Una bella recensione di "Piazza della Loggia vol 1".
Leggete qui
(e grazie a Daniele Salerno, autore del pezzo).
domenica 30 dicembre 2012
mercoledì 19 dicembre 2012
Documento anonimo riapre il caso sulla morte di G.C.
mercoledì 5 dicembre 2012
martedì 13 novembre 2012
Su “Il boia di Parigi” e “Appunti di un boia”
L’altra volta ho detto che scrivo raramente “sui” fumetti o “di” fumetti. Mi contraddico e lo faccio nuovamente, a pochi giorni di distanza dall’ultimo intervento (e tutto sommato non è detto che, tempo permettendo, non mi rimetta a farlo con più continuità).
Pochi giorni fa, col mio solito ritardo, ho letto “Il boia di Parigi”, di Paola Barbato e Giampiero Casertano, primo numero della nuova collana Le Storie della Bonelli.
Non mi dilungo sul fumetto di Barbato e Casertano: cercando in rete potete trovare diverse recensioni (qui per esempio); ma soprattutto ve ne consiglio la lettura: davvero molto bello.
Ora, una piccola digressione e un salto indietro nel tempo… (premetto subito, e lo chiarirò meglio poi, che da parte mia non c’è nessuna intenzione polemica).
Nel gennaio 2007, in uno dei primi post su questo blog (all’epoca ospite di splinder; poi sono passato a blogspot) scrivevo:
Era da tempo che pensavo di aprire un blog, e la decisione è stata “facilitata” dalla circostanza dell’esecuzione capitale di Saddam Hussein, su cui ho scritto il primo intervento di questo diario virtuale. Intendo dire che il tema della pena di morte l’ho sempre sentito molto “mio”, per cui mi è risultato naturale sbloccare la mia incertezza ed aprire il blog.
Ora, seguitemi, andiamo ad alcuni anni fa. Un periodo (sarà stato il ‘98 o il ‘99) in cui avevo riflettuto sulle esecuzioni capitali e ne era nato un racconto, “Appunti di un boia”. Avevo cercato di dare una forma “nuova” e provocatoria a quelle mie riflessioni: avevo immaginato che in un’ipotetica Italia del futuro la pena di morte fosse stata ripristinata … Avevo inoltre deciso di scegliere un punto di vista particolare: quello del boia, che a “fine carriera” racconta la sua versione dei fatti, scoprendosi più strumento e spettatore che non artefice di quei delitti legalizzati.
Anni dopo avevo dato una forma diversa e più ampia a quel racconto, trasformandolo in un romanzo. Avevo anche dato uno sviluppo diverso alla trama, approfondendo meglio il tardivo pentimento del boia e le sue conseguenze… Ma ora non è il caso di dilungarmi su questo. Vi basti sapere che il romanzo, seppure terminato, giace da tempo fra le mille cose da riguardare, da rivedere e correggere.
Oggi, sempre per quelle casualità cui accennavo all’inizio, ho scoperto che la mia idea di base (la pena di morte vista da un boia) non era poi così originale. Conoscevo di fama le “gesta” di Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello stato Pontificio fra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma non sapevo che questo signore avesse scritto le sue memorie (romanzate e adattate probabilmente a posteriori da altro autore). …
Se interessa, ecco la versione completa del post: “I casi in cui ogni tanto inciampa la vita”. Se guardate sulla colonna di sinistra di questo blog vedrete la sezione “Appunti di un boia”, che raccoglie le 4 parti del racconto originale, ampliato poi nella versione romanzo (sempre non pubblicato, ma su questo tornerò più avanti).
Voglio liberare il campo da potenziali equivoci. Non sto scrivendo per adombrare l’ipotesi che Paola Barbato si sia ispirata, neppure vagamente, al mio racconto (credo che lei sappia a malapena chi sono). Non lo penso e chi mi conosce sa che, se lo pensassi, lo direi. Credo sia molto più frequente di quanto si possa immaginare che due o anche più autori inseguano spunti narrativi simili, a volte addirittura uguali. Al massimo c’è un po’ di amarezza nel pensare d’aver lasciato un’idea comunque buona per troppo tempo a sedimentare in un cassetto. Ma questa, se è una colpa, è solo mia.
Mi rammarico semmai della mia arroganza, d’aver pensato d’aver avuto un’idea originale quando così originale non era. In sintesi: la condanna della pena di morte utilizzando un punto di vista che ritenevo “particolare”, ossia quello di un boia. Peraltro, ad onor del vero, qui c’è una differenza col lavoro di Barbato. Nel mio racconto la condanna delle esecuzioni capitali era dominante, rispetto alla trama; nel suo resta sottotraccia, non si fa mai esplicita. Il “suo” Charles Henri Sanson è personaggio centrale, anche perché storicamente reale, mentre il mio boia assume un ruolo quasi paradigmatico rispetto al messaggio che volevo lanciare (citando a braccio – Einstein se non sbaglio – “Il mondo è orribile non a causa di chi compie malvagità, ma a causa di chi osserva senza dire nulla”).
I due personaggi hanno comunque molte analogie, e questo non solo limitatamente alla considerazione (ovvia e persino banale) sulla loro professione. Entrambi sono caratterizzati da un’aura morale controversa: dispensatori di morte, lacerati da dubbi etici verso il loro compito, sono affascinati morbosamente da quella che in “Appunti” definisco “Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini”. Sono inoltre entrambi segnati da una propria forma di professionalità e rispondono a una loro etica, che per quanto possa apparire perversa seguono con coerenza. Il mio avrà un ripensamento verso il proprio ruolo, estraneo a Sanson, ma questa non è una vera differenza fra i due racconti (per Sanson, personaggio storico, sarebbe stata una forzatura; il mio è figura di fantasia per cui ho potuto muoverlo liberamente secondo la mia idea narrativa). Tutti e due tristi e malinconici, in fin dei conti assassini freddi ma “loro malgrado e per volontà altrui”, disillusi dalla vita e dai propri simili (torna valida qui la citazione di Einstein) appaiono comunque più “umani” della folla inferocita che scambia per giustizia una grottesca e primitiva ostentazione della violenza.
Anche la denuncia “sociale” dei due racconti presenta analogie, che in questo senso si fanno curiose e amare. Tanto all’epoca (reale) della rivoluzione francese nel racconto di Barbato, quanto nel futuro (immaginario) dell’Italia descritta in “Appunti di un boia”, emerge non tanto la violenza dei due “esecutori finali”, quanto quella di un sistema di potere ottuso, basato su un consenso popolare più “di pancia” che “di testa”, e assoluto. Per citare ancora il mio boia: “se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare. Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita”.
Ma ho scritto sin troppo. Il mio vecchio racconto potete leggerlo qui sul blog; di quello di Barbato e Casertano vi ho già consigliato la lettura.
Resta da dire che la versione romanzo di “Appunti di un boia” è stata poi completata ed è rimasta comunque nello stesso cassetto. Poi è diventata una sceneggiatura a fumetti. La sua realizzazione definitiva è in cantiere (non scervellatevi a indovinare chi sia il disegnatore!) ma non credo vedrà la luce in tempi brevi.
Francesco “baro” Barilli
Pochi giorni fa, col mio solito ritardo, ho letto “Il boia di Parigi”, di Paola Barbato e Giampiero Casertano, primo numero della nuova collana Le Storie della Bonelli.
Non mi dilungo sul fumetto di Barbato e Casertano: cercando in rete potete trovare diverse recensioni (qui per esempio); ma soprattutto ve ne consiglio la lettura: davvero molto bello.
Ora, una piccola digressione e un salto indietro nel tempo… (premetto subito, e lo chiarirò meglio poi, che da parte mia non c’è nessuna intenzione polemica).
Nel gennaio 2007, in uno dei primi post su questo blog (all’epoca ospite di splinder; poi sono passato a blogspot) scrivevo:
Era da tempo che pensavo di aprire un blog, e la decisione è stata “facilitata” dalla circostanza dell’esecuzione capitale di Saddam Hussein, su cui ho scritto il primo intervento di questo diario virtuale. Intendo dire che il tema della pena di morte l’ho sempre sentito molto “mio”, per cui mi è risultato naturale sbloccare la mia incertezza ed aprire il blog.
Ora, seguitemi, andiamo ad alcuni anni fa. Un periodo (sarà stato il ‘98 o il ‘99) in cui avevo riflettuto sulle esecuzioni capitali e ne era nato un racconto, “Appunti di un boia”. Avevo cercato di dare una forma “nuova” e provocatoria a quelle mie riflessioni: avevo immaginato che in un’ipotetica Italia del futuro la pena di morte fosse stata ripristinata … Avevo inoltre deciso di scegliere un punto di vista particolare: quello del boia, che a “fine carriera” racconta la sua versione dei fatti, scoprendosi più strumento e spettatore che non artefice di quei delitti legalizzati.
Anni dopo avevo dato una forma diversa e più ampia a quel racconto, trasformandolo in un romanzo. Avevo anche dato uno sviluppo diverso alla trama, approfondendo meglio il tardivo pentimento del boia e le sue conseguenze… Ma ora non è il caso di dilungarmi su questo. Vi basti sapere che il romanzo, seppure terminato, giace da tempo fra le mille cose da riguardare, da rivedere e correggere.
