mercoledì 14 marzo 2012

Lettera aperta a Paolo Persichetti: “legittimo criticarlo, ma Giannuli non è un cialtrone”

[NOTA IMPORTANTE: Paolo, solo DOPO aver scritto questa lettera stasera sul mio blog ho visto che oggi su Facebook hai già anticipato – sensatamente – alcune mie obiezioni. Quindi leggi questa mia sapendo che è PRECEDENTE a quel tuo commento]

Caro Paolo,

come ti ho accennato via Facebook non condivido il tuo articolo “Miseria della storia: quel cialtrone di Aldo Giannuli”, nel merito e neppure nel tono. Questa lettera, te lo dico subito, sarà piuttosto lunga; conterrà anche elementi ridondanti, ma che ho ritenuto d’inserire perché l’argomento è di interesse comune, e non credo che tutti quelli che la leggeranno siano a conoscenza di certi dettagli.
Innanzitutto gioco a carte scoperte: sì, conosco Aldo. Mi girò il suo contatto Franca Dendena (storica presidente dell’associazione familiari vittime di Piazza Fontana, purtroppo scomparsa il 6 ottobre 2010) quando stavo scrivendo il fumetto su Piazza Fontana (era il gennaio 2009 o giù di lì); proprio Giannuli firmò poi la prefazione a quel lavoro. In seguito siamo rimasti in contatto, seppure saltuariamente: sto lavorando su un nuovo fumetto su Piazza della Loggia (e più in generale sul “quinquennio nero” 69/74) che nel primo volume conterrà anche un’intervista a Giannuli. Però i contatti fra me e Aldo sono limitati a quanto mi interessa del periodo 69/74: non ho mai parlato con lui di BR o “caso Moro”, e il libro su cui tu ti soffermi, “Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro”, per ora l’ho letto solo per la prima parte (m’interessava nell’ottica: rapporti fra “noto servizio” e strage di Piazza Loggia), mentre non ho approfondito la sezione sulle BR. Ho letto “le 18 domande” che Giannuli scrive in coda al suo libro per poter capire quanto hai scritto e risponderti.
Dunque non ti nascondo nulla della mia conoscenza con Giannuli: è né più né meno di quella che ho descritto; non è l’elemento che mi spinge a scriverti; e neppure rispondo “per conto terzi”: Giannuli se vorrà ti risponderà, non è affar mio.

Ti ho detto prima che non condivido il tuo pezzo (né le risposte formulate dal dott. Clementi alle 18 domande alle BR; su queste tornerò più avanti) nel merito e nel tono. Parto dal secondo aspetto, forse il meno importante.
Te l’ho già accennato personalmente: ho letto altri tuoi scritti e li ho apprezzati sinceramente (e circa l’argomento “torture ai militanti BR”, se vorrai ne parleremo in altra sede e in altro momento). Proprio questo apprezzamento nei tuoi confronti ha generato la sorpresa per il veleno che hai riversato su Giannuli (altro compagno che stimo) e per il modo “obliquo” con cui l’hai fatto… Scrivi: “Quali meriti scientifici o titoli di altra natura gli abbiano garantito una così ampia fiducia e una così lunga cooptazione negli ambienti giudiziari e nelle commissioni parlamentari non è di dominio pubblico”; anche in altri passaggi metti in discussione professionalità o capacità o onestà intellettuale di Giannuli (“parassita concettuale” lo definisci). M’accorgo che potevo dilungarmi meno: l’epiteto di “cialtrone” che gli affibbi nel titolo era più che sufficiente per descrivere il veleno nei suoi confronti; veleno che, per quanto l’ho conosciuto io, sarebbe meglio destinato ad altri bersagli.
Poi metti in contrapposizione “il cialtrone Giannuli” con il prof. Clementi, che al contrario è “autore tra l’altro di due importanti volumi sulla storia delle Brigate rosse: La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli e Storia delle Brigate rosse, Odradek, sa quel che scrive … a differenza di Giannuli, fa lo storico con passione e onestà fino in fondo”.
Te lo dico subito: non conosco Clementi e i due suoi libri che hai citato. Anzi, ti ringrazio (senza ironia) della segnalazione: vedrò di recuperarli e sono certo che li troverò interessanti (di nuovo: senza ironia).
Il giudizio che dò, quindi, NON è su professionalità o capacità o onestà intellettuale di Clementi, ma solo sulle risposte che lui dà alle “famigerate” 18 domande. Il punto è che, così come apoditticamente fai cadere il tuo anatema su Giannuli, specularmente fai con l’elogio di Clementi. Il lettore si deve accontentare del tuo giudizio. Il primo è un cialtrone (“a prescindere” direbbe Totò) il secondo è uomo d’onore (direbbe Shakespeare).
Concludo (sul punto) dicendo che personalmente ho trovato in Aldo una persona competente, disponibile e appassionata; anche se il mio giudizio positivo è riferito allo “stragismo nero”: è l’aspetto che più m’interessa per le mie ricerche attuali ed il solo su cui ho scambiato opinioni con lui.

