Maria dammi la mano, disse mio padre. Intendeva dire “dammi la mano, ho paura, sento che stanno per arrivare e questa potrebbe essere l’ultima volta che stiamo insieme”. Era il 1944 e mio padre era nascosto nel rifugio, in casa, sui colli del piacentino. Non ricordo se si trattasse di una botola ben occultata, sotto l’assito di legno del pavimento, o di un’intercapedine di fortuna, ricavata in una stanza. Comunque sia, lui sentiva i passi dei tedeschi, la loro voce tagliente e urlata (tagliente e urlata come sa essere la lingua dei tedeschi). Si era rifugiato lì con la fidanzata, Maria. Temeva che quelli potessero essere gli ultimi istanti con lei, così disse: Maria dammi la mano.
Invece no, non andò così. Mio padre me l’avrà raccontata non so quante volte quella storia. Sì, lui era nascosto. Col cuore in gola sentiva le voci e i passi e temeva che quella fosse la fine. Ma, in quell’anfratto buio, fra sé e la morte solo un assito di legno (orizzontale o verticale non importa) non era con la fidanzata – neppure so se ne avesse una, all’epoca – ma con uno dei suoi fratelli. Piero o forse Bruno. Mi sembra fosse Bruno, ma ormai non posso più domandarglielo.
Maria è stata la mia di fidanzata, oggi è mia moglie. E sono io, adesso, protetto da quell’assito di legno, col cuore in gola. O, almeno, se ci fossi vorrei essere lì con lei. E le direi “Maria dammi la mano, perché ho paura. Sento che stanno per arrivare e questa potrebbe essere l’ultima volta che stiamo insieme”.
Io non lo so se mio padre fosse armato, in quel rifugio. Mi sembra d’averglielo chiesto e che lui m’abbia risposto di sì, che se fosse stato necessario avrebbe sparato e avrebbe, come si dice, venduta cara la pelle. Ma non ne sono più sicuro. Sicuro sono che, da bambino, gli chiesi tante volte se avesse ucciso qualcuno, fra i fascisti, fra i nazisti. Rispondeva solo che, sì, qualche volta aveva sparato e forse qualcuno l’aveva beccato. Ma se ho ammazzato qualcuno, diceva, l’ho fatto perché andava fatto, non perché fosse bello.
Così mi diceva. E a me – bambino – non piaceva quella risposta. Perché io avrei voluto vedere mio padre come un eroe con in braccio il suo fucile (ma lui sparava col mitra, precisava) ad ammazzare i cattivi. Quella risposta mi sembrava un po’ codarda. Cioè, meglio, era contraria al mito che io volevo vedere in lui. E invece era una risposta bellissima. L’ho capito da grande, e quando sento chi dice “la violenza è sempre sbagliata, non risolve nulla”, penso alle sue parole. Dicono che la violenza può essere necessaria, ma a due condizioni: che la usi solo perché non hai altre soluzioni e che, soprattutto, dopo averla usata tu ti senta un po’ più schifoso di prima. Perché noi uomini facciamo sempre un po’ schifo, è bene ricordarcelo. Lo facciamo un po’ di più dopo che abbiamo usato violenza, anche se magari era proprio necessaria. Quando a volte vorrei essere più manicheo penso a quella frase. Non mi capita spesso – desiderare di essere manicheo, intendo – ma a volte sì: la vita è più semplice da decifrare se dentro di te poni un netto contrasto fra bene e male. Ma in quel modo so rimediare alla tentazione.
Mai capito perché tanti partigiani l’abbiano sfangata, dietro un’intercapedine o sotto una botola. Così tanti che l’episodio che ho raccontato può sembrare artefatto. Invece è vero, mio padre me lo raccontò, anche se non so più se assieme a lui ci fosse Piero o Bruno, fra i suoi fratelli. E lui se la cavò, i tedeschi se ne andarono. E adesso ci sono io là sotto, con mia moglie e le dico “Maria dammi la mano” mentre penso se lui abbia mai ucciso qualcuno. Cosa disse davvero lui in quei momenti non lo so: probabilmente tacque e basta.