Oggi, sempre per quelle casualità cui accennavo all’inizio, ho scoperto che la mia idea di base (la pena di morte vista da un boia) non era poi così originale. Conoscevo di fama le “gesta” di Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello stato Pontificio fra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma non sapevo che questo signore avesse scritto le sue memorie (romanzate e adattate probabilmente a posteriori da altro autore). …
Se interessa, ecco la versione completa del post: “I casi in cui ogni tanto inciampa la vita”. Se guardate sulla colonna di sinistra di questo blog vedrete la sezione “Appunti di un boia”, che raccoglie le 4 parti del racconto originale, ampliato poi nella versione romanzo (sempre non pubblicato, ma su questo tornerò più avanti).
Voglio liberare il campo da potenziali equivoci. Non sto scrivendo per adombrare l’ipotesi che Paola Barbato si sia ispirata, neppure vagamente, al mio racconto (credo che lei sappia a malapena chi sono). Non lo penso e chi mi conosce sa che, se lo pensassi, lo direi. Credo sia molto più frequente di quanto si possa immaginare che due o anche più autori inseguano spunti narrativi simili, a volte addirittura uguali. Al massimo c’è un po’ di amarezza nel pensare d’aver lasciato un’idea comunque buona per troppo tempo a sedimentare in un cassetto. Ma questa, se è una colpa, è solo mia.
Mi rammarico semmai della mia arroganza, d’aver pensato d’aver avuto un’idea originale quando così originale non era. In sintesi: la condanna della pena di morte utilizzando un punto di vista che ritenevo “particolare”, ossia quello di un boia. Peraltro, ad onor del vero, qui c’è una differenza col lavoro di Barbato. Nel mio racconto la condanna delle esecuzioni capitali era dominante, rispetto alla trama; nel suo resta sottotraccia, non si fa mai esplicita. Il “suo” Charles Henri Sanson è personaggio centrale, anche perché storicamente reale, mentre il mio boia assume un ruolo quasi paradigmatico rispetto al messaggio che volevo lanciare (citando a braccio – Einstein se non sbaglio – “Il mondo è orribile non a causa di chi compie malvagità, ma a causa di chi osserva senza dire nulla”).
I due personaggi hanno comunque molte analogie, e questo non solo limitatamente alla considerazione (ovvia e persino banale) sulla loro professione. Entrambi sono caratterizzati da un’aura morale controversa: dispensatori di morte, lacerati da dubbi etici verso il loro compito, sono affascinati morbosamente da quella che in “Appunti” definisco “Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini”. Sono inoltre entrambi segnati da una propria forma di professionalità e rispondono a una loro etica, che per quanto possa apparire perversa seguono con coerenza. Il mio avrà un ripensamento verso il proprio ruolo, estraneo a Sanson, ma questa non è una vera differenza fra i due racconti (per Sanson, personaggio storico, sarebbe stata una forzatura; il mio è figura di fantasia per cui ho potuto muoverlo liberamente secondo la mia idea narrativa). Tutti e due tristi e malinconici, in fin dei conti assassini freddi ma “loro malgrado e per volontà altrui”, disillusi dalla vita e dai propri simili (torna valida qui la citazione di Einstein) appaiono comunque più “umani” della folla inferocita che scambia per giustizia una grottesca e primitiva ostentazione della violenza.
Anche la denuncia “sociale” dei due racconti presenta analogie, che in questo senso si fanno curiose e amare. Tanto all’epoca (reale) della rivoluzione francese nel racconto di Barbato, quanto nel futuro (immaginario) dell’Italia descritta in “Appunti di un boia”, emerge non tanto la violenza dei due “esecutori finali”, quanto quella di un sistema di potere ottuso, basato su un consenso popolare più “di pancia” che “di testa”, e assoluto. Per citare ancora il mio boia: “se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare. Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita”.
Ma ho scritto sin troppo. Il mio vecchio racconto potete leggerlo qui sul blog; di quello di Barbato e Casertano vi ho già consigliato la lettura.
Resta da dire che la versione romanzo di “Appunti di un boia” è stata poi completata ed è rimasta comunque nello stesso cassetto. Poi è diventata una sceneggiatura a fumetti. La sua realizzazione definitiva è in cantiere (non scervellatevi a indovinare chi sia il disegnatore!) ma non credo vedrà la luce in tempi brevi.
Francesco “baro” Barilli
lunedì 5 novembre 2012
Su Komikazen e “graphic journalism”
Chi mi conosce sa che, per quanto possa sembrare persino paradossale, da quando scrivo fumetti ho smesso di scrivere “sui” fumetti, come facevo in passato. Non ci sono motivi particolarmente “profondi” per questa scelta. Sì, da un lato non mi sentivo più a mio agio nel parlare del lavoro di quelli che erano diventati (m’imbarazza ancora dirlo) “miei colleghi”, e per lo stesso motivo ho praticamente smesso di frequentare forums fumettistici. Ma soprattutto, e più banalmente, è una questione di tempo: avendo in ballo progetti molto complessi (quello con Matteo Fenoglio su Piazza della Loggia, esteso al “quinquennio nero” 69/74 è addirittura in corso da fine 2009 e si concluderà solo l’anno prossimo) devo dedicare le mie energie a quelli. Per la stessa ragione, e questo apparirà ancora più paradossale, da quando scrivo fumetti ne leggo meno.
Faccio un’eccezione dunque per parlare di Komikazen.
Non mi dilungherò troppo a descrivere Komikazen; per chi non sapesse di cosa si tratta, vedere il link. Basti dire che in questi anni ho conosciuto molte persone che mettono in piedi iniziative interessanti, meritorie e di ottimi contenuti, con entusiasmo e magari non sempre con capacità “pratiche” all’altezza. Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini e con loro l’Associazione Culturale Mirada sanno invece unire competenza e passione, entusiasmo e capacità organizzative. Questo breve ma sincero riconoscimento valga anche quale ringraziamento per le giornate che ho passato con loro a Ravenna!!! (e nell’abbraccio virtuale unisco tutti gli amici, vecchi e nuovi, che ho incontrato nell’occasione!).
Di seguito trovate i filmati di alcuni incontri tenutisi a Ravenna quest’anno; al primo ho partecipato direttamente, assieme a Manuel De Carli e altri ancora. Sono tutti molto interessanti e ve ne consiglio la visione (se spulciate su youtube cercando “komikazen” ne troverete anche delle passate edizioni).
Nel corso degli incontri si è parlato molto di graphic novel, graphic journalism e di tutte le varie sfumature con cui si può declinare questo lavoro.
Mi soffermo in particolare su due aspetti. Il primo è quello portato da un giornalista (almeno credo fosse un giornalista; mi sembra si chiamasse Domenico) intervenuto nel corso del dibattito a cui ero presente: vedere il primo filmato, circa dal minuto 47’00” in poi; nel seguito potete sentire le diverse risposte, fra cui la mia, che vorrei ora puntualizzare meglio e a mente fredda.
Innanzitutto, come ho detto già diverse volte, non sono particolarmente affezionato alle etichette. Credo, in particolare, che il fumetto soffra del bisogno di affrancarsi del complesso d’inferiorità da “arte minore” e cerchi attraverso queste formule un modo surrettizio per entrare nel “salotto buono” della cultura.
Non penso ce ne sia bisogno. Il cinema, per parlare di una forma espressiva vecchia più o meno quanto il fumetto, nei sui cento e passa anni di vita ci ha dato Altman, Kubrick, Kieslowski … Boldi e i Vanzina… Ma tutti i loro lavori sono definiti “film”: non si è scelto di chiamare “cinematographic novel” un lavoro di Kubrick per distinguerlo da altri, più leggeri o addirittura definibili con le stesse parole usate dal ragionier Fantozzi per la Corazzata Potemkin… E si potrebbe fare lo stesso ragionamento per i romanzi, tanto per dire.
Nel caso del fumetto, invece, anche tra addetti ai lavori qualificati e competenti sembra ci sia la fregola di dividere le varie pubblicazioni in sottocategorie. Come se non fosse abbastanza chiaro che col fumetto si può fare di tutto: intrattenimento, narrativa “pura”, ricerca storica, contaminazione fra generi ecc. E lo si può fare bene o male, con risultati artistici validi o meno, con intenti didattici o con un’attenzione maggiore alla forma espressiva adottata.
Fermo restando questo, l’intervento del giornalista a Ravenna non era privo di senso. La “forma” era sbagliata (meglio: partiva da un presupposto sbagliato): dalle sue parole sembra quasi che il fumetto, nel momento in cui si propone di narrare un fatto storico, si scontri con un limite endemico, che non possa fare altro che riprodurre – didatticamente e didascalicamente – quella storia, senza poter coltivare ambizioni “estetiche”. È chiaro che qualsiasi autore, non solo nel fumetto, quando propone una trama di totale fantasia è signore e padrone dei propri personaggi, può muoverli liberamente sulla scacchiera della sua storia. Chi invece fa graphic journalism (usiamo pure l’etichetta, tanto per semplificare) entra in un recinto e i suoi movimenti hanno i limiti (temporali, fattuali, di contesto ambientale) di quel recinto. Questo non significa però che sia costretto all’immobilismo. La sfida, semmai, sta proprio nel riuscire a dare un valore aggiunto alla propria narrazione, nel riuscire a offrire un prodotto che sia valido artisticamente, oltre che rigoroso storicamente e onesto intellettualmente (definizione che, ho spiegato a Ravenna, non coincide con l’imparzialità del robot privo di sentimenti o con una equidistanza adottata quasi come “scelta di vita” obbligata del cronista).
Non prenderò ad esempio lavori miei (non sono così arrogante) o dei tanti amici/colleghi presenti a Ravenna (per non essere tacciato di piaggeria o di voler difendere “una casta”): mi sembra che Joe Sacco riesca nell’intento (e ne approfitto per dire ad Elettra che anch’io amo moltissimo “Gaza 1956”).