Ma veniamo “al merito”: ti confesso una cosa che, credo, apprezzerai. Anche a mio avviso alcune (ripeto: alcune) delle 18 domande di Aldo sono criticabili. Ma alcune risposte di Clementi sono semplicemente delle “non-risposte”.

Di seguito, alcuni stralci (per i lettori: la versione completa delle risposte di Clementi è qui)

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Domanda n. 4 di Giannuli:
Come mai le Br pensarono immediatamente che Fausto Tinelli e Iaio Iannucci erano stati uccisi dai “sicari del regime”?

Risposta n. 4 di Clementi:
La quarta domanda riguarda i compagni Fausto e Iaio. Che le BR non conoscevano, tanto che chiamano Iaio con il suo nome di battesimo, Lorenzo. Perché pensano che siano stati uccisi dai “sicari di regime”? Intanto quel duplice omicidio fu rivendicato dai NAR in diverse città. Inoltre, si tratta di un’espressione propagandistica forte, legata alla situazione politica del momento (le BR hanno in mano Moro). Le BR possono aver pensato a una intimidazione trasversale, o semplicemente, era difficile credere che Fausto e Iaio fossero stati uccisi da compagni del movimento, da anarchici o da rapinatori. Per le BR si trattava di un omicidio politico eseguito dai fascisti. Dopo piazza Fontana, che hanno sempre definito strage di Stato, a loro dire la mano fascista che uccide è parte del regime che stanno combattendo.

Domanda n. 5 di Giannuli:
Come mai le Br non abbandonarono il covo di Montenevoso dopo l’omicidio del dirimpettaio Tinelli e dopo lo smarrimento del borsello di Azzolini, che non rendevano più il covo sicuro?

Risposta n. 5 di Clementi:
La quinta domanda, secondo Giannuli, è strettamente collegata alla precedente. Come detto, le BR non conoscevano né Fausto, né Iaio. Non sapevano dove abitassero e, inoltre, Fausto Tinelli non era “dirimpettaio” della base milanese di Via Monte Nevoso. Abitava al numero 9. La base era al numero 8. Le BR non avevano motivo di credere che con un mazzo di chiavi si potesse risalire alla base. Per questo non la lasciarono. Non era, poi, una base “viva”, ma fu usata allo scopo di scrivere i documenti del dopo Moro. In quel lasso di tempo venne scoperta.


