune cose mi hanno fatto riflettere, ma mi sembrava non meritassero spazio tempo ed energie per un articolo. O comunque, se pure lo meritavano, ero io a non avere quel tempo e quelle energie. Dunque, ecco solo alcune riflessioni a ruota libera.

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L’addio di Mara Carfagna al PDL
Preciso subito che la faccenda in sé non m’interessa molto, di conseguenza ne ho letto poco: giusto quanto basta per capire che si tratta di una lotta di potere interna al PDL in Campania, che riverbera su scala nazionale. Se poi si tratti davvero di un addio o solo di una burrasca momentanea è altra faccenda (da quanto sembra è possibile una ricomposizione della frattura) e pure questa non mi tocca.
Però la curiosità mi ha spinto a dare un’occhiata in edicola a come presentavano la notizia Il Giornale e Libero: come m’aspettavo, i toni oscillano fra il livoroso e l’ironico contro l’attuale Ministro. Non si può parlare, almeno non ancora, di “macchina del fango” o di “metodo Boffo”; semmai di una loro applicazione light.
Certo, dà da pensare che chiunque si discosti dalla linea del Principe sia oggetto di simili “attenzioni”. Mara Carfagna, va ricordato, è stata una delle figura più vicine a Berlusconi, specie a livello di immagine. Ricordo quando (mi sembra in occasione del G8 all’Aquila, ma potrei sbagliarmi) fu scelta per fare gli onori di casa, a mo’ di immaginetta: anche “la ministra più bella del mondo” può essere liquidata in fretta, se diventa scomoda.
Tutto questo, però, mi serve solo per dire che chi si lamenta della “macchina del fango” sarebbe più credibile oggi se avesse fatto sentire la propria voce qualche anno fa. Precisamente, quando la macchina fu mobilitata per insultare quella brava persona (e ottimo giornalista) che era Enzo Baldoni. Per chi volesse saperne di più, cliccare qui.

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“Vieni via con me” e Liberazione
Su Liberazione del 17 novembre, Roberta Ronconi si pone alcune domande sul successo della trasmissione condotta da Saviano e Fazio su Rai3, concludendo così: “E’ un evento che non può essere ignorato, che ci regala molte domande e tanti buoni motivi per pensare. Là fuori c’è un’Italia che davvero non conosciamo abbastanza”.
Alcune precisazioni:
1. Su Saviano non ho un’opinione ben definita. Gomorra ce l’ho fermo sul comodino da quando me l’hanno regalato. Il Saviano televisivo l’ho visto in poche pillole (ho un pessimo rapporto con la TV; appena posso la evito e anche quando la guardo m’annoia in fretta), ma in quelle piccole dosi l’ho trovato insipido. C’è di peggio, per carità, ma non m’ha entusiasmato, e “Vieni via con me” non l’ho vista. Ho invece letto alcuni suoi articoli su Repubblica e mi sono piaciuti. Nel complesso: troppo poco per esprimere un giudizio su di lui, come persona o come scrittore.
2. Prima ancora dell’articolo di Ronconi avevo letto, sempre su Liberazione, un articolo molto critico dopo la prima puntata di “Vieni via…” (a firma, mi pare di Paolo Persichetti).
Nel complesso, ho trovato spiacevoli le critiche di Liberazione a Saviano (Persichetti, preciso, è stato molto più duro di Ronconi).
Dirò la mia impressione (che, non conoscendo Saviano – come ho spiegato, può essere sbagliatissima). Mi sembra che a sinistra si tema chi può intercettare un certo malcontento verso il centrodestra senza traghettare voti nella nostra direzione.
Un timore giustificato? Probabilmente sì; forse persino legittimo, in tempi in cui anche la politica deve fare i conti con un bacino di utenza e di attenzione sempre più limitato, in cui il rischio di vedersi “sfilati di tasca” i propri potenziali elettori è sempre alto.
Però resta l’impressione che Ronconi abbia ragione nel porre un problema (“c’è un’Italia che non conosciamo abbastanza”) di cui intuisce l’entità senza individuarne però i dettagli. Forse il successo di Saviano può essere spiegato semplicemente col vuoto (televisivo, informativo e culturale) che c’è attorno: se molti telespettatori scelgono “Vieni via con me” è solo perché non c’è molto di meglio in giro…
Ma tutto questo meriterebbe altri approfondimenti. Vedremo in futuro…