Se però la forma era sbagliata, l’intervento di Domenico poneva un problema reale… Ma su questo tornerò più avanti, perché l’aver menzionato Sacco mi porta ad affrontare il secondo aspetto di cui volevo parlare.
In un altro incontro di Komikazen (vedi il quarto video linkato sopra) Riccardo Mannelli ha detto di trovare noioso Sacco e di non essere particolarmente interessato a questo tipo di graphic journalism (scusate: ho brutalizzato e semplificato le sue parole: vedere il video per una versione completa e meno banalizzata). In sostanza, seppure in modo diverso da Domenico, sembra che Mannelli veda anche lui quel “limite endemico” nel “fumetto di realtà”, perlomeno quando questo non propone soluzioni artistiche innovative o comunque “pregnanti” rispetto alla storia che si vuole narrare.
Sia chiaro: la mia non è una critica a Mannelli (artista splendido, di cui sottoscriverei il restante 99 per cento dell’intervento). Semplicemente ho trovato che la sua definizione “Sacco è noioso” sia una spia linguistica interessante (e preoccupante) proprio per quella forma d’arte (il fumetto) che io e lui, come tutti quelli che erano a Komikazen, amiamo.
Anche su questo aspetto Elettra è stata puntuale nel rispondere. Sacco lo leggi con fatica, lo devi affrontare con concentrazione, quasi con dedizione. Ma questo non costituisce un difetto dei suoi lavori. Nessuno, almeno credo, direbbe che “Il Maestro e Margherita” o “Memorie di Adriano” sono belli, sì, ma noiosi. Per meglio dire, nessuno, nel caso di un romanzo, butterebbe sul piatto negativo della bilancia la – diciamo così – “pesantezza di lettura” (che può certamente esserci, ci mancherebbe!). Bulgakov e Yourcenar sono pesanti? Sì, e non per questo si deve intendere la loro “pesantezza” come elemento che ne caratterizza la lettura in negativo: stessa cosa la si dovrebbe poter dire per un fumetto.
A questo proposito, volevo segnalare uno scambio di battute, breve ma a mio avviso significativo, fra Elettra e Domenico subito dopo l’intervento di quest’ultimo. Elettra ha giustamente osservato: “ci si può anche annoiare qualche volta…” (“pure leggendo un fumetto”, intendeva). Domenico ha risposto con un’altra interessante spia linguistica: “allora mi leggo un libro!”, quasi che al “libro vero e proprio” si possa concedere persino quel lusso della “pesantezza” che il fumetto – secondo lui – dovrebbe invece evitare come la peste.
In buona sostanza (io l’ho fatta fin troppo lunga) per alcuni – sottolineo: anche nel nostro ambiente – sembra sia necessario che il fumetto, anche quando “impegnato”, debba essere connotato da una maggiore agilità di lettura. Altrimenti “tanto vale fare un saggio”. Se è in questo modo che speriamo, come dicevo prima, di entrare nel “salotto buono” della cultura, faremo sempre un buco nell’acqua.
Però è innegabile che la lettura combinata dei due interventi (il giornalista e Mannelli) un problema lo pone. E’ vero che alcuni “fumetti di realtà” sembrano scorciatoie adottate (spesso in buona fede: chi lo fa in malafede entra in un altro discorso e non è degno di commento) per raccontare una storia? E’ vero che non tutti i “fumetti di realtà” sono anche prodotti artisticamente validi?
E’ vero, purtroppo. In parte lo vedo come un problema inevitabile (non ripeterò quanto detto a Ravenna: vedere ancora, se interessa, il primo video linkato sopra). Ma è comunque una questione che va affrontata da parte di chi, come me e gli autori presenti a Komikazen, non si ritengono “fumettisti per caso”, ma hanno l’obbiettivo (l’ambizione?) di utilizzare il mezzo espressivo fumetto secondo tutte le sue potenzialità, anche estetiche e artistiche.
Questo, a mio avviso, è un altro merito di Elettra e Gianluca; un merito che non so neppure se sia intenzionale e di cui siano pienamente consci. Se il fumetto di realtà è stato, in Italia e fin qui, fenomeno in espansione ma comunque episodico e privo di una sua codifica quasi “grammaticale”, Komikazen ha cercato di proporlo come un vero e proprio “movimento”. Non un movimento ideologico, s’intende, ma artistico; nella misura in cui si propone di agire – sempre nella libertà dei singoli autori – all’interno di alcuni canoni contenutistici ed estetici: la tensione etica, lo scrupolo nell’abbinare i doveri giornalistici (rispetto e uso appropriato delle fonti, ad esempio) e quelli propri del “linguaggio fumetto”, tanto per dirne solo alcuni.
Francesco “baro” Barilli
Faccio un’eccezione dunque per parlare di Komikazen.
Non mi dilungherò troppo a descrivere Komikazen; per chi non sapesse di cosa si tratta, vedere il link. Basti dire che in questi anni ho conosciuto molte persone che mettono in piedi iniziative interessanti, meritorie e di ottimi contenuti, con entusiasmo e magari non sempre con capacità “pratiche” all’altezza. Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini e con loro l’Associazione Culturale Mirada sanno invece unire competenza e passione, entusiasmo e capacità organizzative. Questo breve ma sincero riconoscimento valga anche quale ringraziamento per le giornate che ho passato con loro a Ravenna!!! (e nell’abbraccio virtuale unisco tutti gli amici, vecchi e nuovi, che ho incontrato nell’occasione!).
Di seguito trovate i filmati di alcuni incontri tenutisi a Ravenna quest’anno; al primo ho partecipato direttamente, assieme a Manuel De Carli e altri ancora. Sono tutti molto interessanti e ve ne consiglio la visione (se spulciate su youtube cercando “komikazen” ne troverete anche delle passate edizioni).
Nel corso degli incontri si è parlato molto di graphic novel, graphic journalism e di tutte le varie sfumature con cui si può declinare questo lavoro.
Mi soffermo in particolare su due aspetti. Il primo è quello portato da un giornalista (almeno credo fosse un giornalista; mi sembra si chiamasse Domenico) intervenuto nel corso del dibattito a cui ero presente: vedere il primo filmato, circa dal minuto 47’00” in poi; nel seguito potete sentire le diverse risposte, fra cui la mia, che vorrei ora puntualizzare meglio e a mente fredda.
Innanzitutto, come ho detto già diverse volte, non sono particolarmente affezionato alle etichette. Credo, in particolare, che il fumetto soffra del bisogno di affrancarsi del complesso d’inferiorità da “arte minore” e cerchi attraverso queste formule un modo surrettizio per entrare nel “salotto buono” della cultura.
Non penso ce ne sia bisogno. Il cinema, per parlare di una forma espressiva vecchia più o meno quanto il fumetto, nei sui cento e passa anni di vita ci ha dato Altman, Kubrick, Kieslowski … Boldi e i Vanzina… Ma tutti i loro lavori sono definiti “film”: non si è scelto di chiamare “cinematographic novel” un lavoro di Kubrick per distinguerlo da altri, più leggeri o addirittura definibili con le stesse parole usate dal ragionier Fantozzi per la Corazzata Potemkin… E si potrebbe fare lo stesso ragionamento per i romanzi, tanto per dire.
Nel caso del fumetto, invece, anche tra addetti ai lavori qualificati e competenti sembra ci sia la fregola di dividere le varie pubblicazioni in sottocategorie. Come se non fosse abbastanza chiaro che col fumetto si può fare di tutto: intrattenimento, narrativa “pura”, ricerca storica, contaminazione fra generi ecc. E lo si può fare bene o male, con risultati artistici validi o meno, con intenti didattici o con un’attenzione maggiore alla forma espressiva adottata.
Fermo restando questo, l’intervento del giornalista a Ravenna non era privo di senso. La “forma” era sbagliata (meglio: partiva da un presupposto sbagliato): dalle sue parole sembra quasi che il fumetto, nel momento in cui si propone di narrare un fatto storico, si scontri con un limite endemico, che non possa fare altro che riprodurre – didatticamente e didascalicamente – quella storia, senza poter coltivare ambizioni “estetiche”. È chiaro che qualsiasi autore, non solo nel fumetto, quando propone una trama di totale fantasia è signore e padrone dei propri personaggi, può muoverli liberamente sulla scacchiera della sua storia. Chi invece fa graphic journalism (usiamo pure l’etichetta, tanto per semplificare) entra in un recinto e i suoi movimenti hanno i limiti (temporali, fattuali, di contesto ambientale) di quel recinto. Questo non significa però che sia costretto all’immobilismo. La sfida, semmai, sta proprio nel riuscire a dare un valore aggiunto alla propria narrazione, nel riuscire a offrire un prodotto che sia valido artisticamente, oltre che rigoroso storicamente e onesto intellettualmente (definizione che, ho spiegato a Ravenna, non coincide con l’imparzialità del robot privo di sentimenti o con una equidistanza adottata quasi come “scelta di vita” obbligata del cronista).
Non prenderò ad esempio lavori miei (non sono così arrogante) o dei tanti amici/colleghi presenti a Ravenna (per non essere tacciato di piaggeria o di voler difendere “una casta”): mi sembra che Joe Sacco riesca nell’intento (e ne approfitto per dire ad Elettra che anch’io amo moltissimo “Gaza 1956”).
Se però la forma era sbagliata, l’intervento di Domenico poneva un problema reale… Ma su questo tornerò più avanti, perché l’aver menzionato Sacco mi porta ad affrontare il secondo aspetto di cui volevo parlare.