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Ho accorpato due domande perché il lettore avesse davanti il quadro complessivo, ma la questione va sezionata in più punti.
Per due volte Clementi sottolinea che le BR non conoscevano Fausto e Iaio. Questo è fuori dubbio; e ad onor del vero mi sembra non fosse intenzione di Giannuli insinuare come ipotesi “viscida” una “strana conoscenza” fra le BR e Tinelli prima dell’uccisione di quest’ultimo.
Ma dire che i brigatisti “Non sapevano dove abitassero (ndr: i due ragazzi)” mi sembra inverosimile (DOPO l’omicidio e limitatamente a Tinelli). Sicuramente PRIMA dell’omicidio i due ragazzi erano, per i brigatisti di Via Montenevoso, due sconosciuti. DOPO, mi sembra impossibile pensare che (anche solo per il naturale tam tam di commenti che sull’episodio si sarà da subito creato nel quartiere) i brigatisti di quella base non abbiano saputo che Fausto era un loro “vicino di casa” (sul “dirimpettaio” mi soffermerò oltre). Altrettanto strano è che i militanti dell’appartamento milanese non si siano detti qualcosa tipo “hanno ammazzato 2 ragazzi di sinistra. Uno di questi abitava proprio nella nostra via… Forse vogliono farci capire che sanno dove ci troviamo…”. Infatti Clementi stesso dice “le Br possono aver pensato a una intimidazione trasversale”. Questo mi sembra ragionevole, e non è un elemento su cui glissare. Mettendomi nei panni dei militanti BR è proprio questo che anch’io avrei pensato; e “l’omaggio” che i brigatisti inseriscono in un loro comunicato ai compagni Fausto e Iaio alimenta l’ipotesi…
Insomma, il punto non è adombrare una precedente conoscenza tra Fausto Tinelli e le BR (ripeto: sono certo non fosse intenzione di Aldo), ma valutare se e in che misura quell’omicidio fosse teso a “dare un segnale” alle BR; e se e in che misura  le BR lo abbiano interpretato in questo senso.

Un discorso a parte è su “Fausto Tinelli non era “dirimpettaio” della base milanese di Via Monte Nevoso. Abitava al numero 9. La base era al numero 8”.
Cosa intende Clementi? Che Fausto NON abitava esattamente davanti all’appartamento delle BR? Io non sono stato in Via Montenevoso, ma, per quanto può interessare, a togliere ogni dubbio sul fatto che l’appartamento-Tinelli fosse proprio di fronte all’appartamento-BR è utile “Fausto e Iaio. La speranza muore a 18 anni” (Daniele Biacchessi; l’edizione da me consultata è Baldini e Castoldi, 1996, pagg. 56 - 60):
Pagina 56: “Una domanda mi viene spontanea (ndr: è Biacchessi che scrive e si rivolge a Bonisoli, che poi risponde). «Lei sapeva che Fausto Tinelli abitava in via Montenevoso 9, al primo piano, esattamente davanti alle tre finestre dell’appartamento-covo delle Brigate rosse?». … «Proprio non lo sapevo. Noi facevamo una vota ritirata …».”
Pagina 60: “(ndr: è sempre Biacchessi a scrivere) Fausto Tinelli abita in via Montenevoso 9, al primo piano. Proprio davanti al balcone dell’appartamento dei brigatisti.”

Intendiamoci: non è che la cosa sia d’importanza fondamentale, ma sembra assodato che l’abitazione della famiglia Tinelli fosse proprio davanti alla sede brigatista. A maggior ragione sembra plausibile che i brigatisti abbiano potuto avvertire “qualcosa di strano” nell’omicidio di un ragazzo vicino alla sinistra extraparlamentare ed abitante di fronte a una loro sede: come ho detto poco sopra, che le BR non sapessero PRIMA DELL’OMICIDIO chi fosse Fausto è pacifico (è quel che dice Bonisoli a Biacchessi); che non l’abbiano saputo DOPO mi sembra inverosimile.

Mettiamola così: visto che (come dici tu, Paolo) “Clementi oltre a cercare e studiare i documenti delle e sulle Brigate rosse incontra anche gli ex militanti di questa organizzazione, parla con loro, confronta le loro versioni”, la domanda provo a riformularla io:

Prima del loro omicidio Fausto e Iaio erano, per i brigatisti di via Montenevoso, due sconosciuti. Gli stessi militanti Br vennero a sapere successivamente che uno dei due ragazzi uccisi abitava nelle loro vicinanze? Se sì, quando lo vennero a sapere? Sempre in caso affermativo: considerarono il fatto una pura coincidenza o pensarono a una intimidazione che, diretta nei loro confronti, aveva tragicamente coinvolto i due ragazzi? La citazione di Fausto e Iaio all’interno del loro comunicato era dunque solo un omaggio a due compagni uccisi dai fascisti o significava che quella “intimidazione trasversale” era stata recepita?

