martedì 13 novembre 2012

Su “Il boia di Parigi” e “Appunti di un boia”

L’altra volta ho detto che scrivo raramente “sui” fumetti o “di” fumetti. Mi contraddico e lo faccio nuovamente, a pochi giorni di distanza dall’ultimo intervento (e tutto sommato non è detto che, tempo permettendo, non mi rimetta a farlo con più continuità).

Pochi giorni fa, col mio solito ritardo, ho letto “Il boia di Parigi”, di Paola Barbato e Giampiero Casertano, primo numero della nuova collana Le Storie della Bonelli.
Non mi dilungo sul fumetto di Barbato e Casertano: cercando in rete potete trovare diverse recensioni (qui per esempio); ma soprattutto ve ne consiglio la lettura: davvero molto bello.

Ora, una piccola digressione e un salto indietro nel tempo… (premetto subito, e lo chiarirò meglio poi, che da parte mia non c’è nessuna intenzione polemica).

Nel gennaio 2007, in uno dei primi post su questo blog (all’epoca ospite di splinder; poi sono passato a blogspot) scrivevo:

Era da tempo che pensavo di aprire un blog, e la decisione è stata “facilitata” dalla circostanza dell’esecuzione capitale di Saddam Hussein, su cui ho scritto il primo intervento di questo diario virtuale. Intendo dire che il tema della pena di morte l’ho sempre sentito  molto “mio”, per cui mi è risultato naturale sbloccare la mia incertezza ed aprire il blog.
Ora, seguitemi, andiamo ad alcuni anni fa. Un periodo (sarà stato il ‘98 o il ‘99) in cui avevo riflettuto sulle esecuzioni capitali e ne era nato un racconto, “Appunti di un boia”. Avevo cercato di dare una forma “nuova” e provocatoria a quelle mie riflessioni: avevo immaginato che in un’ipotetica Italia del futuro la pena di morte fosse stata ripristinata … Avevo inoltre deciso di scegliere un punto di vista particolare: quello del boia, che a “fine carriera” racconta la sua versione dei fatti, scoprendosi più strumento e spettatore che non artefice di quei delitti legalizzati.
Anni dopo avevo dato una forma diversa e più ampia a quel racconto, trasformandolo in un romanzo. Avevo anche dato uno sviluppo diverso alla trama, approfondendo meglio il tardivo pentimento del boia e le sue conseguenze… Ma ora non è il caso di dilungarmi su questo. Vi basti sapere che il romanzo, seppure terminato, giace da tempo fra le mille cose da riguardare, da rivedere e correggere.
Oggi, sempre per quelle casualità cui accennavo all’inizio, ho scoperto che la mia idea di base (la pena di morte vista da un boia) non era poi così originale. Conoscevo di fama le “gesta” di Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello stato Pontificio fra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma non sapevo che questo signore avesse scritto le sue memorie (romanzate e adattate probabilmente a posteriori da altro autore). …


Se interessa, ecco la versione completa del post: “I casi in cui ogni tanto inciampa la vita”. Se guardate sulla colonna di sinistra di questo blog vedrete la sezione “Appunti di un boia”, che raccoglie le 4 parti del racconto originale, ampliato poi nella versione romanzo (sempre non pubblicato, ma su questo tornerò più avanti).

Voglio liberare il campo da potenziali equivoci. Non sto scrivendo per adombrare l’ipotesi che Paola Barbato si sia ispirata, neppure vagamente, al mio racconto (credo che lei sappia a malapena chi sono). Non lo penso e chi mi conosce sa che, se lo pensassi, lo direi. Credo sia molto più frequente di quanto si possa immaginare che due o anche più autori inseguano spunti narrativi simili, a volte addirittura uguali. Al massimo c’è un po’ di amarezza nel pensare d’aver lasciato un’idea comunque buona per troppo tempo a sedimentare in un cassetto. Ma questa, se è una colpa, è solo mia.

Mi rammarico semmai della mia arroganza, d’aver pensato d’aver avuto un’idea originale quando così originale non era. In sintesi: la condanna della pena di morte utilizzando un punto di vista che ritenevo “particolare”, ossia quello di un boia. Peraltro, ad onor del vero, qui c’è una differenza col lavoro di Barbato. Nel mio racconto la condanna delle esecuzioni capitali era dominante, rispetto alla trama; nel suo resta sottotraccia, non si fa mai esplicita. Il “suo” Charles Henri Sanson è personaggio centrale, anche perché storicamente reale, mentre il mio boia assume un ruolo quasi paradigmatico rispetto al messaggio che volevo lanciare (citando a braccio – Einstein se non sbaglio – “Il mondo è orribile non a causa di chi compie malvagità, ma a causa di chi osserva senza dire nulla”).