Non ho mai sognato mio padre mentre era in vita. L’ho sognato – ma raramente: non sogno quasi mai – dopo che è morto, il 13 ottobre 1996. Il sogno è sempre uguale. Io e lui su una collina. Lui spinge una carriola lungo il pendio, in salita, poi si ferma. Respira a fatica, ma è sereno. Io gli chiedo se vuole una mano, e nel sogno sento una strana angoscia, immotivata visto l’ambiente che ci circonda, così silenzioso e tranquillo. Non credo ci voglia un grande psicologo per interpretarlo: un peso, la fatica, il senso di colpa per non averlo aiutato a spingere quel suo peso.
Una delle ultime volte che l’ho visto era in ospedale. Sarà stato un mese prima del secondo infarto, quello che l’avrebbe portato via. Quando entrai nella stanza era a letto, stava guardando una foto che gli avevo lasciato: ritraeva lui assieme al mio primo figlio, l’unico nipote che avrebbe conosciuto. Ripose la foto sul comodino, si asciugò gli occhi con una mano, ma molto velocemente. Era un uomo “di una volta”, ex partigiano, poi poliziotto e poi ancora operaio tornitore (per un comunista è troppo difficile restare in polizia, diceva): uno così non piange, specie davanti al figlio maschio. Parlammo tranquillamente. Ricordo che bevve dell’acqua a collo dalla bottiglia, me ne offrì in un bicchiere. Non gli dissi nulla di come l’avevo visto: bene così.
A volte delle persone care che sono scomparse ricordiamo l’ultima volta che le abbiamo viste e ci convinciamo che loro sapevano della fine imminente. Di solito è solo un’impressione, il cedere alla tentazione di essere stati profeti del futuro altrui e poter così pensare di saper essere indovini anche del nostro. Altre volte non è un’illusione: quel giorno vidi nei suoi occhi il rimpianto per quel po’ di vita che avrebbe voluto e che – sapeva – gli stava per essere tolto. Perché mio padre era un piccolo pezzo d’uomo (novanta chili compatti, due mani come tenaglie) ma aveva un cuore ingenuo e, a settant’anni, già troppo stanco. Dormiva con i denti in un bicchiere, io dormo ancora assieme ai miei e questa forse è la differenza fra un giovane e un vecchio.
Quando è morto ricordo che stavo mangiando un budino al cioccolato. Uno speciale, l’aveva fatto Maria con una ricetta trovata su qualche rivista. Col cioccolato fondente, brandy e scorza di limone.
Poi, dopo la telefonata, sono arrivato a casa sua, trafelato. Poi ancora ricordo poche frasi. Alcune dette, altre solo pensate. Dov’è mia madre? Dov’è lui? Ha sofferto? Devo vederlo. Non lo vedrò più.
Poi più nulla, fino all’imbocco del nulla. Fino ai suoi capelli e alla sua fronte fredda, quando hanno sollevato il cristallo della bara e il trapano ha cominciato ad avvitare. E’ allora che ho visto, all’uscita del nulla, un uomo giovane e forte guardarmi mentre, appena nato, sto strillando. Guardarmi e gioire perché sono un maschio. E bere e offrire da bere, per festeggiare. Perché al terzo tentativo è arrivato il figlio col pisellino fra le gambe.
Poi ancora – ma adesso siamo all’oggi – lo vedo nascosto al buio, in un rifugio improvvisato, il cuore che batte all’impazzata, ma è un cuore giovane, non ancora stanco. E dice Maria dammi la mano.
Così si chiude il cerchio. Ora mi immagino d’essere io lì dentro, con mia moglie, a dire la stessa frase che lui non pronunciò. Poi spengo un’altra sigaretta, clicco sul tasto print e il fischio della stampante mi restituisce questi tre fogli.
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