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Berlusconi dice ai suoi: “ci vuole più sobrietà”
Più o meno è come se Totò Riina dicesse: “ragazzi, c’è una criminalità in giro che non se ne può più!…”.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 17 novembre 2010

Sentenza sulla strage di Piazza della Loggia: un commento

In questi giorni a Brescia sono giunte alla conclusione, o almeno a uno snodo cruciale, due vicende molto diverse fra loro. Ma se per la prima storia questa conclusione sembra dischiudere una speranza, per la seconda appare simile a una pietra tombale.
Il 15 novembre gli ultimi 4 operai (all’inizio erano 6) sono scesi dalla gru dove stavano lottando per i diritti propri e di tutti i lavoratori migranti (e in fondo anche per i nostri). Il 16 novembre la corte d’Assise bresciana ha emesso il verdetto di primo grado sulla strage di Piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974 (a pochi passi da dove abbiamo assistito alla protesta dei migranti) durante una manifestazione indetta in risposta a episodi di violenza neofascista: gli imputati sono stati tutti assolti.

Queste due storie sono distanti, per tematiche e contesto temporale. Sembrerebbero avere come solo comune denominatore la città in cui sono avvenute. Eppure tracciare un parallelo non è impossibile.
La più recente è una storia piccola e attuale, sospesa a 35 metri dal suolo, dal resto di un’Italia che preferirebbe non vederla. La più antica è appesa a un passato di ormai 36 anni fa. Ma anche questa sembra sospesa a tanti metri di altezza, lontano dagli occhi e dal cuore del Paese.
Nei giorni scorsi il PM Di Martino aveva iniziato la propria requisitoria con parole amare che oggi, dopo l’assoluzione, suonano profetiche: “Tra qualche giorno calerà il sipario su questo processo, celebrato su un palcoscenico abbastanza ristretto, che va poco al di là delle mura di questo palazzo: al di là della città di Brescia il processo non ha avuto ripercussioni. A questa indagine abbiamo dedicato uno spazio rilevante della nostra vita. Per cercare la verità…”.
Quasi uno sfogo umano di chi ha dedicato vent’anni allo studio degli atti, e forse s’aspettava un sussulto di dignità da parte di quei media molto attenti a seguire le cronache processuali (purchè si tratti di casi di “nera” che alzano l’audience…). Ma la disattenzione dei media è rimasta uno scoglio con cui si è scontrato il processo. E lo spazio dedicato alla sentenza non suona come un risarcimento, ma come un’ulteriore beffa. Del resto, per dirla ancora con le parole di Di Martino, “Questo è un processo che non piace, perché sono emerse cose che danno fastidio, che mettono in cattiva luce le istituzioni di allora. Ne esce un’immagine sconcertante: non c’è uomo dell’eversione di destra che non avesse un referente nei servizi segreti”. Parole che non sono scalfite dall’esito processuale.

Dopo un centinaio di udienze, in cui si sono vagliate le circa 800.000 pagine del fascicolo sulla strage e ascoltate numerosissime testimonianze, la corte ha dunque dato la propria risposta a carico dei 5 imputati rimasti (Giovanni Maifredi è deceduto nel 2009). Uomini dell’estrema destra come Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Pino Rauti; elementi ambigui come Maurizio Tramonte (“fonte Tritone” del SID); l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino (capitano all’epoca dei fatti): tutti assolti, seppure con l’art 530 del codice di procedura penale, corrispondente alla vecchia “insufficienza di prove”.