I due personaggi hanno comunque molte analogie, e questo non solo limitatamente alla considerazione (ovvia e persino banale) sulla loro professione. Entrambi sono caratterizzati da un’aura morale controversa: dispensatori di morte, lacerati da dubbi etici verso il loro compito, sono affascinati morbosamente da quella che in “Appunti” definisco “Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini”. Sono inoltre entrambi segnati da una propria forma di professionalità e rispondono a una loro etica, che per quanto possa apparire perversa seguono con coerenza. Il mio avrà un ripensamento verso il proprio ruolo, estraneo a Sanson, ma questa non è una vera differenza fra i due racconti (per Sanson, personaggio storico, sarebbe stata una forzatura; il mio è figura di fantasia per cui ho potuto muoverlo liberamente secondo la mia idea narrativa). Tutti e due tristi e malinconici, in fin dei conti assassini freddi ma “loro malgrado e per volontà altrui”, disillusi dalla vita e dai propri simili (torna valida qui la citazione di Einstein) appaiono comunque più “umani” della folla inferocita che scambia per giustizia una grottesca e primitiva ostentazione della violenza.
Anche la denuncia “sociale” dei due racconti presenta analogie, che in questo senso si fanno curiose e amare. Tanto all’epoca (reale) della rivoluzione francese nel racconto di Barbato, quanto nel futuro (immaginario) dell’Italia descritta in “Appunti di un boia”, emerge non tanto la violenza dei due “esecutori finali”, quanto quella di un sistema di potere ottuso, basato su un consenso popolare più “di pancia” che “di testa”, e assoluto. Per citare ancora il mio boia: “se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare. Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita”.

Ma ho scritto sin troppo. Il mio vecchio racconto potete leggerlo qui sul blog; di quello di Barbato e Casertano vi ho già consigliato la lettura.
Resta da dire che la versione romanzo di “Appunti di un boia” è stata poi completata ed è rimasta comunque nello stesso cassetto. Poi è diventata una sceneggiatura a fumetti. La sua realizzazione definitiva è in cantiere (non scervellatevi a indovinare chi sia il disegnatore!) ma non credo vedrà la luce in tempi brevi.


Francesco “baro” Barilli

lunedì 5 novembre 2012

Su Komikazen e “graphic journalism”

Chi mi conosce sa che, per quanto possa sembrare persino paradossale, da quando scrivo fumetti ho smesso di scrivere “sui” fumetti, come facevo in passato. Non ci sono motivi particolarmente “profondi” per questa scelta. Sì, da un lato non mi sentivo più a mio agio nel parlare del lavoro di quelli che erano diventati (m’imbarazza ancora dirlo) “miei colleghi”, e per lo stesso motivo ho praticamente smesso di frequentare forums fumettistici. Ma soprattutto, e più banalmente, è una questione di tempo: avendo in ballo progetti molto complessi (quello con Matteo Fenoglio su Piazza della Loggia, esteso al “quinquennio nero” 69/74 è addirittura in corso da fine 2009 e si concluderà solo l’anno prossimo) devo dedicare le mie energie a quelli. Per la stessa ragione, e questo apparirà ancora più paradossale, da quando scrivo fumetti ne leggo meno.
Faccio un’eccezione dunque per parlare di Komikazen.

Non mi dilungherò troppo a descrivere Komikazen; per chi non sapesse di cosa si tratta, vedere il link. Basti dire che in questi anni ho conosciuto molte persone che mettono in piedi iniziative interessanti, meritorie e di ottimi contenuti, con entusiasmo e magari non sempre con capacità “pratiche” all’altezza. Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini e con loro l’Associazione Culturale Mirada sanno invece unire competenza e passione, entusiasmo e capacità organizzative. Questo breve ma sincero riconoscimento valga anche quale ringraziamento per le giornate che ho passato con loro a Ravenna!!! (e nell’abbraccio virtuale unisco tutti gli amici, vecchi e nuovi, che ho incontrato nell’occasione!).

Di seguito trovate i filmati di alcuni incontri tenutisi a Ravenna quest’anno; al primo ho partecipato direttamente, assieme a Manuel De Carli e altri ancora. Sono tutti molto interessanti e ve ne consiglio la visione (se spulciate su youtube cercando “komikazen” ne troverete anche delle passate edizioni).






