sabato 30 luglio 2011

Norvegia: il dolore e l’ipocrisia

Mi fa un certo effetto scrivere di un fatto terribile come quello avvenuto in Norvegia pochi giorni fa; me ne fa ancora di più pensando che tutti ne hanno già parlato, dicendo tutto quello che c’era da dire. Sulla strage in sé; sul ritratto psicologico e “ideale” dell’omicida; sul riflesso pavloviano che ha portato i giornali di destra ad attribuire inizialmente la strage al fondamentalismo islamico; sul riflesso (questo tutt’altro che pavloviano) che ha portato successivamente gli stessi quotidiani ad ardite elucubrazioni di pensiero per dire che, in fondo, la strage di Oslo e Utoya non deve farci riflettere sul fondamentalismo cristiano, ma sul multiculturalismo (Allam, Nirenstein), sulla presunta pavidità antropoligica delle nuove generazioni (Feltri), sull’inadeguatezza della pena (21 o forse trent’anni) prevista per Breivik. E taccio di Borghezio, che un merito l’ha avuto (vedremo in seguito…).
Siccome, dicevo, più o meno è stato già scritto tutto, nel bene e nel male, aggiungo i miei due cents di contributo come riflessioni sparse.

1. Generalmente chi come me è convinto della natura rieducativa della detenzione (ed è quindi contrario tanto alla pena di morte quanto all’ergastolo) è accusato da destra di buonismo; nel migliore dei casi viene bollato come un inguaribile sognatore, privo di quel senso pratico che dovrebbe farci capire che la vita è dura e pretende a volte durezza nelle nostre decisioni conseguenti (non è così, in sostanza, che si giustificano anche le guerre?). Proverò dunque ad affrontare l’argomento proprio con “sano pragmatismo”, senza ricorrere al profilo etico che mi fa essere contrario in via di principio a una concezione punitiva della pena.
Innanzitutto: di stragi perpetrate da folli solitari (posto che davvero l’episodio norvegese sia così inquadrabile) ne avvengono anche in paesi che prevedono pene elevatissime fino a quella capitale. Gli USA ne sono un perfetto esempio: non mi sembra che neppure la pena di morte funzioni da deterrente; del resto è nella natura umana che proprio i folli non fermino le proprie azioni per paura delle conseguenze.
L’ho già detto in altra occasione: se davvero esiste il buonismo, certamente esiste il cattivismo. E sono un po’ stufo di vedere considerato il secondo meno grave e soprattutto più “realista” del primo. Quindi mi limito a ricordare che in paesi come la Norvegia (così come in tutte quelle realtà che sperimentano un carcere non tanto – o non solo – “più umano”, ma imperniato sul recupero del condannato) il tasso di recidiva è un terzo del nostro.
Ma, m’accorgo, tutto questo mio delirio sulla “umanità della pena” poteva essere più efficacemente sintetizzato da questa bellissima frase di Tore Sinding Bekkedal, sopravvissuto di Utoya (trovata sul web): “Vi prego, non fatemi leggere messaggi pieni di rancore, di sostegno alla pena di morte, o qualcosa di simile. Se qualcuno crede che qualcosa migliorerà uccidendo questa piccola persona triste, ha profondamente torto”. E, aggiungo io, se qualcuno a questo punto è ancora interessato al dibattito “21 anni?, 30 anni?, ergastolo?” è inutile che io prosegua…

2. Fermo restando quanto detto sopra, fa specie leggere così tanti sinceri “liberalgarantisti” chiedere la pena capitale per Breivik e applaudire convintamente una norma che porta a 18 mesi la detenzione nei CIE per soggetti che non hanno commesso nessun reato. E desta uguale amarezza pensare che gli stessi commentatori “liberalgarantisti” non si siano mai stracciati le vesti, ch’io sappia, per il fatto che le stragi italiane da Piazza Fontana al Rapido 904 siano rimaste con poche eccezioni prive di colpevoli consegnati alle patrie galere. Mi verrebbe da aggiungere un capitolo sui “cattivi maestri” del terrorismo neofascista (una postilla: chissà perché quando si parla di cattivi maestri si allude solo a quelli riconducibili – anche con molte forzature – al brigatismo…) e su cosa facciano oggi. Quel capitolo non lo aprirò. Dirò solo che molti sono tuttora in vita e “accomodati” in postazioni ancora più confortevoli del “carcere a 5 stelle” (così è stato definito) dove è confinato Breivik.

3. Di solito dopo le stragi la condanna è unanime. Verso gli attentatori, ma pure verso la loro matrice ideologica. Nel “caso Norvegia” così non è stato e tutti si sono affrettati a definire Breivik un pazzo isolato, punto. Che il massacratore di Oslo e Utoya sia mentalmente disturbato è certo e che abbia agito da solo probabile. Ma che dietro il suo gesto ci sia un’ideologia, un “movente culturale”, è altrettanto pacifico: l’ha spiegato lui stesso, molto chiaramente. L’etichetta di cristiano fondamentalista se l’è attaccata da solo, e una parolina di condanna anche in questa direzione non avrebbe stonato.

 4. Quasi dimenticavo “il merito” di Borghezio. Ebbene, è stato l’unico ad ammettere candidamente che qui in Italia le teorie di Breivik (le teorie, certo, non la follia omicida) sono entrate da parecchi anni nel lessico comune ad ogni livello, fino ai palazzi più alti della politica, proprio grazie alla Lega. Quelle teorie che non provocano sdegno negli italiani, fino a quando non arriva il “pazzo isolato” a farcene capire le conseguenze più estreme e definitive.

Francesco “baro” Barilli

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