Quasi quarant’anni fa Brescia seppe reagire alle provocazioni fasciste. La manifestazione del 28 maggio 1974 fu la risposta dei sindacati, degli antifascisti, dei lavoratori: la strage non tolse forza a quella risposta, semmai la rafforzò.
Oggi, una parte della stessa comunità si è mobilitata a sostegno di 6 operai. Con la stessa determinazione e la stessa dignità.
Nei prossimi giorni i “migranti della gru” conosceranno il proprio destino: resta alto il timore che possano essere espulsi. Anche la strage di piazza della Loggia avrà la propria risposta definitiva dai successivi gradi di giudizio, ma in questo caso l’attesa sarà più lunga e la speranza di un esito diverso da quello della corte d’Assise è assai esile.
Noi possiamo solo sperare che queste 2 battaglie siano vincenti. Che i “6 della gru” ottengano i propri diritti e i familiari delle vittime di piazza della Loggia, in una lotta che appare ancora più difficile, ottengano giustizia. Non sarà però l’esito a rendere utili o meno queste battaglie, ma la consapevolezza che si tratta di sfide entrambe attuali e patrimonio di tutti. La loro testimonianza passa anche attraverso queste parole e l’attenzione e la solidarietà che sapremo garantire. Ai “6 della gru” come ai familiari delle vittime della strage, ingiustamente feriti da questa sentenza.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 4 novembre 2010

"Questa non si chiama giustizia". Intervista a Lucia Uva, sorella di Giuseppe "Pino" Uva

Varese, 14 giugno 2008. Sono circa le 3 di mattina quando Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vengono fermati, in stato di ebbrezza, dai carabinieri. Portati in caserma, Biggiogero sente le urla dell'amico provenire da un'altra stanza. Alle 5 i militari chiedono l'intervento di un'ambulanza. In ospedale richiedono un TSO e il trasferimento nel reparto psichiatrico, dove il 43enne Uva muore poche ore dopo per arresto cardiaco. Dagli esami tossicologici risultano somministrati farmaci controindicati in caso di assunzione di alcool. Sarebbe questa la causa del decesso, che lascia però aperte alcune domande: in primo luogo se Uva, fra le 3 e le 5 di quella mattina, abbia subito un assurdo pestaggio; in secondo luogo se i traumi eventualmente riportati abbiano contribuito a causarne la morte.
Su questi aspetti si è concentrata l'attenzione dei familiari, a cominciare dalla sorella Lucia, che non ha risparmiato critiche all'indirizzo dei pm titolari dell'inchiesta. Infatti, da quanto apprendiamo dal quotidiano La Provincia di Varese, la Procura sembra avere un orientamento diverso: i pm sono convinti che la sola causa della morte sarebbe da ricercarsi nella colpa di due medici, ossia nell'incauta somministrazione del tranquillante che avrebbe provocato l'arresto cardiaco. Sarà il giudice a stabilire, nell'udienza fissata al prossimo 1 dicembre, in merito al rinvio a giudizio, ma le premesse fanno supporre che il procedimento sarà incentrato solo sui due medici, inquadrando la morte di Giuseppe Uva in un "normale" caso di "malasanità".
Ciò nonostante, quella di "Pino" Uva è innanzitutto la storia di un uomo affidato alle mani dello Stato (nel suo caso prima ai carabinieri, poi a una struttura sanitaria) e riconsegnato morto ai propri familiari. Conseguentemente è un caso in cui, indipendentemente dall'accertamento di responsabilità penali, è legittimo attendersi risposte dallo Stato, contrassegnate dalla massima trasparenza. Tutte considerazioni che portano ad accostare la vicenda, pur con i necessari distinguo, a fatti più noti all'opinione pubblica (Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per citare i due più significativi) in cui, al contrario, la trasparenza non ha contraddistinto l'azione dello Stato.
Di tutto questo parliamo con Lucia, sorella di Pino.

Tu quando e come hai saputo della morte di Giuseppe?