In un altro incontro di Komikazen (vedi il quarto video linkato sopra) Riccardo Mannelli ha detto di trovare noioso Sacco e di non essere particolarmente interessato a questo tipo di graphic journalism (scusate: ho brutalizzato e semplificato le sue parole: vedere il video per una versione completa e meno banalizzata). In sostanza, seppure in modo diverso da Domenico, sembra che Mannelli veda anche lui quel “limite endemico” nel “fumetto di realtà”, perlomeno quando questo non propone soluzioni artistiche innovative o comunque “pregnanti” rispetto alla storia che si vuole narrare.
Sia chiaro: la mia non è una critica a Mannelli (artista splendido, di cui sottoscriverei il restante 99 per cento dell’intervento). Semplicemente ho trovato che la sua definizione “Sacco è noioso” sia una spia linguistica interessante (e preoccupante) proprio per quella forma d’arte (il fumetto) che io e lui, come tutti quelli che erano a Komikazen, amiamo.
Anche su questo aspetto Elettra è stata puntuale nel rispondere. Sacco lo leggi con fatica, lo devi affrontare con concentrazione, quasi con dedizione. Ma questo non costituisce un difetto dei suoi lavori. Nessuno, almeno credo, direbbe che “Il Maestro e Margherita” o “Memorie di Adriano” sono belli, sì, ma noiosi. Per meglio dire, nessuno, nel caso di un romanzo, butterebbe sul piatto negativo della bilancia la – diciamo così – “pesantezza di lettura” (che può certamente esserci, ci mancherebbe!). Bulgakov e Yourcenar sono pesanti? Sì, e non per questo si deve intendere la loro “pesantezza” come elemento che ne caratterizza la lettura in negativo: stessa cosa la si dovrebbe poter dire per un fumetto.
A questo proposito, volevo segnalare uno scambio di battute, breve ma a mio avviso significativo, fra Elettra e Domenico subito dopo l’intervento di quest’ultimo. Elettra ha giustamente osservato: “ci si può anche annoiare qualche volta…” (“pure leggendo un fumetto”, intendeva). Domenico ha risposto con un’altra interessante spia linguistica: “allora mi leggo un libro!”, quasi che al “libro vero e proprio” si possa concedere persino quel lusso della “pesantezza” che il fumetto – secondo lui – dovrebbe invece evitare come la peste.
In buona sostanza (io l’ho fatta fin troppo lunga) per alcuni – sottolineo: anche nel nostro ambiente – sembra sia necessario che il fumetto, anche quando “impegnato”, debba essere connotato da una maggiore agilità di lettura. Altrimenti “tanto vale fare un saggio”. Se è in questo modo che speriamo, come dicevo prima, di entrare nel “salotto buono” della cultura, faremo sempre un buco nell’acqua.
Però è innegabile che la lettura combinata dei due interventi (il giornalista e Mannelli) un problema lo pone. E’ vero che alcuni “fumetti di realtà” sembrano scorciatoie adottate (spesso in buona fede: chi lo fa in malafede entra in un altro discorso e non è degno di commento) per raccontare una storia? E’ vero che non tutti i “fumetti di realtà” sono anche prodotti artisticamente validi?
E’ vero, purtroppo. In parte lo vedo come un problema inevitabile (non ripeterò quanto detto a Ravenna: vedere ancora, se interessa, il primo video linkato sopra). Ma è comunque una questione che va affrontata da parte di chi, come me e gli autori presenti a Komikazen, non si ritengono “fumettisti per caso”, ma hanno l’obbiettivo (l’ambizione?) di utilizzare il mezzo espressivo fumetto secondo tutte le sue potenzialità, anche estetiche e artistiche.
Questo, a mio avviso, è un altro merito di Elettra e Gianluca; un merito che non so neppure se sia intenzionale e di cui siano pienamente consci. Se il fumetto di realtà è stato, in Italia e fin qui, fenomeno in espansione ma comunque episodico e privo di una sua codifica quasi “grammaticale”, Komikazen ha cercato di proporlo come un vero e proprio “movimento”. Non un movimento ideologico, s’intende, ma artistico; nella misura in cui si propone di agire – sempre nella libertà dei singoli autori – all’interno di alcuni canoni contenutistici ed estetici: la tensione etica, lo scrupolo nell’abbinare i doveri giornalistici (rispetto e uso appropriato delle fonti, ad esempio) e quelli propri del “linguaggio fumetto”, tanto per dirne solo alcuni.
Francesco “baro” Barilli
“Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno”
Dal 28 novembre sarà in libreria “Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno” (Mimesis Edizioni www.mimesisedizioni.it). A cura di Stefano Cardini.
Il libro contiene interventi di Roberta De Monticelli, David Bidussa, Stefano Cardini, Maurizio Cau, Paolo Costa, Luciano Lanza, Guido Salvini, Giuseppe Strazzeri, e uno mio e di Matteo Fenoglio imperniato sulle nostre ricerche sulle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia e sull’uso del “mezzo” fumetto per raccontare queste tragedie.
Spero vi interessi. Io e Matteo abbiamo partecipato con sincera passione a questa iniziativa.
“Tutti coloro che hanno partecipato a questo libro hanno accettato di devolvere la quota parte del ricavato loro spettante per diritto d’autore all’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969, fondata dai familiari delle vittime della strage.”
Il libro contiene interventi di Roberta De Monticelli, David Bidussa, Stefano Cardini, Maurizio Cau, Paolo Costa, Luciano Lanza, Guido Salvini, Giuseppe Strazzeri, e uno mio e di Matteo Fenoglio imperniato sulle nostre ricerche sulle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia e sull’uso del “mezzo” fumetto per raccontare queste tragedie.
Spero vi interessi. Io e Matteo abbiamo partecipato con sincera passione a questa iniziativa.
“Tutti coloro che hanno partecipato a questo libro hanno accettato di devolvere la quota parte del ricavato loro spettante per diritto d’autore all’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969, fondata dai familiari delle vittime della strage.”
giovedì 11 ottobre 2012
Le primarie del PD. Oppure noi.
Questa brevissima nota è riferita a uno slogan scelto da Vendola per le primarie del PD, sicuramente quello che – almeno sul web – sta facendo più discutere: "Il massacro della Diaz. Oppure Vendola".
Allora: fermo restando che sull’argomento hanno già scritto in tanti (e vi segnalo il pezzo di Checchino, a cui non ho nulla da aggiungere), lancio anch’io il mio slogan: “Le primarie del PD. Oppure noi”.
Allora: fermo restando che sull’argomento hanno già scritto in tanti (e vi segnalo il pezzo di Checchino, a cui non ho nulla da aggiungere), lancio anch’io il mio slogan: “Le primarie del PD. Oppure noi”.
domenica 23 settembre 2012
"Piazza della Loggia" su Internazionale
Su Internazionale, numero 966, 14 settembre 2012, Giuliano Milani parla di "Piazza della Loggia volume 1": ecco il suo commento, dal titolo "Dalla convivenza alla tensione"
martedì 11 settembre 2012
Storia, nuvole parlanti e “misteri” italiani
Il bravo Jacopo Frey, che ringrazio, mi ha intervistato per "casoesse.org". Abbiamo parlato di storia, fumetti, "impegno civile" e altro ancora
Il risultato è questo.
Buona lettura.
Il risultato è questo.
Buona lettura.
domenica 29 luglio 2012
mercoledì 18 luglio 2012
L’inutile “vittoria” di Genova 2001
Di Genova 2001 ho parlato e scritto molto. Ne ho parlato come di un trauma o di uno spartiacque nella vita di tanti: chi è stato segnato – sulla propria pelle, nella propria esistenza – da quei fatti; chi, come me, da undici anni non è mai mancato una sola volta, a luglio, in Piazza Alimonda. Perché andare a Genova in luglio è…
Non so neppure io cosa sia... Sicuramente non un vuoto rito. Neppure “un dovere” (poca simpatia per ogni “dovere”, capitemi…). In mancanza di parole adatte lasciamo la frase così, incompiuta. Tanto le parole non aggiungono nulla: per tanti, l’ho detto, Genova è un trauma, uno spartiacque: loro sanno cosa significa “esserci” tutti gli anni a luglio, anche senza sintetizzarlo con un termine.
Il luglio 2012 finora è stato, metaforicamente, “caldo” e importante quanto quello del 2001. Sono arrivati a sentenza definitiva tre processi: Dopo De Gennaro e Diaz, la condanna a dieci manifestanti.
Sulla condanna ai dieci manifestanti è già stato scritto tutto.
- Sulla tipologia di reato (“devastazione e saccheggio”): che puzza di fascismo ed è spropositata.
- Sull’asimmetria delle pene inflitte ai manifestanti rispetto a quelle comminate alle forze dell’ordine in altri procedimenti (non solo genovesi): una sproporzione che rende “l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge” pura e vuota retorica.
- In particolare, sulle pene ai manifestanti: degne del codice fascista a cui il reato di “devastazione e saccheggio” è dovuto (codice a sua volta degno, del resto, del paese autoritario in cui viviamo).
Al netto di tutti i commenti possibili (e, sia chiaro, tutti quelli che ho sinteticamente ricordato sono sacrosanti), stiamo parlando della vita sconvolta a dieci persone (5 subito e 5 vedremo dopo il nuovo appello, che dovrà pronunciarsi solo sulle attenuanti, al massimo “limando” la pena) e ai loro cari. Non parliamo di astrazioni, ma di altre ferite, di esistenze violate: leggete quanto scrive Amal: nulla da aggiungere.
