Aldo Bianzino, 44 anni, viene rinchiuso la sera del 12 ottobre scorso
nel carcere di Capanne a Perugia, per il possesso di alcune piantine di
canapa indiana. Viene trovato senza vita la mattina del 14 ottobre.
Aldo l’ho potuto vedere solo in fotografia; suo padre Giuseppe l’ho
incontrato la prima volta a Lodi, un mese fa. L’ho conosciuto tramite
Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, anche lui deceduto in carcere
l’11 luglio 2003 (sulla sua morte si sono recentemente riaccese speranze
di verità, dopo la riapertura del caso). Quella sera Giuseppe ha
abbracciato anche Haidi Giuliani, e poi Danila Tinelli e Maria Iannucci,
rispettivamente madre di Fausto e sorella di Iaio. Incroci di destini
fatti di dolorose perdite e di mancanza di giustizia, un affetto e una
solidarietà che sorgono spontanei.
Dal confronto con le foto del
figlio, risulta chiara la somiglianza fra Aldo e Giuseppe. Alti, magri,
grandi occhiali. Anche caratterialmente Giuseppe ricorda quel che si
racconta dell’indole del figlio. Mitissimo, ma non per questo meno
risoluto nel combattere le ingiustizie. Nei gesti e nel sorriso i segni
di una cordialità e di una serenità che la tragedia ha incrinato ma non
cancellato. “Mio figlio era molto aperto, disposto a parlare con tutti”, mi racconta. “Già
da bambino, bastava che qualcuno lo chiamasse e lui gli sorrideva e lo
seguiva. In questo era simile a me, o almeno a come ero una volta. Oggi
sono cambiato. Una volta sorridevo sempre e qualcuno mi chiedeva ‘ma
cos’hai da ridere?’. Io semplicemente sorridevo perché mi sembrava che
la vita mi sorridesse. Oggi sorrido poco, quella domanda non me la
rivolgono più…”.
Lo incontro nuovamente nella sua casa di Vercelli. Lui ha voglia di parlare e io di dargli voce.
Tu quando vieni a sapere della morte di Aldo?
Domenica
pomeriggio, quando era già morto da alcune ore. Mi ha telefonato Gioia,
la sua prima moglie, madre dei due figli maggiori (Aruna ed Elia).
All’inizio ha chiesto se Aruna era lì da me, poi ha tergiversato un po’,
non sapeva come dirmelo. Prima ha detto che mio figlio aveva avuto un
infarto, solo dopo qualche minuto ha aggiunto che era morto, ma non mi
ha specificato i dettagli, non ha parlato del carcere, non se la
sentiva. In quel momento ha accennato solo a mancanze nei soccorsi. Mia
moglie era in giardino, gliel’ho dovuto riferire io. Non sai cosa
significa dire una cosa del genere a una madre… Ho cominciato a sapere
tutta la storia pochi giorni dopo. Poi, dopo altro tempo ancora, è stata
sempre Gioia a dirmi “adesso devo raccontarti tutto”. Mi ha parlato
dell’autopsia, dei 4 ematomi cerebrali, dei danni al fegato e alla
milza. In quel momento si diceva pure di due costole rotte, circostanza
che però sembra essere stata smentita dall’autopsia successiva. Nel
frattempo erano cominciati i contatti con Roberta, la sua compagna
(arrestata assieme a lui e scarcerata subito dopo la morte di Aldo), e
la nostra battaglia comune per capire cosa fosse successo in quella
cella.
Ti sei fatto qualche idea su quanto accaduto?
Ho
due ipotesi. Forse i suoi carcerieri pensavano davvero di trovarsi di
fronte a uno spacciatore. Non avendo trovato denaro in casa di Aldo e
Roberta (la perquisizione aveva raccolto solo trenta euro), hanno
pensato avessero nascosto “il malloppo” da qualche parte. Per questo può
darsi l’abbiano malmenato, per farlo confessare. L’altra ipotesi si
basa sull’idiosincrasia di mio figlio verso strutture chiuse come il
carcere. Aldo era molto tranquillo e aperto di carattere, ma incapace di
comportamenti servili e non incline al rispetto delle gerarchie. In un
ambiente chiuso e codificato come dev’essere il carcere si crea quella
subordinazione che pretende ritualità, rispetto ossequioso verso gli
ordini: una realtà impossibile per lui. Magari questo l’ha portato a
qualche reazione e di conseguenza può essere scattata la voglia di
dargli “una lezione”.
Cosa puoi dirmi sullo stato delle indagini?
