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giovedì 23 gennaio 2020

“Italo”, di Vincenzo Filosa (Rizzoli Lizard)

Prima di iniziare devo spiegarti la Strategia di Lettura delle Due Torri.
Di fumetti da leggere ne ho talmente tanti che sono impilati in due torri su uno scaffale. Una non basta, collasserebbe su se stessa.
Quando prendo un fumetto nuovo finisce su una pila. Al massimo, se sono cose seriali, cerco di mantenere l’ordine, in modo da leggere il numero 1 prima del 3, capiscimi. L’ordine di lettura, per il resto, è “a cazzo”: scavo negli strati geologici delle due torri e lo piglio.
Ok, te lo concedo e l’ammetto: è una strategia stupida. Ma non ho tempo di fare di meglio.
La Strategia delle Due Torri viene stravolta in poche situazioni. Di solito, succede se sfoglio un fumetto e qualcosa mi colpisce.
Ora, tieni a mente questa cosa delle Due Torri.

Apro “Italo”, di Vincenzo Filosa. E trovo, all’inizio, alcune tavole in cui l’autore “strizza” la griglia, la comprime come una gabbia in cui la realtà e l’incubo si mischiano, in vignette sempre più piccole e “pipe” sempre più angoscianti.
Allora mi dico che devo leggerlo senza impilarlo. Che messa così suona proprio ridicola. Sembro Ash che dice “scelgo te” a un Pokemon… Ma è così che è andata.

Adesso magari ti aspetti una recensione. Giusto, legittimo. Però non le amo, anche se in passato ne ho scritte. Dirti però di cosa parla il libro non ho mai pensato sia tanto utile. Vai su Amazon o cose del genere e trovi una sinossi: vedi l’argomento, decidi se t’interessa e bene così. Dirò solo che è un racconto ruvidamente autobiografico, ritratto di una discesa nell’abisso di un uomo incasinato e sofferente, stressato da mille casini, mostrato in tutte le bassezze e l’individualismo e le miserie a cui, portati dalle circostanze, si può arrivare. E poi, sempre senza indulgenza o retorica, il racconto ci mostra il protagonista tornare a vedere la luce.

Insomma, invece della solita rece, ti regalo un aneddoto.
Sarà stato il 1983. Bevevo spesso e troppo. Non ero dipendente, avrei potuto smettere o almeno credo o così mi piace pensare. Un paio di volte mi trovai a dormire nell’androne di qualche condominio, senza ricordarmi come ci fossi finito. Una volta, in un vano scale… Ma non c’entra, adesso la mia nuova amica, Sclerosi, lo renderebbe impossibile oltre che ancora più stupido. Era per darti il contesto.
Scoprii Bukowski: probabilmente non avrei scritto una riga in vita se non mi fosse capitato quell’incontro virtuale.
Sicuramente anche lui scriveva di sé. Sicuramente avrà infarcito la biografia di elementi di fantasia, avrà esagerato e ingigantito tanti particolari. E non voglio tracciare un parallelismo fra il suo disagio, quello mio, o quello di Italo/Vincenzo.
Il punto è un altro. Dell’autore di “Factotum” o “Storie di ordinaria follia” mi conquistò la ruvida sincerità. Perché, lo senti se lo leggi, lui era sincero anche quando esagerava o cazzeggiava.

Fine dell’aneddoto. Torno a pochi giorni fa.
Ero a Cremona, quando Vincenzo l’ha presentato (il libro suo, mica uno di Bukowski. Non perdere il filo, su…). Porto con me il piacevole sapore della chiacchierata che abbiamo fatto al termine della presentazione.
(Anche di quello che ha detto durante, eh, solo che sono mezzo sordo e sentivo una parola sì e tre no… quindi non so se lui abbia specificato se il racconto è totalmente autobiografico o quanti margini di fantasia ci siano. A naso, non credo molti e in fondo non è importante saperlo…)
Ma il punto, dicevo, è che a casa il libro, invece che sulle Due Torri, è finito fra le mie mani, sfogliato fino a quella “griglia strizzata” che ti dicevo. La lettura, poi, è filata via liscia in un’ora e ci ho trovato quella ruvida sincerità che trovai nelle pagine di Bukowski.

La vita è una bestia complicata e indecifrabile. Noi (esseri umani, dico) siamo bestie complicate e indecifrabili. Non bastano affetti o un lavoro che ti piaccia e “ti realizzi”: le nostre paure, le nostre dipendenze, le idiosincrasie la cui esistenza neghiamo in primo luogo a noi stessi, ci stringono la gola. E retorica o autoindulgenza non servono, nè a risolverle nè a raccontarle.

Educazione di un reazionario, recita il sottotitolo del libro di Vincenzo. Perché in ognuno può esserci, o c’è, un reazionario. Anzi, provo a spiegartelo meglio. In ognuno di noi c’è un mediocre. Conoscerlo può significare sconfiggerlo, o almeno zittirlo e spiegargli chi comanda.
E aiuta anche scriverne. Perché conosco i limiti degli aforismi, ma Hemingway diceva “Scrivi forte e chiaro su ciò che fa male”, o qualcosa del genere. E’ un bell’insegnamento, una bella bussola, dai. E comunque, Vincenzo l’ha fatto.

Francesco "baro" Barilli