*****
Dunque, lentamente, Genova 2001 si sta avvicinando alla fine (nella sua dimensione processuale, intendo…).
Ho già detto altre volte che non penso che la risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. E non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col pallottoliere che tiene il conto di condanne e assoluzioni: i tribunali hanno detto anche altro…
Su Bolzaneto (dove la Cassazione non è ancora arrivata) nel marzo 2010 la sentenza di appello, seppure nella permanente impossibilità di parlare di tortura e in presenza di molti reati per cui è scattata la prescrizione, ha aumentato pene e risarcimenti, riconoscendo aggravanti specifiche come l’aver agito per motivi “futili e abietti”. Inutile aggiungere che è l’ignavia del mondo politico (trasversale e tutt’altro che recente) ad aver fatto sì che l’Italia sia ancora priva, a livello giuridico, di una specifica definizione del reato di tortura.
Sulla Scuola Diaz la sentenza definitiva (accantonando il discorso della bassa entità delle pene) è stata clamorosa: credo sia una novità assoluta, non solo per l’Italia, una condanna dei vertici della Polizia di uno Stato occidentale avvenuta in un “normale” processo penale. Inoltre è il caso di ricordare che i 93 presenti la notte del 21 luglio 2001 nella scuola erano stati a suo tempo prosciolti dal GIP dalle accuse a loro carico: associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio e resistenza aggravata. Oggi appare scontato e ridondante ricordarlo (qui andiamo alla “preistoria” dei processi su Genova: la sentenza del GIP se non sbaglio è del 2003), ma pure quel provvedimento ha contribuito a “fare la storia processuale” di Genova: senza quello probabilmente non ci sarebbe stato neppure il processo ai funzionari per la “macelleria messicana”.
Sui manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento.
Persino nel “processo ai 25” si possono trovare elementi positivi: per 15 dei 25 imputati l’impianto accusatorio della “devastazione e saccheggio” era crollato nei primi gradi di giudizio; e il tribunale ha riconosciuto a quegli imputati di aver reagito ad atti arbitrari di pubblici ufficiali, riconoscendo “illegittimo, ingiustificato e sproporzionato alla situazione” l’attacco al corteo di via Tolemaide del 20 luglio, da cui nacquero gli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani (certo: è scandaloso che da questo riconoscimento non sia nato né un processo per l’omicidio di Piazza Alimonda, né siano scaturite conseguenze positive per gli altri dieci imputati: perché la procura non ha proceduto contro i responsabili di quelle cariche, invece di incaponirsi contro i manifestanti?).
*****
Insomma: le sentenze, ferme restando le zone d’ombra (a cominciare dallo sconcerto per la scandalosa archiviazione per l’omicidio di Carlo) nel loro complesso dicono che “avevamo ragione noi”. Lo dicono brutalizzando il concetto, certo, ma anche ricordando che la risposta che DAVVERO NON E’ ARRIVATA è stata quella della politica: quella della magistratura, letta in filigrana, è – almeno “tecnicamente” – una vittoria.
Ma è una vittoria incompleta. E soprattutto amara. Vediamo perchè…
*****
Lo sapete, sono anarchico (intendendo l'anarchia, citando De Andrè, come una categoria dello spirito, che prescinde da rigide appartenenze o da logiche organizzative). Per me anarchia significa rifiuto del principio di autorità di un essere umano su un altro. Anarchico non è chi non accetta ordini (quella è caratteristica più o meno di tutti…) ma chi non concepirebbe darli…
Ritengo, quindi, che ogni forma di potere o di autorità sia una forma di controllo, subdolo o violento, sull’individuo (questo proprio in breve, eh…).
Preciso: non mi sfugge che anche dentro gli apparati dello Stato (e quindi dentro ai meccanismi del potere) esistono persone di spessore, di rigore morale, che credono davvero nello stato di diritto, convinti che quelle strutture a cui loro appartengono siano a servizio dei cittadini. Proprio la storia processuale di Genova, per fare solo un esempio, mi fa pensare al pm Enrico Zucca, senza il quale non si sarebbe ottenuta la sentenza Diaz. Non dimentico che proprio Zucca ha agito con scrupolo e professionalità, trovandosi ad affrontare ostacoli che, lungo il suo percorso, sono stati posti da altri apparati; ostacoli che in certi momenti si sono concretizzati non solo nel boicottaggio delle indagini, ma in attacchi anche personali nei confronti del pm. Guardo con stima e rispetto a un uomo come il dott. Zucca e so che non è un caso isolato, per fortuna.
Nonostante questo il mio giudizio sul potere e i suoi apparati è questo: un’oligarchia autonominatasi, che con giochi di prestigio costruisce attorno a sé un’aura di consenso e si puntella con strutture il cui unico compito è l’autoconservazione (autoconservazione del potere stesso, innanzitutto). Indipendentemente, cioè, dalla volontà dei cittadini, plagiata da quei “giochi di prestigio” o, alla peggio e quando serve, soggiogata; con le buone o con le cattive. Persino la forma della delega in politica è un orpello, una buccia che copre a malapena quei giochetti: grattata con l’unghia sparisce e resta quel nocciolo che si alimenta e perpetua.
I movimenti sociali agiscono in questo alveo. In dati momenti possono persino spaventare il potere: è quel che è successo a Genova; e la durezza della repressione è stata proporzionale alla paura che, almeno in prospettiva, il movimento destava nelle “stanze dei bottoni”.
Ora che quel movimento si è dissolto, anche la reazione civile di fronte a certe enormità, quali ad esempio la condanna ai dieci manifestanti di Genova, è solo una voce flebile. I riferimenti politici di quella stagione si sono dissolti; quel che ne rimane sembra il ribollire di frutta un po’ andata che vuole nobilitarsi in marmellata…
Per il potere la strategia più efficace non è tanto quella di vendere una proposta di mondo come fosse la migliore, ma evidenziare che non esistono alternative. Non è una cosa nuova, “there is no alternative”, diceva Tatcher, era un suo motto. Nella partita della contrapposizione di forze, “loro” avranno sempre la meglio, perché “loro” sono “La Forza”. Al massimo ci potremo ritagliare delle vittorie di Pirro. L’ora d’aria dei detenuti, la boccata d’ossigeno di un momento, in parte conquistata e in parte elargita come estrema concessione.
Tra queste vittorie di Pirro annovero “la vittoria” di Genova. Amara perché non servirà a nulla. E perché proprio la “condanna dei dieci” alla fine mi toglie le parole e non mi fa vedere, all’orizzonte, risposte alla domanda (“che fare?”) che spontanea potrebbe sorgere dopo aver letto questo mio lungo intervento…
Francesco “baro” Barilli
Non so neppure io cosa sia... Sicuramente non un vuoto rito. Neppure “un dovere” (poca simpatia per ogni “dovere”, capitemi…). In mancanza di parole adatte lasciamo la frase così, incompiuta. Tanto le parole non aggiungono nulla: per tanti, l’ho detto, Genova è un trauma, uno spartiacque: loro sanno cosa significa “esserci” tutti gli anni a luglio, anche senza sintetizzarlo con un termine.
Il luglio 2012 finora è stato, metaforicamente, “caldo” e importante quanto quello del 2001. Sono arrivati a sentenza definitiva tre processi: Dopo De Gennaro e Diaz, la condanna a dieci manifestanti.
Sulla condanna ai dieci manifestanti è già stato scritto tutto.
- Sulla tipologia di reato (“devastazione e saccheggio”): che puzza di fascismo ed è spropositata.
- Sull’asimmetria delle pene inflitte ai manifestanti rispetto a quelle comminate alle forze dell’ordine in altri procedimenti (non solo genovesi): una sproporzione che rende “l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge” pura e vuota retorica.
- In particolare, sulle pene ai manifestanti: degne del codice fascista a cui il reato di “devastazione e saccheggio” è dovuto (codice a sua volta degno, del resto, del paese autoritario in cui viviamo).
Al netto di tutti i commenti possibili (e, sia chiaro, tutti quelli che ho sinteticamente ricordato sono sacrosanti), stiamo parlando della vita sconvolta a dieci persone (5 subito e 5 vedremo dopo il nuovo appello, che dovrà pronunciarsi solo sulle attenuanti, al massimo “limando” la pena) e ai loro cari. Non parliamo di astrazioni, ma di altre ferite, di esistenze violate: leggete quanto scrive Amal: nulla da aggiungere.
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Dunque, lentamente, Genova 2001 si sta avvicinando alla fine (nella sua dimensione processuale, intendo…).
Ho già detto altre volte che non penso che la risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. E non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col pallottoliere che tiene il conto di condanne e assoluzioni: i tribunali hanno detto anche altro…
Su Bolzaneto (dove la Cassazione non è ancora arrivata) nel marzo 2010 la sentenza di appello, seppure nella permanente impossibilità di parlare di tortura e in presenza di molti reati per cui è scattata la prescrizione, ha aumentato pene e risarcimenti, riconoscendo aggravanti specifiche come l’aver agito per motivi “futili e abietti”. Inutile aggiungere che è l’ignavia del mondo politico (trasversale e tutt’altro che recente) ad aver fatto sì che l’Italia sia ancora priva, a livello giuridico, di una specifica definizione del reato di tortura.