Quella mattina ero partita in vacanza con mia figlia Angela e i miei nipotini. Alle 7:15 ricevo una telefonata da mia sorella Mara: mi dice che Pino si trova in ospedale, mi racconta che lo avevano portato lì i carabinieri perché prima lo avevano fermato ubriaco, e poi l'avevano accompagnato nel reparto psichiatrico in quanto "sragionava". Ho risposto a Mara di andare subito in ospedale per vedere cosa stava succedendo e di farmi sapere...
Dopo, ricordo tante telefonate. All'inizio Mara mi ha tranquillizzata: "Lucia, stai tranquilla, Pino sta dormendo. Se senti come russa, sembrano mesi che non dorme!... Ci hanno detto di non svegliarlo e di ritornare oggi pomeriggio alle 3". Tutto questo verso le 10:00, ero appena arrivata al casello di Senigallia; poi alle 11:10 mi ha chiamato mio figlio Alessandro: "mamma, zia Carmela ti ha cercato... Zio Pino è morto...". Non potevo crederci, pensavo a uno scherzo e gli ho riattaccato il telefono in faccia. Subito dopo ho richiamato Mara che, piangendo, mi ha confermato la notizia. Alle 15:45 eravamo in obitorio.

Una volta giunta all'ospedale, hai potuto parlare solo con i medici, oppure sei riuscita a chiedere spiegazioni anche ai carabinieri che avevano arrestato Giuseppe?

A dire il vero con i medici non ho parlato, lo avevano già fatto le mie sorelle. Io alle 17 sono andata al posto di polizia del pronto soccorso, ma loro non sapevano nulla della morte di mio fratello, non erano stati avvertiti. Non sapevano neanche che era stato fatto un ricovero coatto, un Tso, con Pino accompagnato lì dagli agenti. So che l'ispettore Talotta ha fatto subito delle telefonate per avvertire il Magistrato di turno, che quella notte era Agostino Abate. Purtroppo da quel momento il dottor Abate non ha ancora fatto chiarezza sulla morte di Pino, a mio avviso.

Quale è stata la prima versione ufficiale?

Ci hanno detto che aveva avuto un arresto cardiaco, un infarto: questo è quanto ci hanno detto, tutto qui. Poi sono spariti tutti, non si è fatto trovare più nessuno...

So che quando hai visto il corpo hai avuto subito molti dubbi su quella versione...

Sì, quando l'ho visto Pino era irriconoscibile: pieno di botte, il corpo tutto viola, con escoriazioni su entrambe le gambe, la mano destra aveva una nocca enorme... Poi ricordo le sue costole, sul lato sinistro, che sporgevano fuori in modo innaturale. Il suo corpo era privo delle mutande, ma aveva invece un pannolone: quando gliel'ho tolto era sporco di sangue, i testicoli erano viola... Quel corpo me lo sono guardato tutto; non era quello di uno che poteva essersi prodotto le lesioni da solo (ti ricordo che si parlò molto di suoi gesti autolesionisti, per giustificare le ferite): si vedeva che quelle erano botte date di santa ragione... E poi dovrebbero spiegarmi come può riuscire uno a conciarsi così da solo, proprio mentre è controllato da tanti uomini in divisa. Mi sembra una ricostruzione priva di logica...

Cosa ti ha raccontato Alberto Biggiogero, circa quella notte?

Mi ha detto che quella sera lui e Pino avevano bevuto un pò ed erano in giro a festeggiare. Aveva vinto la Nazionale, e loro due, per gioco, stavano transennando la via Dandolo (il giorno dopo era la festa delle ciliegie). A un certo punto è arrivata una macchina dei carabinieri. Uno di questi conosceva Pino: mentre lo inseguiva gli ha urlato qualcosa tipo "Uva, proprio te cercavo stasera!". Dopo pochi minuti sono arrivate due vetture della polizia e tutti insieme sono andati in caserma; Alberto viene fatto entrare in una delle volanti della polizia, mentre fanno salire Pino nell'auto dei carabinieri. Dentro la caserma i due amici restano separati; Alberto è in una stanza, controllato a vista dagli agenti, e sente Giuseppe, in un'altra stanza, urlare "basta, basta". A un certo punto Alberto riesce ad approfittare della momentanea assenza degli agenti e chiama il 118 per chiedere aiuto, ma subito dopo i carabinieri hanno minimizzato al personale del 118 quanto stava accadendo ("sono solo due ubriachi...") e poi hanno tolto il cellulare ad Alberto...