(Incidentalmente, preciso che su un aspetto concordo con Clementi: non c’erano dubbi sulla matrice dell’omicidio di Tinelli e Iannucci, peraltro rivendicato dai NAR. Solo chi volle inquinare le indagini provò a parlare di “regolamento di conti interno alla sinistra”, rapina, storie di droga e altre sciocchezze. Fausto e Iaio furono uccisi da “mani nere”: lo si capì da subito e a maggior ragione è giusto ribadirlo oggi, mentre ci apprestiamo a vivere l’anniversario della loro uccisione. Può sembrare superfluo, ma è invece il minimo e necessario riconoscimento ai due compagni).

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Domanda n. 8 di Giannuli:
Venne realizzata una sola copia dei manoscritti di Moro? In caso affermativo, perché mai, vista la delicatezza del testo in questione? In caso negativo, che fine hanno fatto le altre copie?

Risposta n. 8 di Clementi:
La mia supposizione è che non tutte le copie si trovavano a Milano. Ma gli originali finirono distrutti. Come? Si può supporre un errore.

Domanda n. 13 di Giannuli:
Quando e perché le Br decisero di distruggere gli originali di Moro?

Risposta n. 13 di Clementi:
A questa domanda ho già riposto. Suppongo che furono distrutti per errore.


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Qui è opportuna una digressione sul “memoriale Moro”.
(postilla per Paolo: è una delle digressioni ridondanti che faccio a uso del lettore meno informato. Perdonami quindi qualche approssimazione: sul tema si potrebbero scrivere pagine su pagine; io ne offro solo una sintesi).

Tralascio tutta la parte sullo smarrimento del borsello da parte di Azzolini (altrimenti il lettore davvero “va in balla”, anche perché esistono diverse versioni, ma risulterebbe dispersivo affrontarle) e su come/quanto questo smarrimento guidi le forze dell’ordine in via Montenevoso dove – siamo al 1° ottobre 1978 – viene ritrovata la prima parte del memoriale Moro. Parlo di prima parte perché solo nel 1990, sempre nello stesso alloggio, dietro a un pannello-intercapedine si ritrovano altre carte (oltre a un po’ di soldi e armi): c’è anche un’altra copia del memoriale, ma contiene pagine in più (rispetto al ritrovamento del 78); quindi, allo stato, possiamo ritenere che la versione completa sia quella del 90.
I documenti trovati nel 78 e quelli trovati nel 90 sono però coevi. Non sono originali, ma dattiloscritti (o dattiloscritti in fotocopia, ora non ricordo). Sta di fatto che, prima di essere arrestati, il primo ottobre 1978 i militanti di Via Montenevoso hanno TUTTO il memoriale, su cui stanno lavorando per pubblicare un opuscolo. Pure su questo concordo con Clementi (risposta alla domanda n. 12): “Non ci fu mai una decisione di non rendere pubblici gli scritti di Moro. Al contrario, in via Monte Nevoso stavano lavorando proprio per la loro pubblicazione”.