Sulla Scuola Diaz la sentenza definitiva (accantonando il discorso della bassa entità delle pene) è stata clamorosa: credo sia una novità assoluta, non solo per l’Italia, una condanna dei vertici della Polizia di uno Stato occidentale avvenuta in un “normale” processo penale. Inoltre è il caso di ricordare che i 93 presenti la notte del 21 luglio 2001 nella scuola erano stati a suo tempo prosciolti dal GIP dalle accuse a loro carico: associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio e resistenza aggravata. Oggi appare scontato e ridondante ricordarlo (qui andiamo alla “preistoria” dei processi su Genova: la sentenza del GIP se non sbaglio è del 2003), ma pure quel provvedimento ha contribuito a “fare la storia processuale” di Genova: senza quello probabilmente non ci sarebbe stato neppure il processo ai funzionari per la “macelleria messicana”.
Sui manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento.
Persino nel “processo ai 25” si possono trovare elementi positivi: per 15 dei 25 imputati l’impianto accusatorio della “devastazione e saccheggio” era crollato nei primi gradi di giudizio; e il tribunale ha riconosciuto a quegli imputati di aver reagito ad atti arbitrari di pubblici ufficiali, riconoscendo “illegittimo, ingiustificato e sproporzionato alla situazione” l’attacco al corteo di via Tolemaide del 20 luglio, da cui nacquero gli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani (certo: è scandaloso che da questo riconoscimento non sia nato né un processo per l’omicidio di Piazza Alimonda, né siano scaturite conseguenze positive per gli altri dieci imputati: perché la procura non ha proceduto contro i responsabili di quelle cariche, invece di incaponirsi contro i manifestanti?).
*****
Insomma: le sentenze, ferme restando le zone d’ombra (a cominciare dallo sconcerto per la scandalosa archiviazione per l’omicidio di Carlo) nel loro complesso dicono che “avevamo ragione noi”. Lo dicono brutalizzando il concetto, certo, ma anche ricordando che la risposta che DAVVERO NON E’ ARRIVATA è stata quella della politica: quella della magistratura, letta in filigrana, è – almeno “tecnicamente” – una vittoria.
Ma è una vittoria incompleta. E soprattutto amara. Vediamo perchè…
*****
Lo sapete, sono anarchico (intendendo l'anarchia, citando De Andrè, come una categoria dello spirito, che prescinde da rigide appartenenze o da logiche organizzative). Per me anarchia significa rifiuto del principio di autorità di un essere umano su un altro. Anarchico non è chi non accetta ordini (quella è caratteristica più o meno di tutti…) ma chi non concepirebbe darli…
Ritengo, quindi, che ogni forma di potere o di autorità sia una forma di controllo, subdolo o violento, sull’individuo (questo proprio in breve, eh…).
Preciso: non mi sfugge che anche dentro gli apparati dello Stato (e quindi dentro ai meccanismi del potere) esistono persone di spessore, di rigore morale, che credono davvero nello stato di diritto, convinti che quelle strutture a cui loro appartengono siano a servizio dei cittadini. Proprio la storia processuale di Genova, per fare solo un esempio, mi fa pensare al pm Enrico Zucca, senza il quale non si sarebbe ottenuta la sentenza Diaz. Non dimentico che proprio Zucca ha agito con scrupolo e professionalità, trovandosi ad affrontare ostacoli che, lungo il suo percorso, sono stati posti da altri apparati; ostacoli che in certi momenti si sono concretizzati non solo nel boicottaggio delle indagini, ma in attacchi anche personali nei confronti del pm. Guardo con stima e rispetto a un uomo come il dott. Zucca e so che non è un caso isolato, per fortuna.
Nonostante questo il mio giudizio sul potere e i suoi apparati è questo: un’oligarchia autonominatasi, che con giochi di prestigio costruisce attorno a sé un’aura di consenso e si puntella con strutture il cui unico compito è l’autoconservazione (autoconservazione del potere stesso, innanzitutto). Indipendentemente, cioè, dalla volontà dei cittadini, plagiata da quei “giochi di prestigio” o, alla peggio e quando serve, soggiogata; con le buone o con le cattive. Persino la forma della delega in politica è un orpello, una buccia che copre a malapena quei giochetti: grattata con l’unghia sparisce e resta quel nocciolo che si alimenta e perpetua.
I movimenti sociali agiscono in questo alveo. In dati momenti possono persino spaventare il potere: è quel che è successo a Genova; e la durezza della repressione è stata proporzionale alla paura che, almeno in prospettiva, il movimento destava nelle “stanze dei bottoni”.
Ora che quel movimento si è dissolto, anche la reazione civile di fronte a certe enormità, quali ad esempio la condanna ai dieci manifestanti di Genova, è solo una voce flebile. I riferimenti politici di quella stagione si sono dissolti; quel che ne rimane sembra il ribollire di frutta un po’ andata che vuole nobilitarsi in marmellata…
Per il potere la strategia più efficace non è tanto quella di vendere una proposta di mondo come fosse la migliore, ma evidenziare che non esistono alternative. Non è una cosa nuova, “there is no alternative”, diceva Tatcher, era un suo motto. Nella partita della contrapposizione di forze, “loro” avranno sempre la meglio, perché “loro” sono “La Forza”. Al massimo ci potremo ritagliare delle vittorie di Pirro. L’ora d’aria dei detenuti, la boccata d’ossigeno di un momento, in parte conquistata e in parte elargita come estrema concessione.
Tra queste vittorie di Pirro annovero “la vittoria” di Genova. Amara perché non servirà a nulla. E perché proprio la “condanna dei dieci” alla fine mi toglie le parole e non mi fa vedere, all’orizzonte, risposte alla domanda (“che fare?”) che spontanea potrebbe sorgere dopo aver letto questo mio lungo intervento…
Francesco “baro” Barilli
martedì 10 luglio 2012
Diaz, undici anni dopo: cose arrivate in ritardo e cose ancora da fare… E una speranza per dieci…
Ho aspettato qualche giorno a scrivere sulla sentenza di Cassazione sulla scuola Diaz: avrei voluto commentare, più che la sentenza (di cui, è chiaro, sono contento) le reazioni politiche, ma… queste non sono state molte: un segno dei tempi, su cui potremmo parlare a lungo; e soprattutto un segnale che mi rafforza in una personale convinzione: di fronte ai fatti di Genova la magistratura (pur con zone d’ombra su cui tornerò in seguito) ha dato le sue risposte, alcune addirittura clamorose. La politica al contrario non ha dato nulla, facendo una ben grama figura. E l’inerzia della politica non è, invece, segno dei tempi: parte da lontano… Come ho già avuto modo di scrivere, in quasi tutte le vicende che ho affrontato per reti-invisibili sono riscontrabili carenze (spesso qualcosa di ben peggiore) da parte della magistratura, ma niente paragonabile al “nulla sotto vuoto” della politica. E taccio di cose di cui già tante volte ho parlato in passato (le promozioni ai dirigenti, prima indagati e poi condannati; il rifiuto ad istituire una commissione d’inchiesta, anche durante il governo di centrosinistra; la mancata istituzione del reato di tortura e altro ancora…)
Ecco comunque alcune riflessioni sparse.
L’indipendenza della Magistratura
Undici anni sono tanti per un processo, per qualsiasi processo. Specie se si pensa che, lo dico per la Diaz ma vale pure per Bolzaneto, lo spettro della prescrizione ha depotenziato il risultato e rischiava di fare di peggio (ancora qualche mese…). E’ pacifico che qualche riflessione sui tempi della macchina della giustizia sarebbe doverosa, indipendentemente dal fatto che su Genova, e specialmente sulla Diaz, i tempi sono stati dilatati perché altri pezzi dello Stato hanno fatto di tutto per ostacolare o almeno rallentare (sempre nell’ottica di puntare alla prescrizione) i tempi della magistratura. E’ vero, inoltre, che non è possibile dare un giudizio univoco dei giudici genovesi: brucia ancora l’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, e siamo ancora in attesa della sentenza definitiva a carico di alcuni manifestanti (a cui dedicherò un capitolo a parte).
Fermo restando tutto questo la sentenza Diaz resta qualcosa di clamoroso. Anche perché proprio la strategia “ostruzionistica” messa in campo, fra indagini e processo, dalle forze dell’ordine ha portato ad un effetto paradossale quanto significativo: per una volta le condanne hanno risparmiato la “bassa manovalanza”, colpendo il vertice della catena di comando (fatta eccezione per De Gennaro e per i referenti politici). Insomma, al di là dell’importanza specifica sul “caso Genova” la sentenza Diaz (ma anche quella d’appello su Bolzaneto, nonché alcuni giudizi del tribunale su violenze ai manifestanti – piazza Manin, Via Barabino ecc) è paradigmatica di quanto sia importante l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato.
Come anarchico non sono particolarmente vicino a qualsivoglia forma di “potere” (tranquilli: non v’annoierò filosofeggiando su anarchia e “stato di diritto”), ma non mi sfugge che – dal fascismo a Berlusconi passando per la Loggia P2 – tutti i progetti autoritari (diversamente modulati, ovvio) avevano fra le priorità la subordinazione del potere giudiziario all’autorità politica. L’indipendenza della magistratura fa paura alla politica e agli altri apparati del potere: questo è uno dei tanti “insegnamenti” del processo Diaz; non il più importante, ma comunque da tenere ben presente.
L’azione civile delle vittime e dei comitati genovesi
Altro elemento che nella storia della Diaz mi ha fatto sentire particolarmente vivo il filo rosso che unisce molte, se non tutte, le vicende che seguo per reti-invisibili è l’azione dei comitati genovesi (Verità e Giustizia per Genova e Piazza Carlo Giuliani). Per Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia Georgofili, così come per casi “singoli” (Fausto e Iaio come Pinelli o Ilaria Alpi… e molti altri…) l’ammirevole impegno dei familiari delle vittime, nella quasi totale inerzia delle istituzioni, è una costante: senza di loro non si riuscirebbe a conquistare neppure un brandello di verità e giustizia.