Tramite il tuo avvocato, Fabio Anselmo, hai prodotto perizie di medici che sostengono la tesi secondo cui la morte fu causata non da errori medici (o almeno non solo da quelli), ma dai traumi che Pino avrebbe subito nelle ore precedenti il decesso. Cosa pensi della decisione del gup di non includere nel fascicolo quelle perizie?

Non posso accettare questa ricostruzione. Non è solo colpa dei medici, mi sembra una versione utile solo a nascondere la verità. A mio avviso il PM Abate ha voluto proteggere i carabinieri. Una cosa è certa: dopo 30 mesi non mi hanno ancora dato risposte. Cosa ci faceva Pino in caserma con 10 uomini in divisa? Perché aveva i pantaloni sporchi di sangue, dietro e davanti al cavallo? Perché era senza slip, e dove sono finiti? Perché il magistrato non ha fatto analizzare i pantaloni?
Nel "caso Uva" mi sembra abbiano fatto di tutto per nascondere quanto successo. Questa non si chiama Giustizia...

Qualora la magistratura confermasse la decisione di incentrare il processo solo sulla responsabilità dei medici, quali sarebbero i passi successivi che la vostra famiglia intende intraprendere?

Posso solo dirti che andremo avanti nell'impegno di scoprire la verità. Lo dobbiamo a Pino. Sicuramente in questa battaglia ci aiuterà Fabio, il nostro avvocato.

C'è un momento in cui hai deciso di far diventare pubblica la tua ricerca di verità?

Sì... Una sera stavo seguendo un servizio sul processo per l'uccisione di Federico Aldrovandi. Rimasi sconvolta, perché sentivo le versioni dei poliziotti: erano le stesse cattiverie e falsità che avevo sentito dire su mio fratello. Le solite cose: le lesioni alle vittime attribuite ad autolesionismo, insinuazioni sul loro stile di vita (il tossico, l'ubriacone...), la negazione dell'evidenza...
La mattina dopo chiamai Lino, il papà del povero Federico, gli dissi che anch'io stavo vivendo una tragedia come la loro, gli raccontai la mia storia e chiesi consiglio su cosa potevo fare. Mi rispose di cercare di farmi ascoltare dai giornalisti della mia città, di chiamare Beppe Grillo, di non arrendermi... Poi ricordo una domenica, quando sentii la vicenda di Stefano Cucchi: il lunedì chiamai Rita Cucchi e anche a lei dissi che stavo vivendo lo stesso dolore. Pure lei mi disse "devi denunciare, non dobbiamo arrenderci!". E così ho ricominciato da capo la mia battaglia.
Sono andata a Ferrara da Fabio Anselmo (che era già l'avvocato delle famiglie Cucchi e Aldrovandi). Lui, dopo aver visto i pochi fogli del fascicolo su mio fratello, si è impegnato subito per fare ripartire le indagini: dopo 24 mesi in cui non era stato fatto quasi niente, lui in pochi mesi è riuscito a smuovere quei PM dal loro torpore. Devo un grosso grazie a lui e anche, voglio ricordarlo, a Luigi Manconi.
Ora vediamo cosa succederà... Io dico solo che mio fratello, come tutte le altre "vittime di stato", merita giustizia. E ti dirò che, secondo me, non è solo una questione di giustizia, ma di dignità: una dignità che va restituita a Pino e a tutti quelli come lui, prima ammazzati e poi ricoperti di fango...

Francesco "baro" Barilli, 2 novembre 2010