lunedì 19 dicembre 2011

Caro Mohamed

Per questo racconto devo ringraziare due amiche, che involontariamente mi hanno dato l’idea.
Lorena pochi giorni fa mi ha scritto “è sempre più difficile rispondere ai nostri figli quando ci domandano a bruciapelo: cosa ne pensi della manovra Monti?”.
Qualche giorno prima Amal ha definito il nuovo governo “il nostro plotone d’esecuzione” (cito a braccio, spero di non sbagliare: non trovo più il suo post su Facebook).
Mettendo insieme quei due frammenti m’è venuta voglia di scrivere il mio pensiero, e di farlo in un modo un po’ particolare. Ho unito anche l’uccisione dei due senegalesi a Firenze, ed è venuto fuori questo… Un po’ lungo, ma vi chiedo di dargli un’occhiata: spero vi venga voglia di leggerlo tutto…

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13 dicembre 2011

Caro Mohamed,
avrei voluto iniziare dicendoti “leggerai questa lettera quando sarai grande”: un po’ troppo melodrammatico. E, a dire il vero, non so se e quando la leggerai, se mai te la darò, e neppure – in fondo – perché sto scrivendo… Forse questo sì, lo so: scrivo perché non so cosa penso fino a quando non lo scrivo. E’ sempre stato così, e anche in questo momento in cui mi sembra di non capire nulla di quanto mi sta attorno devo scrivere, per avere almeno la percezione di “cosa” non sto capendo e illudermi di rivolgermi a qualcuno che saprà. Saprà vedere schiarito quell’orizzonte che a me pare tanto oscuro (se il futuro gliene darà i mezzi) e districarsi in quel grumo di contraddizioni che è tuo padre. Ora hai due anni, non puoi farlo, ma conto sull’uomo che diventerai.

Già ora sai che non ti abbiamo generato io e tua madre. Solo guardandoti attorno, pure alla tua età credo tu comprenda la differenza. Pensa: quando t’abbiamo adottato tua madre voleva darti “un nome italiano”. “Per non farlo sentire diverso”, diceva, “sai come sono i bambini…”. Gran brava donna, ma di certe cose non ha mai capito nulla. Io ho sempre disprezzato l’omologazione (non farti ingannare dalla parola integrazione: il significato è lo stesso) e ho sempre cercato di essere diverso. Sia chiaro, anche il voler essere diversi a tutti i costi è una sorta di snobistico conformismo: quella mia aspirazione, invece, è sempre stata solo la paura di perdere me stesso, fra gli altri… Ma non voglio parlare di me, scusami. Il punto, tornando alla scelta del tuo nome, era che qualsiasi tentativo sarebbe stato inutile, tu saresti stato comunque diverso. Per me, un bene; per altri, una cosa orribile; per tua madre qualcosa di assolutamente normale (i suoi timori non avevano nulla in comune coi pregiudizi di quegli stronzi) ma che, temeva, un giorno poteva farti soffrire. In ogni caso, lei voleva chiamarti Ilario. Mi sa che t’è andata bene l’abbia spuntata io…

Come e perché sei diventato orfano nessuno di noi lo saprà mai. Stavo riflettendo (te lo dico subito: non sarà la cosa più intelligente si possa pensare…) sul fatto che i tuoi genitori erano persone probabilmente povere, abituate a una realtà di sabbia e sole, a un orizzonte fatto di una sola linea che comunica con l’infinito, o almeno io l’immagino così. Noi, che tuoi genitori “lo siamo diventati”, siamo benestanti. Il nostro orizzonte è spezzato dal cemento, e al nostro clima umido d’estate e d’inverno sogniamo di fuggire, più che sperare di abituarci. Loro trattavano probabilmente l’acqua come una ricchezza, io solo quando sei arrivato tu ho cominciato a pensare a quanta ne spreco lavandomi i denti. Te l’ho detto, non è la riflessione più profonda si possa fare, ma in questo campo si rischia d’essere retorici o accademici. Con la mia ingenuità ho perlomeno evitato quei due pericoli.

Ti scrivo perché sono preoccupato per il tuo futuro, e questo non mi rende diverso dalla maggior parte dei genitori. Anche se l’origine della mia preoccupazione farebbe sicuramente sorridere i più, e probabilmente farà scuotere la testa a te, quando e se leggerai.
Devi sapere che fino a poche settimane fa il nostro governo era composto da tizi urlanti, arroganti, supponenti… Difficile persino descriverli a chi come te potrà avere la fortuna di non averli conosciuti. Oggi sono stati sostituiti da un gruppo di burocrati. “Tecnici” li chiamano, perché non sono stati eletti da nessuno. Il loro capo, il nuovo Presidente del Consiglio, l’ho visto poche sere fa alla televisione. Sembra un brav’uomo, intellettualmente onesto, colto e paziente, conscio del proprio ruolo di semplice “amministratore per conto terzi” (forse dovrei dire “curatore fallimentare”).
Anche qui è difficile spiegarti la sensazione straniante che provo. Io vengo da una cultura distante, dall’attuale e ancor più da quella in cui vivrai tu (non riesco a immaginarla, ma sicuramente sarà diversa sia dal mio passato che da questo presente). Una cultura secondo cui la partecipazione – diretta o per delega –alle scelte politiche era la base del vivere comune. “Democrazia” la chiamavamo. Non so se abbia più senso quella parola, né se in futuro tornerà ad averne uno assimilabile a quello a me conosciuto. Ormai l’Italia è parte di un sistema odioso e oscuro: farne parte è doloroso, uscirne sembra impossibile.
E’ difficile spiegartelo, se non con una metafora. Tutti noi c’illudiamo di essere padroni del nostro destino, singolo o collettivo, seppure nel perimetro circoscritto delle possibilità. Fuori, sta l’impossibile... Ecco, è come se quel perimetro si fosse drammaticamente ridotto in questi anni, ma noi all’interno non ne abbiamo la percezione. Continuiamo a muoverci dentro il recinto esattamente come prima: che le palizzate si siano avvicinate potremmo capirlo solo fermandoci a riflettere, ma non ce ne viene data spesso la possibilità. Del resto anche per un pesce rosso il proprio acquario è l’universo noto, e questo non cambia quando lo si mette in una vaschetta ancora più piccola. Fuori, in ogni caso, più che la libertà c’è la morte.