Le deboli “scuse” di Manganelli e quelle ambigue di De Gennaro
Sia chiaro: c’è differenza fra le “scuse” di Manganelli e le parole di De Gennaro. Su quest’ultimo ha già detto tutto Lorenzo Guadagnucci e non aggiungo altro. Dico solo che le ambigue parole di De Gennaro sono riuscite persino a svilire le pallide, ma per certi versi apprezzabili, “scuse” di Manganelli.
Non è il caso di discutere sulla sincerità dell’attuale capo della polizia: questo attiene la sua coscienza. E pure il ricordare atteggiamenti passati di Manganelli ci porterebbe fuori strada: non dimentico certe frasi infelici (alcune gravi, espresse proprio verso i pm che indagavano sulla Diaz) e neppure che quella difesa “corporativa” e ostruzionistica dei funzionari di polizia va addebitata anche a lui (se non altro per il ruolo apicale che riveste da alcuni anni); ma ciò non toglie che proprio il suo ruolo apicale rende importante il gesto delle scuse.
Il vero punto è: ma di cosa chiede scusa?!
Perché, vedete, la mia impressione è che per Manganelli (ma così pure per molti commentatori, in buona o mala fede) tutto sia fermo a 11 anni fa; alle botte al plesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli; al massimo alle balle raccontate da agenti e funzionari per giustificare nell’immediato la “macelleria messicana” e per accusare i 90 e più fermati. Non è così: quanto accaduto è stato gravissimo, ma se le scuse sono rivolte, come credo, solo a quello non bastano. “Meglio di niente”, come si suol dire, ma gli undici anni trascorsi dalla notte cilena sembrano passati invano. Solo gesti concreti proiettati al futuro, tesi davvero a non far ripetere più quanto accaduto a Genova, servirebbero. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Su queste questioni Manganelli ha sempre taciuto, perdendo un’occasione irripetibile anche in occasione della Cassazione-Diaz: senza un serio impegno per il futuro la parola “scusa”, dopo un primo doveroso apprezzamento, resta una parola vuota (rischiando di diventare addirittura irridente)
Il timore che si voglia chiudere Genova con “un pareggio”
Il 13 luglio, quindi fra pochissimo, la Cassazione scriverà un’altra “parola definitiva” sui fatti di Genova. Stavolta alla sbarra sono dieci manifestanti, che rischiano davvero molto: il reato a cui sono stati condannati in appello (“devastazione e saccheggio”) è una fattispecie di reato che, dopo essere stata a lungo inutilizzata, è tornata d’attualità nell’intento di inasprire le sanzioni da comminare nei casi di disordini di piazza. Praticamente i dieci condannati sono stati trattati come fossero gli Unni di Attila: pene pesantissime, e stavolta, nel caso di conferma della sentenza, da scontare per intero: il salvagente della prescrizione e quello dei reati “individuati al ribasso” (paradigmatica la già menzionata mancata istituzione del reato di tortura, fondamentale – per gli agenti… – specialmente per Bolzaneto) non vale per i manifestanti… Checchino Antonini, con la consueta ruvida lucidità, ha scritto “dieci uomini e donne, che sembrano pescati nel mucchio tra i trecentomila dell'altromondo possibile, rischiano di pagare con un secolo di galera complessivo la straordinaria mobilitazione che tutta la società civile di allora mise in campo. All'indomani della sentenza sulle violenze inaudite all'interno della scuola Diaz, che ha decapitato la linea di comando della polizia di stato, si potrebbe verificare il paradosso che, per una vetrina rotta (di questo si tratta nel peggiore dei casi, o una bottiglia presa in un supermercato o una vespa presa per spostarsi dall'altra parte della città) si possano scontare da 8 a 15 anni di prigione, mentre per il massacro e l'arresto illegittimo di 92 persone inermi e innocenti non si sconta neppure un quarto d'ora di pena”: null’altro da aggiungere… Se non che quelle dieci persone non vanno lasciate sole: a tale proposito, vedere questo link.
Francesco “baro” Barilli
Ecco comunque alcune riflessioni sparse.
L’indipendenza della Magistratura
Undici anni sono tanti per un processo, per qualsiasi processo. Specie se si pensa che, lo dico per la Diaz ma vale pure per Bolzaneto, lo spettro della prescrizione ha depotenziato il risultato e rischiava di fare di peggio (ancora qualche mese…). E’ pacifico che qualche riflessione sui tempi della macchina della giustizia sarebbe doverosa, indipendentemente dal fatto che su Genova, e specialmente sulla Diaz, i tempi sono stati dilatati perché altri pezzi dello Stato hanno fatto di tutto per ostacolare o almeno rallentare (sempre nell’ottica di puntare alla prescrizione) i tempi della magistratura. E’ vero, inoltre, che non è possibile dare un giudizio univoco dei giudici genovesi: brucia ancora l’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, e siamo ancora in attesa della sentenza definitiva a carico di alcuni manifestanti (a cui dedicherò un capitolo a parte).
Fermo restando tutto questo la sentenza Diaz resta qualcosa di clamoroso. Anche perché proprio la strategia “ostruzionistica” messa in campo, fra indagini e processo, dalle forze dell’ordine ha portato ad un effetto paradossale quanto significativo: per una volta le condanne hanno risparmiato la “bassa manovalanza”, colpendo il vertice della catena di comando (fatta eccezione per De Gennaro e per i referenti politici). Insomma, al di là dell’importanza specifica sul “caso Genova” la sentenza Diaz (ma anche quella d’appello su Bolzaneto, nonché alcuni giudizi del tribunale su violenze ai manifestanti – piazza Manin, Via Barabino ecc) è paradigmatica di quanto sia importante l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato.
Come anarchico non sono particolarmente vicino a qualsivoglia forma di “potere” (tranquilli: non v’annoierò filosofeggiando su anarchia e “stato di diritto”), ma non mi sfugge che – dal fascismo a Berlusconi passando per la Loggia P2 – tutti i progetti autoritari (diversamente modulati, ovvio) avevano fra le priorità la subordinazione del potere giudiziario all’autorità politica. L’indipendenza della magistratura fa paura alla politica e agli altri apparati del potere: questo è uno dei tanti “insegnamenti” del processo Diaz; non il più importante, ma comunque da tenere ben presente.
L’azione civile delle vittime e dei comitati genovesi
Altro elemento che nella storia della Diaz mi ha fatto sentire particolarmente vivo il filo rosso che unisce molte, se non tutte, le vicende che seguo per reti-invisibili è l’azione dei comitati genovesi (Verità e Giustizia per Genova e Piazza Carlo Giuliani). Per Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia Georgofili, così come per casi “singoli” (Fausto e Iaio come Pinelli o Ilaria Alpi… e molti altri…) l’ammirevole impegno dei familiari delle vittime, nella quasi totale inerzia delle istituzioni, è una costante: senza di loro non si riuscirebbe a conquistare neppure un brandello di verità e giustizia.
Le deboli “scuse” di Manganelli e quelle ambigue di De Gennaro
Sia chiaro: c’è differenza fra le “scuse” di Manganelli e le parole di De Gennaro. Su quest’ultimo ha già detto tutto Lorenzo Guadagnucci e non aggiungo altro. Dico solo che le ambigue parole di De Gennaro sono riuscite persino a svilire le pallide, ma per certi versi apprezzabili, “scuse” di Manganelli.
Non è il caso di discutere sulla sincerità dell’attuale capo della polizia: questo attiene la sua coscienza. E pure il ricordare atteggiamenti passati di Manganelli ci porterebbe fuori strada: non dimentico certe frasi infelici (alcune gravi, espresse proprio verso i pm che indagavano sulla Diaz) e neppure che quella difesa “corporativa” e ostruzionistica dei funzionari di polizia va addebitata anche a lui (se non altro per il ruolo apicale che riveste da alcuni anni); ma ciò non toglie che proprio il suo ruolo apicale rende importante il gesto delle scuse.
Il vero punto è: ma di cosa chiede scusa?!
Perché, vedete, la mia impressione è che per Manganelli (ma così pure per molti commentatori, in buona o mala fede) tutto sia fermo a 11 anni fa; alle botte al plesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli; al massimo alle balle raccontate da agenti e funzionari per giustificare nell’immediato la “macelleria messicana” e per accusare i 90 e più fermati. Non è così: quanto accaduto è stato gravissimo, ma se le scuse sono rivolte, come credo, solo a quello non bastano. “Meglio di niente”, come si suol dire, ma gli undici anni trascorsi dalla notte cilena sembrano passati invano. Solo gesti concreti proiettati al futuro, tesi davvero a non far ripetere più quanto accaduto a Genova, servirebbero. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Su queste questioni Manganelli ha sempre taciuto, perdendo un’occasione irripetibile anche in occasione della Cassazione-Diaz: senza un serio impegno per il futuro la parola “scusa”, dopo un primo doveroso apprezzamento, resta una parola vuota (rischiando di diventare addirittura irridente)
Il timore che si voglia chiudere Genova con “un pareggio”
Il 13 luglio, quindi fra pochissimo, la Cassazione scriverà un’altra “parola definitiva” sui fatti di Genova. Stavolta alla sbarra sono dieci manifestanti, che rischiano davvero molto: il reato a cui sono stati condannati in appello (“devastazione e saccheggio”) è una fattispecie di reato che, dopo essere stata a lungo inutilizzata, è tornata d’attualità nell’intento di inasprire le sanzioni da comminare nei casi di disordini di piazza. Praticamente i dieci condannati sono stati trattati come fossero gli Unni di Attila: pene pesantissime, e stavolta, nel caso di conferma della sentenza, da scontare per intero: il salvagente della prescrizione e quello dei reati “individuati al ribasso” (paradigmatica la già menzionata mancata istituzione del reato di tortura, fondamentale – per gli agenti… – specialmente per Bolzaneto) non vale per i manifestanti… Checchino Antonini, con la consueta ruvida lucidità, ha scritto “dieci uomini e donne, che sembrano pescati nel mucchio tra i trecentomila dell'altromondo possibile, rischiano di pagare con un secolo di galera complessivo la straordinaria mobilitazione che tutta la società civile di allora mise in campo. All'indomani della sentenza sulle violenze inaudite all'interno della scuola Diaz, che ha decapitato la linea di comando della polizia di stato, si potrebbe verificare il paradosso che, per una vetrina rotta (di questo si tratta nel peggiore dei casi, o una bottiglia presa in un supermercato o una vespa presa per spostarsi dall'altra parte della città) si possano scontare da 8 a 15 anni di prigione, mentre per il massacro e l'arresto illegittimo di 92 persone inermi e innocenti non si sconta neppure un quarto d'ora di pena”: null’altro da aggiungere… Se non che quelle dieci persone non vanno lasciate sole: a tale proposito, vedere questo link.
