Se un regista avesse voluto tessere una trama per tornare a parlare dei
cosiddetti anni di piombo, cercando al tempo stesso di far credere
ancora attuali emergenze ormai chiuse, non avrebbe potuto inventare una
successione di eventi così favorevole. Il caso Ronconi, Curcio, le
proteste delle vittime degli ex BR, l’anniversario del rapimento Moro e
dell’uccisione di Marco Biagi, infine l’arresto di Cesare Battisti.
Le vittime del terrorismo chiedono più discrezione e silenzio ai
protagonisti della lotta armata. Li capisco, e non considero le loro
richieste semplice “vendettismo”. Ritengo però si debba avere prudenza
verso quei politici che ne appoggiano le istanze: se i parenti delle
vittime sono umanamente comprensibili, e se il loro ragionamento
andrebbe valorizzato e approfondito, l’atteggiamento di chi ne sostiene
gli appelli sembra prescindere dal valore morale di quelle richieste,
assumendo le sembianze di sterile demagogia. A questo proposito, mi
permetto di far suonare un campanello d’allarme proprio alle vittime del
terrorismo: temo che chi li appoggia sia interessato più a stendere un
velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere alle vittime
una sorta di risarcimento morale sotto la forma discutibile (e non so
quanto efficace) di una condanna al silenzio verso gli ex terroristi. Ho
inoltre la sensazione che quella condanna, qualora realizzata,
rischierebbe d’essere estesa tanto ai carnefici quanto alle vittime,
perché la violenza politica degli anni ’70 e ’80 è una memoria scomoda
per quanto emerso ma pure (soprattutto?) per lo strato tuttora sommerso.
Non so se i parenti delle vittime si rendano conto che il silenzio
invocato per i loro carnefici rischia di trasformarsi in un boomerang
per la loro stessa, legittima e sacrosanta, sete di verità e giustizia:
spero non si accontentino del ruolo di immaginette da tirare fuori negli
anniversari per essere poi riposte nei cassetti impolverati della
memoria scomoda. Sintomatico, da questo punto di vista, è che il
dibattito su quegli anni ormai si limita a circoscrivere il fenomeno
della violenza politica alle sole formazioni di estrema sinistra, mentre
le “stragi nere” sono impunite e dimenticate. Sintomatico è pure che
l’ultima sentenza su Piazza Fontana la si ricordi per le assoluzioni
personali, piuttosto che per l’avvenuta individuazione delle
responsabilità a carico di Ordine Nuovo, che appaiono inequivocabilmente
dalla sentenza stessa.
In questo panorama, per i reati di quel
periodo si inserisce la proposta di un’amnistia, con cui confesso di non
concordare. Questo non per il merito, ma per il modo con cui viene
ciclicamente tirata fuori dal cassetto: mi sembra si voglia rispondere a
degli slogan semplicistici con la stessa arma, e questo può portare
solo a ingessare il dibattito su posizioni contrapposte, facendo morire
la discussione sul nascere. Da un lato c’è la tendenza forcaiola di chi
sostiene che “i terroristi devono scontare fino all’ultimo giorno di
galera”, negando pure, più o meno velatamente, qualsiasi ipotesi di
riabilitazione per chi la pena l’ha scontata. Dall’altro lato c’è una
sinistra che appare timorosa nel denunciare l’interessato strabismo di
chi ancora oggi parla della violenza politica come fosse stata figlia di
una sola matrice. Una parte propone il carcere, unito all’ergastolo
bianco del silenzio per gli ex terroristi, come rabbioso rimedio;
l’altra parte, in presenza di un’ormai avvenuta cancellazione
dell’eversione neofascista dalla memoria collettiva, sembra
accontentarsi di pareggiare il conto con una cancellazione di segno
contrario. Nell’uno e nell’altro caso, il risultato è solo una finta
chiusura di quegli anni, sotto la forma di un silenzio privo di verità
storica e di giustizia.
Io credo che oggi, rispetto alla violenza
politica degli anni che vanno da Piazza Fontana in poi, ci troviamo di
fronte a una verità parziale e azzoppata, e in questo contesto nessuna
amnistia è possibile, perché finirebbe col diventare (al di là della
volontà dei proponenti) una rimozione. E le rimozioni mi inquietano:
quasi mai sono innocenti, certamente mai risultano utili, se non per
fini che di storico hanno ben poco.
Ben più utile di un’amnistia
sarebbe una discussione, senza ambiguità e reticenze, su quegli anni.
Una discussione che potrebbe davvero costruire, ma solo successivamente
alla sua maturazione, le basi di un provvedimento di clemenza mirato che
potrebbe trovare anche nelle vittime del terrorismo maggiore
disponibilità all’ascolto. Solo a quel punto si potrebbe parlare di
chiusure, anche dal punto di vista penale, degli anni di piombo e pure i
parenti delle vittime potrebbero dire di aver ottenuto quella giustizia
che è dovuta a loro e all’intero Paese. Non certo con l’imposizione del
silenzio, non con ansie forcaiole, e neppure con amnistie che
prescindano dall’individuazione di una verità storica che, col passare
degli anni, appare sempre più un miraggio, soprattutto per le stragi che
hanno insanguinato il Paese.