Il
magistrato che aveva in mano l’inchiesta era lo stesso che l’ha fatto
arrestare. Un arresto che considero assurdo non solo per l’assoluta
mancanza di pericolosità di persone come Aldo e Roberta, ma anche perché
avvenuto di venerdì pomeriggio, costringendo quindi due persone a
restare in carcere inutilmente per almeno tre giorni. Tutto questo senza
poter vedere un giudice e chiarire la loro posizione, e per di più
lasciando Rudra e la nonna (ossia il figlio quattordicenne di Aldo e
Roberta, e una novantenne in precarie condizioni di salute)
completamente isolati e abbandonati a se stessi. Sulla sua morte è stata
chiesta l’archiviazione, a cui si è opposta tutta la famiglia, coi
rispettivi avvocati. Non so cosa aspettarmi delle indagini, seppure da
ignorante in materia legale ci vedo troppi buchi. Io pensavo che in un
carcere, almeno nei corridoi e nei luoghi di passaggio, ci fosse una
vigilanza costante, anche tramite telecamere, eppure ancora oggi non si
sa chi sia entrato e uscito da quella cella. Prima abbiamo accennato a
incongruenze nelle autopsie e voglio farti un esempio specifico. Le
lesioni al fegato le hanno giustificate con una manovra di rianimazione
maldestra, fatta con imperizia e troppa violenza. Ammesso che si possa
credere a questa versione, è possibile che non si sappia chi ha operato
quel tentativo di soccorso?
Alla fine si sta
facendo strada la teoria di una morte per cause naturali, per rottura
aneuristica. Inoltre, si è parlato molto dell’assenza di lesioni
esterne…
L’aneurisma è un elemento di debolezza del
sistema circolatorio, che può starsene tranquillo per anni e poi
cedere. Cosa posso dirti?… Forse per deformazione professionale da
vecchio chimico ragiono in termini pratici, di impianti. Alla Thyssen
Krupp l’impianto faceva schifo, ma è successo qualcosa che l’ha fatto
scoppiare. Ecco, anche volendo credere all’aneurisma, io sono alla
ricerca di quel “qualcosa”. Nulla capita per caso. Sulla mancanza di
segni esteriori, tu pensi ci siano lesioni esterne nei prigionieri di
Guantanamo? O sui corpi dei poveracci passati nelle mani di Videla o
Pinochet per poi essere scaricati in mare?
La
storia di tuo figlio mi ricorda un panorama in cui la nebbia prima si
dirada e poi si riaddensa. Ci parla di una zona grigia nello stato dei
diritti, favorita dall'intreccio tra retorica securitaria e guerra al
diverso.
In questi tempi si fa un gran parlare di
sicurezza, peraltro cercando di distorcere la scala di importanza dei
fatti. Quando si parla di sicurezza e legalità non si parla dei morti
sul lavoro, che sembrano confinati in un altro pianeta, e neppure dei
grandi truffatori, che non sembrano destare quello che oggi viene
chiamato “allarme sociale”. Intendiamoci, capisco che il ladro che ruba
la pensione alla vecchietta che l’ha appena ritirata sia un problema
reale e da affrontare, ma non capisco quale allarme possa essere
determinato da uno che si fa uno spinello. Chi vive alle nostre spalle
rubando miliardi o guadagnandoli in modo poco pulito, al contrario, non è
considerato pericoloso. Tu mi parli di nebbia e di zona d’ombra ed è
corretto; io, al di là del dolore personale, la storia di mio figlio
l’ho vissuta come un’enorme contraddizione. Una contraddizione di quello
che una volta avremmo chiamato “il sistema”.
La
vicenda di Aldo ti ha creato un’idea in generale del mondo carcerario? E
come è cambiata, se è cambiata, la tua visione della giustizia?
Cosa
penso del carcere? Che è una cosa diversa se ti chiami Geronzi o
Bianzino. Può sembrare banale ma è così, è quel che sento. Quando oggi
leggo di tragedie successe nei CPT, di persone malmenate o morte “in
circostanze misteriose”, come si dice, provo la stessa sensazione:
carceri e CPT sono luoghi dove la persona perde i propri diritti. Per
questo è facile che lì dentro certe cose succedano, ed è difficile poi
scoprire la verità. E parlo di due luoghi che a torto si pensa debbano
tutelare solo chi sta fuori da chi vi è imprigionato. E’ falsissimo:
carcere e CPT dovrebbero tutelare pure chi sta dentro. Questo perché
anche chi viene rinchiuso in una di quelle strutture è sotto la tutela
dello Stato. Tutti, ma a maggior ragione quelli che, come Aldo, sono
reclusi senza aver subito una condanna e quindi vanno considerati
innocenti fino all’emissione della sentenza. Del resto ne abbiamo
parlato prima: quando si parla di sicurezza si parla di una sicurezza
monca e ambigua. Le morti in carcere sono tantissime. Non parliamo di
quelle nei CPT, visto che quei poveracci ormai sembrano appartenere a
una categoria subumana. Non parliamo di Carlo Giuliani: per lui hanno
ripristinato la pena di morte, direttamente in piazza. Una volta avremmo
parlato di “giustizia di classe”: forse dovremmo avere il coraggio di
dirlo anche oggi…
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