Nel corso degli incontri si è parlato molto di graphic novel, graphic journalism e di tutte le varie sfumature con cui si può declinare questo lavoro.
Mi soffermo in particolare su due aspetti. Il primo è quello portato da un giornalista (almeno credo fosse un giornalista; mi sembra si chiamasse Domenico) intervenuto nel corso del dibattito a cui ero presente: vedere il primo filmato, circa dal minuto 47’00” in poi; nel seguito potete sentire le diverse risposte, fra cui la mia, che vorrei ora puntualizzare meglio e a mente fredda.

Innanzitutto, come ho detto già diverse volte, non sono particolarmente affezionato alle etichette. Credo, in particolare, che il fumetto soffra del bisogno di affrancarsi del complesso d’inferiorità da “arte minore” e cerchi attraverso queste formule un modo surrettizio per entrare nel “salotto buono” della cultura.
Non penso ce ne sia bisogno. Il cinema, per parlare di una forma espressiva vecchia più o meno quanto il fumetto, nei sui cento e passa anni di vita ci ha dato Altman, Kubrick, Kieslowski … Boldi e i Vanzina… Ma tutti i loro lavori sono definiti “film”: non si è scelto di chiamare “cinematographic novel” un lavoro di Kubrick per distinguerlo da altri, più leggeri o addirittura definibili con le stesse parole usate dal ragionier Fantozzi per la Corazzata Potemkin… E si potrebbe fare lo stesso ragionamento per i romanzi, tanto per dire.
Nel caso del fumetto, invece, anche tra addetti ai lavori qualificati e competenti sembra ci sia la fregola di dividere le varie pubblicazioni in sottocategorie. Come se non fosse abbastanza chiaro che col fumetto si può fare di tutto: intrattenimento, narrativa “pura”, ricerca storica, contaminazione fra generi ecc. E lo si può fare bene o male, con risultati artistici validi o meno, con intenti didattici o con un’attenzione maggiore alla forma espressiva adottata.
Fermo restando questo, l’intervento del giornalista a Ravenna non era privo di senso. La “forma” era sbagliata (meglio: partiva da un presupposto sbagliato): dalle sue parole sembra quasi che il fumetto, nel momento in cui si propone di narrare un fatto storico, si scontri con un limite endemico, che non possa fare altro che riprodurre – didatticamente e didascalicamente – quella storia, senza poter coltivare ambizioni “estetiche”. È chiaro che qualsiasi autore, non solo nel fumetto, quando propone una trama di totale fantasia è signore e padrone dei propri personaggi, può muoverli liberamente sulla scacchiera della sua storia. Chi invece fa graphic journalism (usiamo pure l’etichetta, tanto per semplificare) entra in un recinto e i suoi movimenti hanno i limiti (temporali, fattuali, di contesto ambientale) di quel recinto. Questo non significa però che sia costretto all’immobilismo. La sfida, semmai, sta proprio nel riuscire a dare un valore aggiunto alla propria narrazione, nel riuscire a offrire un prodotto che sia valido artisticamente, oltre che rigoroso storicamente e onesto intellettualmente (definizione che, ho spiegato a Ravenna, non coincide con l’imparzialità del robot privo di sentimenti o con una equidistanza adottata quasi come “scelta di vita” obbligata del cronista).
Non prenderò ad esempio lavori miei (non sono così arrogante) o dei tanti amici/colleghi presenti a Ravenna (per non essere tacciato di piaggeria o di voler difendere “una casta”): mi sembra che Joe Sacco riesca nell’intento (e ne approfitto per dire ad Elettra che anch’io amo moltissimo “Gaza 1956”).

Se però la forma era sbagliata, l’intervento di Domenico poneva un problema reale… Ma su questo tornerò più avanti, perché l’aver menzionato Sacco mi porta ad affrontare il secondo aspetto di cui volevo parlare.