Allora, quale è il punto, andando alla sostanza (e non alla forma) delle domande di Giannuli?
1. Delle carte di Moro si trovano solo delle fotocopie (parlo del memoriale, che altro non era – sostanzialmente – se non l’insieme di risposte che il presidente della DC aveva fornito alle domande sottopostegli durante la prigionia).
2. Il memoriale viene trovato in due tempi. Prima incompleto, poi completo (o almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze dobbiamo pensare che tale sia, col secondo ritrovamento).
3. Le BR sanno, dopo il 1° ottobre, che le autorità hanno ritrovato solo una parte (o almeno dicono d’averne ritrovato solo una parte) del memoriale. Quindi in quel momento le BR dovrebbero avere in mano gli originali e dovrebbero avere convenienza a dire “lo Stato non vi dice tutto! Noi abbiamo il memoriale completo e possiamo dimostrare che lo Stato vuole nascondere qualcosa!”. Questo punto è rafforzato dal fatto che i militanti arrestati il 1° ottobre 1978 sostennero, nel processo, che quanto risultava dal verbale di sequestro non era tutto il materiale presente nella base; infatti 12 anni dopo, dietro il famoso pannello, “saltò fuori” il resto. (postilla per Paolo: l’affermazione secondo cui già nel processo a loro carico i brigatisti abbiano sostenuto l’incompletezza del ritrovamento non posso supportarla con citazioni: sono certo d’averne letto su qualche libro – forse uno di Gotor – ma in questo momento non trovo la fonte. Correggimi se ho ricordato male).

Inoltre, non me ne voglia Clementi, ma accontentarsi dell’ipotesi della distruzione “per errore” degli originali mi sembra al limite dell’ingenuità, sia per lui (nel crederlo) che per i brigatisti (nell’averlo fatto, nel caso in cui davvero i documenti siano stati distrutti per sbaglio). Peraltro, confesso che le ragioni della distruzione – ribadito che non credo nell’errore – continuano a sfuggirmi: non sto facendo il dietrologo; è sincera curiosità, assieme a un probabile mio limite nel non vederne la ragione; mi accontenterei anche di un “non possiamo spiegare il motivo”.

Anche in questo caso provo a riformulare, accorpandole, le domande in questione:

Sembra assodato che le BR non avessero mai abbandonato l’idea di rendere pubblico il cosiddetto “memoriale Moro”: un lavoro di cui si stava occupando proprio la colonna di Via Montenevoso. Conseguentemente, dopo che i media pubblicarono alcuni stralci del “memoriale” in seguito alla caduta della base milanese, appare chiaro che i brigatisti (avendo contezza del contenuto completo degli scritti di Moro) si siano accorti che i media stavano parlando solo di una parte di quei documenti. Alla luce di quanto sopra, perché l’operazione di “censura e occultamento”, che lo Stato stava effettuando verso il “testamento” del presidente della DC, non fu denunciata dalle BR (oltre che nel processo) accelerando la pubblicazione del memoriale o almeno di alcune delle parti “censurate”?
A questa domanda si potrebbe obbiettare che già durante il rapimento lo Stato aveva cercato di depotenziare gli scritti e la figura stessa di Moro (parlando di “sindrome di Stoccolma”, di parole “estorte” a Moro, o comunque non riconducibili al “vero” pensiero dell’esponente democristiano, eccetera). Ad avviso di chi scrive, però, proprio il precedente comportamento dello Stato nei “55 giorni” avrebbe reso opportuno denunciare, dopo il 1° ottobre 1978, le perduranti ambiguità dello Stato nella “vicenda Moro” (durante il rapimento e DOPO l’uccisione).
Inoltre: gli originali del memoriale furono davvero distrutti solo a fine 1978, quindi successivamente allo smantellamento di via Montenevoso? In caso AFFERMATIVO: considerando che le carte depositate nella base milanese erano ormai “in mano al nemico”, perché non si considerò strategicamente opportuno restare in possesso degli originali, anche solo per ritentarne la pubblicazione?


