Egregio Dr. Canciani, Egregia Dr.sa Canepa,
non sono d’accordo con
la vostra lettura dei fatti di Genova. Questa frase voglio specificarla:
non ho detto semplicemente che non concordo con le pene chieste per i
manifestanti imputati per il G8 genovese, ma che dissento dall’impianto
complessivo della vostra ricostruzione.
Ho letto che auspicate
uguale severità per le forze dell’ordine coinvolte nella “macelleria
messicana” della Diaz o nelle sevizie di Bolzaneto. Alcuni,
probabilmente, vi accuseranno di cerchiobottismo; personalmente ritengo
sincero il vostro auspicio, ma lo inquadro in modo persino più negativo.
Tendo a riconoscere a chiunque, in prima valutazione, la buonafede; a
voi la riconosco non solo per principio, ma per sincera convinzione.
Siete uomini di legge, quella è la vostra bussola, e vorreste vederla
applicata con rigore e inflessibilità, nei fatti di piazza come alla
Diaz. Ma è una bussola strabica, e comunque insufficiente.
Io, vi
confesso, non credo alla giustizia divina, ma soprattutto non credo che
quella umana ne sia un surrogato. Questa giustizia terrena che rincorre
codici e cavilli la vedo più come una meccanica razionale che vuole
ingabbiare i comportamenti umani secondo schemi che prescindono la
complessità delle situazioni. Dr. Canciani, Dr.sa Canepa, voi state
cercando di misurare Genova con un metro inadatto allo scopo, di contare
le colpe col pallottoliere. La vostra colpa non sta tanto nell’aver
usato quei mezzi (sono i soli che avete a disposizione) quanto nel non
saperne o volerne vedere l’inadeguatezza.
Accantoniamo per un
momento le prescrizioni incombenti per i rappresentanti delle forze
dell’ordine negli altri processi, nonché la sproporzione fra le pene
richieste per i manifestanti e quelle ipotizzabili per agenti e
funzionari. Si tratta di questioni fondamentali e da non dimenticare, ma
rischiano di farmi usare lo stesso metro e lo stesso pallottoliere.
Questi aspetti dovrebbero far riflettere più voi che me, ma non è il
punto su cui voglio soffermarmi.
Da qualche parte ho letto che
bisogna andarci cauti nell’attaccare la procura genovese, perché sulla
Diaz o su Bolzaneto avrebbe lavorato bene, fra mille difficoltà. Ebbene,
a me di difendere o attaccare la procura di Genova non interessa nulla:
io voglio spostare la prospettiva con cui si dovrebbe guardare ai fatti
del luglio 2001. E lanciare un allarme: non deleghiamo la ricostruzione
della verità alla sola dimensione processuale. Si rischia la deriva
pericolosissima di banalizzare il dibattito in termini calcistici: col
processo ai 25 manifestanti si segna l’uno a zero “per gli agenti”, con
quello sulla Diaz potrebbero pareggiare “gli imputati”, poi sarà
Bolzaneto a far pendere le sorti dell’incontro da una parte o
dall’altra.
Non ci sto, questa logica mi è aliena (oltre a
ricordarmi tristemente l’esultanza di quella poliziotta che inneggiava
in modo analogo alla notizia della morte di Carlo). A Genova abbiamo
visto “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese
occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Questo fu il giudizio di
Amnesty International, ed è un dato di partenza (e non di arrivo) per
chiunque voglia affrontare i fatti del G8 2001.
Dr. Canciani, Dr.sa
Canepa, ho visto troppi imputati giocare alle tre scimmiette nel
processo su Bolzaneto. Non hanno visto, non hanno sentito, sicuramente
non parlano. E quel che hanno visto o sentito l’hanno ritenuto
“normale”. Sulla Diaz molti imputati, dall’alto delle loro poltrone
(inattaccate o addirittura rese più elevate e confortevoli in questi
anni) hanno addirittura snobbato il processo. I fatti di Genova sono
stati banalizzati, riconducendoli a logiche di violenze contrapposte: da
un lato i manifestanti che “devastano e saccheggiano”, dall’altro gli
“eccessi” delle forze dell’ordine. A questa logica vi siete conformati,
ma la verità su Genova non verrà data dal pallottoliere che conterà i
cattivi dividendoli in due squadre e facendo la conta. Così si potrà
dare soddisfazione a quella giustizia meccanica che chiuderà le sue
pratiche con un’equità ipocrita, totalmente avulsa dalla ricostruzione
della verità. Forse a voi basta, a me sicuramente no.
mercoledì 24 ottobre 2007
lunedì 15 ottobre 2007
Da Predappio a Dachau e ritorno. Passando da Porta a Porta…
Ha destato scalpore un servizio di Paolo Tessadri, apparso sull’Espresso
on line: alcuni neonazisti altoatesini si sono fatti un’allegra
scampagnata nel campo di concentramento di Dachau. “Una gita che
incenerisce i confini della decenza”, scrive il giornalista; e ancora:
“sono l'avanguardia dell'orrore, quella capace di superare ogni limite”.
