sabato 24 maggio 2008

Sulla signora Franzoni e sul “caso Cogne”

Non ho mai parlato di Annamaria Franzoni e del caso Cogne. Il circo mediatico che si solleva su taluni fatti di cronaca nera m’ha sempre infastidito, un incrocio di morbosità e sciacallaggio. Preciso quindi che nemmeno oggi entrerò nel dibattito circa la colpevolezza o meno della signora Franzoni nell’omicidio del figlio. Non sono insensibile alla morte di un bambino, ma non ho elementi per pronunciare tesi pro o contro la sentenza resa definitiva dalla Cassazione, non avendo seguito la vicenda.
Sul tema processuale mi limito dunque a un’osservazione. C’è sicuramente grande distanza fra credenti e atei (o agnostici, come me) a proposito della giustizia divina, ma su quella umana penso siamo tutti d’accordo nel dire che si tratta di cosa ben diversa. Se esiste, la giustizia divina è perfetta e infallibile per definizione; quella umana è l’esatto contrario. Ai giudici si deve chiedere di operare con serenità, rigore intellettuale (da non confondersi con la durezza) e imparzialità; il resto (a meno che non si trovi un omicida in flagranza di reato e con una pistola ancora fumante in pugno…) è da inserire nel contesto di imperfezione e fallibilità proprio degli esseri umani.
Con questa premessa, non so se Franzoni sia o meno colpevole, né m’interessa disquisire sull’equità della condanna secondo una distorta mentalità che vorrebbe, quale misuratore della reale correttezza di una sentenza, il pallottoliere degli anni. E’ un altro l’aspetto della vicenda che mi ha colpito in questo epilogo: l’enfatizzazione del dramma umano della condannata (al di là delle sue colpe, reali o meno che siano) e dei suoi parenti, a cominciare dai figli che si vedranno divisi dalla madre per i prossimi 16 anni, fatti salvi i benefici premiali
In un periodo in cui la stretta securitaria, la richiesta di fermezza e di “tolleranza zero”, hanno preso il sopravvento, è buona cosa che un sentimento come la pietà si riaffacci alle coscienze. Temo però si tratti di un riflesso incondizionato dovuto al clamore (che innegabilmente – e legittimamente – la signora Franzoni ha cercato di utilizzare) creato attorno alla vicenda. Una vicenda che, fuori dalle aule giudiziarie, ha assunto contorni da romanzo dove si sono mescolati generi diversi: il thriller, il noir, lo splatter, la saga familiare.
Esistono in Italia più di 50.000 carcerati. Tra essi ladri di polli e colletti bianchi; scippatori e stupratori; recidivi e occasionali; criminali per scelta o per necessità. Al dramma della loro detenzione si aggiunge sempre quello di familiari, conoscenti, amici. Anche il criminale più incallito (e magari spregevole) può essere padre amorevole, madre premurosa, figlio affettuoso, amico affidabile. E la pena detentiva in tutti i casi si sovrappone ad una riflessa condanna al dolore per i congiunti.
Penso ci sarebbe da interrogarsi, quando si parla di certezza della pena quale unico fondamento del diritto, su come si stia parlando con leggerezza di comminare una punizione NON SOLO a chi ha sbagliato, ma a tutti coloro il cui mondo in qualche modo gravita attorno a quello della persona detenuta.
Alcuni anni fa, il 14 marzo 2004, ho intervistato il professor Franco Della Casa, docente di diritto penitenziario all’Università di Genova. A chiusura di quell’incontro, a mia domanda circa un suo "messaggio" generale sul “pianeta carcere”, sconosciuto alla maggioranza delle persone, Della Casa rispose: “Io penso che il carcere non dovrebbe essere qualcosa di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella società civile. Il carcere non dovrebbe essere qualcosa che allontaniamo e confiniamo nell’angolo più oscuro della nostra coscienza, ma qualcosa che fa parte della nostra società, un’istituzione per il momento necessaria che dovremmo sforzarci tutti di migliorare. Perché il carcere non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, è un luogo utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe meglio un impegno civile, costante e continuo”.
Penso siano parole su cui riflettere. Nel frattempo, saluto con piacere il ritorno del sentimento di pietà sulle vicende carcerarie, temendo però finisca presto riposto in un cassetto, al prossimo fatto di cronaca.

1 commento:

  1. Credo che bisognerebbe prima interrogarsi su cosa lo Stato fa per le vittime di certi reati. Assistenza psicologica zero,assistena economica zero,risarcimenti che spesso non arrivano, sentenze ingiuste e sfregi di ogni tipo.occupaimoci prima delle vittime e poi dei carcerati che per carità, sono degli esseri umani,ma se s trovano in carcere quasi sempre è perchè hanno fatto qualcosa per finirci.E il fatto di vere famiglia non deve significare nulla, altrimenti bisognerebbe considerare che pure le vittime hanno una famiglia, no?Altrimenti si fa come nel film con Sofia Loren dove lei per non essere arrestata continua a farsi mettere incinta...

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