giovedì 19 settembre 2019

Sull’assassinio di Elisa Pomarelli: alcune considerazioni, in volontario ritardo

Ho fatto passare alcuni giorni dall’assassinio di Elisa Pomarelli, per poterne parlare (almeno spero) con più tranquillità.
Anch’io ho seguito la vicenda e sono rimasto scandalizzato, come molti, dalla narrazione che ne è seguita. La retorica del “gigante buono”, il “raptus”, la “stupidaggine commessa”, il femminicidio compiuto “per l’amore non corrisposto”. Credo pure io che i due piani (il femminicidio e la successiva narrazione da parte di certi media) non siano scindibili. Esiste un problema irrisolto, che gli uomini (noi, tutti, anche io che ora sto scrivendo) dobbiamo affrontare. Il patriarcato crea ESATTAMENTE uomini come Sebastiani; li crea o può crearli. La narrazione malata e oscena che ne segue è, ALTRETTANTO ESATTAMENTE, figlia del patriarcato: si crea una narrazione subdolamente comprensiva verso l’assassino, si mette oscenamente in discussione la vittima e le sue scelte di vita… Elisa non è la prima ad essere finita in questo tragico loop, una violenza che prosegue anche dopo la morte.

(Una parentesi. In generale il discorso lo si potrebbe allargare a un problema sulla “violenza di genere”. E, da vecchio compagno quale sono, a mio avviso lo si potrebbe estendere addirittura a un discorso “di classe”. Nel senso che il patriarcato è fondamentale nel capitalismo e le donne sono una categoria oppressa di cui il capitalismo, per come è strutturato, ha bisogno. Ma non voglio ora inquinare il discorso con altri elementi, seppure interessanti).

Ho però letto frasi che non avrei voluto vedere, rivolte all’assassino. “Dovrebbe marcire in galera”, “dovrebbero impiccarlo”, “cosa importa delle sue motivazioni” e altro. Tutto questo, preciso, anche da parte di persone progressiste o di sinistra, per usare etichette utili solo a snellire il discorso (e precisando che sono molti i modi in cui ciascuno e ciascuna può declinare il proprio essere progressista o di sinistra). Non avrei voluto vederle, quelle frasi, perché non ci dovrebbero appartenere. E, chiaramente, qui mi sto riferendo a chi ritiene ancora importanti certi principi: la pena deve avere funzione rieducativa e non semplicemente punitiva (o, peggio, di vendetta); anche chi si macchia di un crimine orrendo ha diritto a una difesa e conserva i diritti inalienabili dell’individuo; ogni fatto, per quanto orrendo, va analizzato ANCHE nelle motivazioni che hanno sotteso il gesto (ivi comprese le condizioni psicologiche e l’eventuale disagio psichico del colpevole), senza che questo determini “vicinanza” verso il colpevole a discapito della vittima.

Chi mi segue sa già quanto io abbia amato De Andrè, anzi, sarà addirittura stufo di sentirmi ricordarlo tanto spesso. In una delle sue prime canzoni, La ballata del Michè, Faber ricordava con pietà il protagonista, che si era impiccato in cella dove stava scontando vent’anni per avere ucciso “chi voleva rubargli Marì”. Voglio pensare che Fabrizio avrebbe usato la stessa pietà se Michè avesse ammazzato, invece del rivale in amore, la “donna contesa”. No, non avrebbe usato la pelosa “comprensione” de Il Giornale, ma qualcosa di più complesso (e faticoso…). In De Andrè l’essere vicino alle minoranze (o persino il parlare di un assassino) non era frutto della snobistica inclinazione dell’intellettuale. Con la sua “vicinanza” (che certo NON implicava assoluzione) non esprimeva l’affinità di un intellettuale eccentrico, che alla fine non gratifica che se stesso, ma il mantenimento dell’umanità, di fronte a chiunque.
E, almeno credo, la voglia di costruire un mondo migliore passa soprattutto attraverso la conservazione della nostra umanità. Anche quando questo ci costa molto…

Francesco “baro” Barilli

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