Frasi che, ovviamente, condivido appieno, e in generale all’articolo si
deve riconoscere il merito di inquadrare l’episodio in un contesto
preciso: il giornalista non lo minimizza né lo tratta come evento
sporadico, ma lo inserisce nel crescente ritorno di ideologie razziste e
xenofobe che ormai non si può liquidare come semplice “rigurgito”. Se
però l’articolo è preciso e giustamente indignato nel parlare di
avanguardie, forse c’è da aggiungere qualcosa su ciò che sta alle spalle
dell’allegra scampagnata neonazista, con tanto di foto ricordo.
Date un’occhiata a questo sito: www.mussolini.net/, che si presenta come “Predappio tricolore souvenir”. Il catalogo è ricco; correte, perché ci sono anche gli aggiornamenti: nuove maglie (novità, bimbo e donna), berretti, busti, tagliacarte e orologi. Non so se ci siano offertissime 3 x 2, o se possiate avere gratis una daga assieme a tre accendini o viceversa (potete scegliere tra i modelli con croce celtica, con svastica, con Hitler: vasta gamma a disposizione).
Ma, per dirla tutta, a me preoccupa meno Predappio o l’allegra scampagnata dei naziskin che non chi, da quel pulpito culturale che è Porta a Porta, rivisitò la storia politica e familiare di Mussolini con intenti di riabilitazione. Certo, la televisione può essere un frullatore che riduce tutto a una poltiglia disgustosa, ma a noi tocca inghiottirla…
Chiarisco subito: non sto paragonando secondo criteri di priorità o di indignazione quella riabilitazione un po’ cialtrona con il merchandaising di Predappio, o con la gita a Dachau (che restano più gravi), ma sto evidenziando i nessi causali, cercando di spiegare dove sta la causa e dove sta l’effetto. Perchè viviamo in tempi in cui certi commentatori amano rivisitare la storia del ventennio, sostenendo che il fascismo non fu solo una dittatura spietata, o che le sue colpe sono tutte da circoscrivere alla sua ultima fase (sommariamente dalle leggi razziali in poi).
Non ci sorprendano dunque i giovani in gita a Dachau, con saluto Hitleriano o con un accendino sotto la lapide che ricorda una sinagoga bruciata nella “notte dei cristalli”: sono solo i frutti malati di una semina amara. E non ci dovrà sorprendere se, fra qualche tempo, tornerà il ritornello secondo cui “con Mussolini almeno i treni arrivavano in orario”. Quel che manca in questo Paese è la memoria: forse i treni arrivavano in orario, ma certi partivano per Birkernau…
Date un’occhiata a questo sito: www.mussolini.net/, che si presenta come “Predappio tricolore souvenir”. Il catalogo è ricco; correte, perché ci sono anche gli aggiornamenti: nuove maglie (novità, bimbo e donna), berretti, busti, tagliacarte e orologi. Non so se ci siano offertissime 3 x 2, o se possiate avere gratis una daga assieme a tre accendini o viceversa (potete scegliere tra i modelli con croce celtica, con svastica, con Hitler: vasta gamma a disposizione).
Ma, per dirla tutta, a me preoccupa meno Predappio o l’allegra scampagnata dei naziskin che non chi, da quel pulpito culturale che è Porta a Porta, rivisitò la storia politica e familiare di Mussolini con intenti di riabilitazione. Certo, la televisione può essere un frullatore che riduce tutto a una poltiglia disgustosa, ma a noi tocca inghiottirla…
Chiarisco subito: non sto paragonando secondo criteri di priorità o di indignazione quella riabilitazione un po’ cialtrona con il merchandaising di Predappio, o con la gita a Dachau (che restano più gravi), ma sto evidenziando i nessi causali, cercando di spiegare dove sta la causa e dove sta l’effetto. Perchè viviamo in tempi in cui certi commentatori amano rivisitare la storia del ventennio, sostenendo che il fascismo non fu solo una dittatura spietata, o che le sue colpe sono tutte da circoscrivere alla sua ultima fase (sommariamente dalle leggi razziali in poi).
Non ci sorprendano dunque i giovani in gita a Dachau, con saluto Hitleriano o con un accendino sotto la lapide che ricorda una sinagoga bruciata nella “notte dei cristalli”: sono solo i frutti malati di una semina amara. E non ci dovrà sorprendere se, fra qualche tempo, tornerà il ritornello secondo cui “con Mussolini almeno i treni arrivavano in orario”. Quel che manca in questo Paese è la memoria: forse i treni arrivavano in orario, ma certi partivano per Birkernau…
mercoledì 3 ottobre 2007
Ti ricordi di Emmett Till?