In un altro incontro di Komikazen (vedi il quarto video linkato sopra) Riccardo Mannelli ha detto di trovare noioso Sacco e di non essere particolarmente interessato a questo tipo di graphic journalism (scusate: ho brutalizzato e semplificato le sue parole: vedere il video per una versione completa e meno banalizzata). In sostanza, seppure in modo diverso da Domenico, sembra che Mannelli veda anche lui quel “limite endemico” nel “fumetto di realtà”, perlomeno quando questo non propone soluzioni artistiche innovative o comunque “pregnanti” rispetto alla storia che si vuole narrare.
Sia chiaro: la mia non è una critica a Mannelli (artista splendido, di cui sottoscriverei il restante 99 per cento dell’intervento). Semplicemente ho trovato che la sua definizione “Sacco è noioso” sia una spia linguistica interessante (e preoccupante) proprio per quella forma d’arte (il fumetto) che io e lui, come tutti quelli che erano a Komikazen, amiamo.
Anche su questo aspetto Elettra è stata puntuale nel rispondere. Sacco lo leggi con fatica, lo devi affrontare con concentrazione, quasi con dedizione. Ma questo non costituisce un difetto dei suoi lavori. Nessuno, almeno credo, direbbe che “Il Maestro e Margherita” o “Memorie di Adriano” sono belli, sì, ma noiosi. Per meglio dire, nessuno, nel caso di un romanzo, butterebbe sul piatto negativo della bilancia la – diciamo così – “pesantezza di lettura” (che può certamente esserci, ci mancherebbe!). Bulgakov e Yourcenar sono pesanti? Sì, e non per questo si deve intendere la loro “pesantezza” come elemento che ne caratterizza la lettura in negativo: stessa cosa la si dovrebbe poter dire per un fumetto.
A questo proposito, volevo segnalare uno scambio di battute, breve ma a mio avviso significativo, fra Elettra e Domenico subito dopo l’intervento di quest’ultimo. Elettra ha giustamente osservato: “ci si può anche annoiare qualche volta…” (“pure leggendo un fumetto”, intendeva). Domenico ha risposto con un’altra interessante spia linguistica: “allora mi leggo un libro!”, quasi che al “libro vero e proprio” si possa concedere persino quel lusso della “pesantezza” che il fumetto – secondo lui – dovrebbe invece evitare come la peste.
In buona sostanza (io l’ho fatta fin troppo lunga) per alcuni – sottolineo: anche nel nostro ambiente – sembra sia necessario che il fumetto, anche quando “impegnato”, debba essere connotato da una maggiore agilità di lettura. Altrimenti “tanto vale fare un saggio”. Se è in questo modo che speriamo, come dicevo prima, di entrare nel “salotto buono” della cultura, faremo sempre un buco nell’acqua.

Però è innegabile che la lettura combinata dei due interventi (il giornalista e Mannelli) un problema lo pone. E’ vero che alcuni “fumetti di realtà” sembrano scorciatoie adottate (spesso in buona fede: chi lo fa in malafede entra in un altro discorso e non è degno di commento) per raccontare una storia? E’ vero che non tutti i “fumetti di realtà” sono anche prodotti artisticamente validi?
E’ vero, purtroppo. In parte lo vedo come un problema inevitabile (non ripeterò quanto detto a Ravenna: vedere ancora, se interessa, il primo video linkato sopra). Ma è comunque una questione che va affrontata da parte di chi, come me e gli autori presenti a Komikazen, non si ritengono “fumettisti per caso”, ma hanno l’obbiettivo (l’ambizione?) di utilizzare il mezzo espressivo fumetto secondo tutte le sue potenzialità, anche estetiche e artistiche.
Questo, a mio avviso, è un altro merito di Elettra e Gianluca; un merito che non so neppure se sia intenzionale e di cui siano pienamente consci. Se il fumetto di realtà è stato, in Italia e fin qui, fenomeno in espansione ma comunque episodico e privo di una sua codifica quasi “grammaticale”, Komikazen ha cercato di proporlo come un vero e proprio “movimento”. Non un movimento ideologico, s’intende, ma artistico; nella misura in cui si propone di agire – sempre nella libertà dei singoli autori – all’interno di alcuni canoni contenutistici ed estetici: la tensione etica, lo scrupolo nell’abbinare i doveri giornalistici (rispetto e uso appropriato delle fonti, ad esempio) e quelli propri del “linguaggio fumetto”, tanto per dirne solo alcuni.

Francesco “baro” Barilli


“Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno”

Dal 28 novembre sarà in libreria “Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno” (Mimesis Edizioni www.mimesisedizioni.it). A cura di Stefano Cardini.

Il libro contiene interventi di Roberta De Monticelli, David Bidussa, Stefano Cardini, Maurizio Cau, Paolo Costa, Luciano Lanza, Guido Salvini, Giuseppe Strazzeri, e uno mio e di Matteo Fenoglio imperniato sulle nostre ricerche sulle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia e sull’uso del “mezzo” fumetto per raccontare queste tragedie.

Spero vi interessi. Io e Matteo abbiamo partecipato con sincera passione a questa iniziativa.

“Tutti coloro che hanno partecipato a questo libro hanno accettato di devolvere la quota parte del ricavato loro spettante per diritto d’autore all’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969, fondata dai familiari delle vittime della strage.”