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Caro Paolo, m’accorgo d’aver messo già troppa carne al fuoco. Per cui non mi resta spazio o tempo per affrontare – se non velocemente – altre cose che tu hai affrontato: l’eccesso di dietrologia, il ruolo distinto di magistrati e storici, il “doppio stato” e altro ancora. Cose su cui, peraltro, di massima concordo con te.
Paradossalmente, ricordo d’aver letto un articolo proprio di Giannuli (se non erro dopo la sentenza di primo grado sul processo per la strage di Brescia, novembre 2010) dove Aldo diceva cose analoghe alle tue, riguardo l’indipendenza del giudizio storico (o “fattuale”) da quello della magistratura. Anch’io penso sia la storia a dover giudicare le sentenze e non viceversa. La frase può suonare strana (disse qualcosa del genere Stefania Craxi a proposito del padre; a dimostrazione che anche affermazioni assai condivisibili possono essere distorte…) ma io ci credo davvero. Penso che un limite sottile divide dietrologia e sincera curiosità, “misteri reali” e “fatti che si è voluto rendere misteriosi”. Chi, in questo Paese, ha avuto e ha tuttora interesse a intorbidire le acque ha gioco facile.
Il punto, a mio avviso, è però che un conto è analizzare la storia su tempi lunghi, un altro è farlo su tempi medio-brevi. Nel senso che in tempi medio-brevi l’assenza (o l’incompletezza) di verità giudiziarie con troppe zone d’ombra (preciso: in questo non sto parlando di BR, ma di stragismo nero, per fare un esempio) ha favorito la creazione di “leggende metropolitane”, verità di comodo, bufale che – di voce in voce – nell’opinione corrente diventano verità conclamate. In questo contesto possono proliferare strane teorie, scritte da chi si è fatto ingannare, da chi “ha voluto” farsi ingannare, da cialtroni (questi sì) che vivacchiano sui “misteri d’Italia” anche quando misteri non sono…
Però, facciamocene una ragione: il ruolo degli storici a supporto dell’azione della magistratura può essere fondamentale (se fatto con rigore e onestà intellettuale) o esiziale (se fatto per servilismo); può smontare o alimentare le bufale… Insomma, la commistione di ruoli degli storici fra “accademici tout court” e “storici consulenti delle procure” la vedo, più che come un bene o un male, come un dato di fatto difficilmente evitabile.
Sul doppio stato: ti confesso che non ho letto testi sull’argomento; neanche quelli di Aldo. Per quelle che sono le mie conoscenze (essenzialmente: libri e atti processuali su Piazza Fontana e Piazza della Loggia, audizioni scaricate on line della Commissione stragi, altri testi “sul genere” ecc.) penso si possa parafrasare Pirandello e parlare di “uno stato, nessuno stato, centomila stati”. Nel senso che lo Stato (come “macchina del potere”) è multiforme e “multifacce”. Al suo interno, ognuno ha scelto di essere fedele (per convinzione o opportunismo; seguendo “ideali” o solo convenienze del momento) alla “forma” che più gradiva. Per quanto mi riguarda, verso lo stato “macchina del potere” porto poco interesse o simpatia… Ma ora basta: tutte queste faccende meriterebbero ben altri approfondimenti.

Ti saluto con immutata stima.
Francesco “baro” Barilli

3 commenti:

  1. Confermo.
    Fausto Tinelli abitava in via Montenevoso esattamente davanti all'appartamento preso dai brigatisti. La finestra dell'appartamento abitato dalla famiglia Tinelli era vicinissima, sette metri contati in tutto.
    Al terzo piano del palazzo abitato da Tinelli i carabinieri e i servizi presero in affitto una mansarda ma le date non coincidono. I carabinieri interrogati dalla magistratura e dalla commissione parlamentare dichiararono prima di averlo affittato a luglio 1978, poi a giugno, in seguito a fine maggio. La madre di Fausto Tinelli, Danila, nel mio libro del '95 e in decine di interviste sostiene di aver visto persone che andavano su quella mansarda per molto tempo disabitata tra gennaio e marzo 1978, quindi ben prima da quanto dichiarato dai carabinieri a magistrati e parlamentari.

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  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  3. Mah ... io sono dell'idea di Paolo Persichetti, chi si inventa interviste mai avvenute e persino accreditando falsità, non può certamente definirsi storico e non solo sia un emerito cialtrone, ma in un paese normale dovrebbe anche essere perseguito penalmente. Questo, però, non è un paese normale!

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