Caro direttore,
ti ricordi di Emmett Till? Era un bambino, era ancora un bambino. Aveva 14 anni e la pelle del colore sbagliato, quando nel 1955 due uomini dalla carnagione diversa lo rapirono. Emmett si trovava in una cittadina del Mississippi, dove era arrivato con la sua famiglia da Chicago, in visita ad alcuni parenti. Sembra che quel pomeriggio avesse azzardato un complimento verso una donna bianca, forse uno di quegli apprezzamenti un po’ grevi che, a quell’età, fanno sentire più grandi.
“Lo torturarono e gli fecero delle cose troppo malvage per essere menzionate”, cantò Bob Dylan. Io le voglio invece ricordare: lo picchiarono fino a ridurlo in fin di vita, poi gli cavarono gli occhi, gli spararono un colpo alla nuca e lo gettarono in un fiume.
I suoi assassini non furono puniti. Nel 2005 le autorità americane, in seguito a nuove testimonianze, annunciarono nuove indagini e la possibile riapertura del caso; non conosco gli sviluppi successivi.
Perché ti racconto tutto questo? Perché Federico Aldrovandi aveva pochi anni più di Emmett Till, 18 compiuti da poco, quando ha trovato la morte il 25 settembre 2005, nel corso di un controllo di polizia. Il 19 ottobre inizierà il processo contro 4 agenti coinvolti in quel “controllo”.
Fino alla sentenza non possiamo parlare di colpevolezza, ma sappiamo che Federico morì chiedendo “basta”. Come fece, probabilmente, quel bambino di Chicago che non ebbe la giustizia che – voglio sperare – avrà Federico. Aspettando la sentenza possiamo però ricordare quanto Bob Dylan scrisse proprio per Emmett Till: “Se non siete in grado di protestare contro una cosa simile, un delitto così odioso, i vostri occhi sono pieni di terra sepolcrale, la vostra mente è coperta di polvere. Le vostre braccia e le vostre gambe devono essere in ceppi e catene ed il vostro sangue si rifiuta di scorrere. Perchè avete lasciato che questa razza umana degenerasse in maniera così orribile”.
Francesco “baro” Barilli
pubblicato su Liberazione del 3 ottobre 2007. Pubblicato anche su http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/
ti ricordi di Emmett Till? Era un bambino, era ancora un bambino. Aveva 14 anni e la pelle del colore sbagliato, quando nel 1955 due uomini dalla carnagione diversa lo rapirono. Emmett si trovava in una cittadina del Mississippi, dove era arrivato con la sua famiglia da Chicago, in visita ad alcuni parenti. Sembra che quel pomeriggio avesse azzardato un complimento verso una donna bianca, forse uno di quegli apprezzamenti un po’ grevi che, a quell’età, fanno sentire più grandi.
“Lo torturarono e gli fecero delle cose troppo malvage per essere menzionate”, cantò Bob Dylan. Io le voglio invece ricordare: lo picchiarono fino a ridurlo in fin di vita, poi gli cavarono gli occhi, gli spararono un colpo alla nuca e lo gettarono in un fiume.
I suoi assassini non furono puniti. Nel 2005 le autorità americane, in seguito a nuove testimonianze, annunciarono nuove indagini e la possibile riapertura del caso; non conosco gli sviluppi successivi.
Perché ti racconto tutto questo? Perché Federico Aldrovandi aveva pochi anni più di Emmett Till, 18 compiuti da poco, quando ha trovato la morte il 25 settembre 2005, nel corso di un controllo di polizia. Il 19 ottobre inizierà il processo contro 4 agenti coinvolti in quel “controllo”.
Fino alla sentenza non possiamo parlare di colpevolezza, ma sappiamo che Federico morì chiedendo “basta”. Come fece, probabilmente, quel bambino di Chicago che non ebbe la giustizia che – voglio sperare – avrà Federico. Aspettando la sentenza possiamo però ricordare quanto Bob Dylan scrisse proprio per Emmett Till: “Se non siete in grado di protestare contro una cosa simile, un delitto così odioso, i vostri occhi sono pieni di terra sepolcrale, la vostra mente è coperta di polvere. Le vostre braccia e le vostre gambe devono essere in ceppi e catene ed il vostro sangue si rifiuta di scorrere. Perchè avete lasciato che questa razza umana degenerasse in maniera così orribile”.
Francesco “baro” Barilli
pubblicato su Liberazione del 3 ottobre 2007. Pubblicato anche su http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/
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