Per carità, può essere che io mi sbagli e che la politica non abbia poi tutta questa influenza sulla nostra esistenza. Pure una grave malattia o un incidente possono sconvolgere la nostra vita da un momento all’altro, ma noi non stiamo ogni giorno a pensare alla possibilità che ci succedano (l’aver paragonato la politica a un grave malanno o a una disgrazia è un’ironia involontaria, t’assicuro…). Dunque l’essere preoccupato per il tuo futuro in base alla pessima qualità in cui sembra navigare oggi il “vivere civile” forse è una sciocchezza. O, perlomeno, in cuor mio dovrei augurarmi che tu sia risparmiato da altre disgrazie: la politica, se davvero è tale, è destinata a tutti…
Però la preoccupazione rimane. Ti dicevo prima d’aver visto il nuovo Presidente del Consiglio, mentre illustrava agli italiani i sacrifici che gli sta chiedendo. Sembrava un medico che dice “Mi dispiace, lei ha un cancro. Non è colpa sua o mia, e io non posso fare molto. Possiamo tentare questa cura, la sola che io conosco, ma le prospettive non sono buone. Le consiglio di prepararsi e di sistemare le sue cose…”. Che dire?… Siamo uno dei paesi con la maggiore diseguaglianza di redditi. Fra chi ha troppo e chi non ha abbastanza per vivere, chi sta in mezzo vede l’asticella della sopravvivenza dignitosa alzarsi: saranno sempre di più quelli che, anche fra questi ultimi, scivoleranno verso il basso… Insomma: l’uomo che ho sentito parlare era meglio del disgraziato buffone che ci è toccato fino a ieri, ma al di là di ogni empatia e davanti a una diagnosi così grave uno vorrebbe anche provare cure diverse, non trovi? Perché ci sono, eccome se ci sono, solo che disturberebbero chi sta in cima alla piramide…

Mentre succede tutto questo, proprio oggi un tizio ha sparato a Firenze. Non a caso: ha ammazzato due uomini come te. E già m’accorgo dell’assurdo: “come te” e intendo “con la pelle nera”. Sarebbe una cosa nemmeno da precisare, non fosse che per l’assassino era proprio quello il movente, capisci? Diranno che era un pazzo, il nostro Breivik. In parte è vero, ma ciò non toglie che la “follia” del suo ultimo gesto è figlia coerente dei suoi “ideali”: razzismo, xenofobia, intolleranza… Tutte cose che imparerai – e imparerai a disprezzare, spero – dai libri di storia, gli stessi da cui saprai (ma su questo non conterei troppo) chi era Breivik.
Mi viene in mente che solo pochi anni fa un altro individuo affermò che agli immigrati bisognerebbe sparare col fucile. “Come ai leprotti”, precisò. Voleva essere divertente. Alcuni trattarono l’affermazione come cialtroneria, altri come un’esagerazione, altri ancora come una provocazione. Sbagliavano tutti, la reale interpretazione doveva andare al di là delle intenzioni di quel politico (di cui non farò il nome, il solo ricordarlo sarebbe un tributo che non merita). Quella frase era una spia linguistica di una regressione culturale, che si voleva negare o si preferiva non vedere.
L’assassino di oggi poi s’è suicidato. Vorrei non fosse così, ma provo un po’ di pena anche per lui. Non per qualche reminiscenza cattolica, ma al contrario per la mia assenza di fede. Per le mie convinzioni, a ogni essere umano viene data una sola vita, questa. Spiace vederla buttata via, e quel nostro simile ha fatto proprio questo, dopo aver dato concretezza con un duplice omicidio ai suoi “ideali”, odiosi e fatti d’odio. E poi, diciamolo: razzismo, follia… Entrambe parole insufficienti, anche mettendole assieme. Per descrivere certi abissi non esistono parole adatte, c’è solo lo sgomento.

Ho messo molta, troppa, carne al fuoco in questa lettera. E, lo so, le preoccupazioni che angosciano me oggi sono diversissime da quelle che dovrai affrontare tu da adulto. Credo però che le tue ansie future saranno figlie delle mie attuali. E, soprattutto, ogni singola schifezza con cui il genere umano deve fare i conti è frutto delle proprie azioni e della colpa di tutti. Di tutti: anche mia, persino tua… Dunque il nostro non è tempo perso; non il mio a scrivere, né il tuo – un giorno – a leggere.
Fra pochi giorni sarà Natale. Ti ho già detto di non essere credente, ma il Natale m’è sempre piaciuto. Mi sembra una parentesi di pace in mezzo a una quotidianità di rabbia e follia. E’ come se l’umanità, almeno qui da noi, volesse fermassi un attimo a riprendere fiato, a pensare, a guardare “l’altro” con sentimenti diversi. Poi si torna come prima, peccato…
Prendi questo mio sfogo come un semplice segno di premuroso affetto e di preoccupata attenzione per il tuo futuro. Un giorno, se il destino vorrà, guardando il passato ne potremo parlare assieme. Magari, spero, sentendoci sollevati… Ma questo starà a noi…

Tuo padre

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