Francesco “baro” Barilli
sabato 7 luglio 2012
Cose da fare, segnalazioni e cose da non dimenticare...
Segnalo un'altra recensione a "Piazza della Loggia volume 1".
Il 13 luglio io e Matteo Fenoglio saremo a Pinerolo, con Alessio Lega. Sotto, la locandina.
Il 20 luglio invece sarò a Genova... Ma questo credo che chi legge questo blog lo immaginasse già... Sotto, la locandina: l'illustrazione è di Manuel De Carli.
Il 13 luglio io e Matteo Fenoglio saremo a Pinerolo, con Alessio Lega. Sotto, la locandina.
Il 20 luglio invece sarò a Genova... Ma questo credo che chi legge questo blog lo immaginasse già... Sotto, la locandina: l'illustrazione è di Manuel De Carli.
giovedì 14 giugno 2012
"Piazza della Loggia volume 1": ancora recensioni e iniziative
Dal Giornale di Brescia, 10 giugno 2012:
Qui potete leggere lo speciale che la rivista Reader's bench ha dedicato al mondo del fumetto. Al suo interno, la recensione al primo vol. di Piazza della Loggia (rece di Clara Raimondi, che ringrazio).
Venerdì 15 giugno, ore 21,00, io e Matteo saremo al Csa Baraonda di Segrate.
Giovedì 21 sarò alla Libreria della Giustizia e della Legalità presso la Festa del Pd di Nave. Ore 19,30. Organizzazione: Gruppo culturale Naviter.
Qui potete leggere lo speciale che la rivista Reader's bench ha dedicato al mondo del fumetto. Al suo interno, la recensione al primo vol. di Piazza della Loggia (rece di Clara Raimondi, che ringrazio).
Venerdì 15 giugno, ore 21,00, io e Matteo saremo al Csa Baraonda di Segrate.
Giovedì 21 sarò alla Libreria della Giustizia e della Legalità presso la Festa del Pd di Nave. Ore 19,30. Organizzazione: Gruppo culturale Naviter.
giovedì 31 maggio 2012
“Piazza della Loggia vol. 1”: altre recensioni e varie...
Recensione di Giovanni Basile per SoloLibri.net.
Ed ecco, al minuto 21:20 circa, il servizio che il TG3 Lombardia ha dedicato al nostro fumetto su Piazza della Loggia (all'interno di uno speciale di "Buongiorno Regione" sull'anniversario della strage di Brescia).
Recuperate (anche se temo che il mio consiglio arrivi un po' troppo tardi) InsideArt del mese di maggio: contiene un'intervista al sottoscritto, realizzata da Checchino Antonini, mio buon amico, ottimo giornalista, nonchè mio compagno di viaggio già in tante avventure, da reti-invisibili a "Carlo Giuliani il ribelle di Genova" (con Manuel De Carli) passando per "Scuola Diaz Vergogna di Stato".
Altro consiglio di lettura (questo un po' meno tardivo): questo mese su E, IL MENSILE di Emergency, trovate un'anteprima di PIAZZA DELLA LOGGIA VOL1. Sotto, la prima pagina.
Qui, invece, la recensione dell'Agenzia Parlamentare AgenParl.
Per finire: intervista al sottoscritto su "Piazza della Loggia vol.1". 28 maggio 2012, Radio Onda d'urto. Se avete ancora la pazienza di ascoltarmi...
Ed ecco, al minuto 21:20 circa, il servizio che il TG3 Lombardia ha dedicato al nostro fumetto su Piazza della Loggia (all'interno di uno speciale di "Buongiorno Regione" sull'anniversario della strage di Brescia).
Recuperate (anche se temo che il mio consiglio arrivi un po' troppo tardi) InsideArt del mese di maggio: contiene un'intervista al sottoscritto, realizzata da Checchino Antonini, mio buon amico, ottimo giornalista, nonchè mio compagno di viaggio già in tante avventure, da reti-invisibili a "Carlo Giuliani il ribelle di Genova" (con Manuel De Carli) passando per "Scuola Diaz Vergogna di Stato".
Altro consiglio di lettura (questo un po' meno tardivo): questo mese su E, IL MENSILE di Emergency, trovate un'anteprima di PIAZZA DELLA LOGGIA VOL1. Sotto, la prima pagina.
Qui, invece, la recensione dell'Agenzia Parlamentare AgenParl.
Per finire: intervista al sottoscritto su "Piazza della Loggia vol.1". 28 maggio 2012, Radio Onda d'urto. Se avete ancora la pazienza di ascoltarmi...
martedì 22 maggio 2012
Piazza della Loggia vol. 1: recensioni e iniziative
Recensione di Valeria Gandus da Il Fatto Quotidiano del 15 maggio.
Poi, un po' di iniziative. Nell'ordine:
Firenze, 19 maggio
Crema, 25 maggio
Milano, 28 maggio
Programma completo della Casa della Memoria di Brescia per maggio/giugno 2012 (io e Matteo saremo lì il 7 giugno)
Cliccate sulle img per migliori dettagli.
Poi, un po' di iniziative. Nell'ordine:
Firenze, 19 maggio
Crema, 25 maggio
Milano, 28 maggio
Programma completo della Casa della Memoria di Brescia per maggio/giugno 2012 (io e Matteo saremo lì il 7 giugno)
Cliccate sulle img per migliori dettagli.
giovedì 10 maggio 2012
Piazza della Loggia vol. 1: Intervista su Le strade di Babele
Una lunga intervista al sottoscritto. In due parti:
Prima parte
Seconda parte
Mille grazie a Eugenia, per tutto!!!
Prima parte
Seconda parte
Mille grazie a Eugenia, per tutto!!!
martedì 8 maggio 2012
Ricordo di Stefano Tassinari
Lunedì sera, 7 maggio, è morto Stefano Tassinari.
Avevo parlato dei suoi romanzi. Lui ne era stato contento, mi scrisse ringraziandomi…
Anni prima lo avevo intervistato. Una lunga chiacchierata che partiva dal suo “I segni sulla pelle” e affrontava in generale i fatti di Genova del luglio 2001.
L’articolo completo lo potete leggere qui (contiene anche una mia lunga premessa e un’intervista ad Haidi Giuliani). Riporto di seguito, integralmente, l’intervista a Stefano, realizzata a Bologna il 27 ottobre 2004.
Ciao Stefano. Le (purtroppo poche…) volte in cui ti ho visto sono state per me “speciali”. Sei stato un bell’esempio: di vita, di capacità di analisi, di onestà intellettuale, di “vera militanza attiva”. E oggi non trovo parole adatte per ricordarti o per dirti quanto mi mancherai…
********
Bologna, 27 ottobre 2004 – intervista con Stefano Tassinari
F.B.:
Una domanda banale e scontata, ma fondamentale: come ti è nata l’idea di scrivere questo libro?
STEFANO TASSINARI:
L’idea di scrivere qualcosa su Genova mi è nata praticamente subito, alla fine della terza giornata, prima ancora dell’irruzione alla Diaz. Ero nei pressi della stazione ferroviaria di Quarto, raggiunta insieme a migliaia di fuggitivi, dopo ore di cariche e di lacrimogeni. Mi dissi che su tutti quegli episodi andava fatta una ricostruzione che non fosse “solo” quella della controinformazione (senza nulla togliere ai meriti che ha avuto la controinformazione, per quei giorni), ma anche qualcosa di diverso. Io tra l’altro vengo da un’esperienza di letteratura civile, ed ho sempre ritenuto importante che gli scrittori si rapportino con la realtà in cui vivono, calando la propria opera nella società contemporanea. E già in quel momento sentivo che i giorni di Genova sarebbero diventati, in negativo, un momento centrale della storia di questo Paese. Durante quella giornata avevo poi ricevuto molte telefonate preoccupate di amici scrittori, che sapevano della mia presenza a Genova; erano preoccupati sia per la mia incolumità, sia per le notizie drammatiche che sentivano dai notiziari. Parlo di Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Marco Lodoli, Simona Vinci e altri ancora. Anche parlando con loro emergeva l’esigenza di scrivere, di lasciare una traccia su quel che stava accadendo in quei frangenti. Cosa che poi è stata effettivamente fatta da alcuni: penso a Massimo, che nel suo romanzo “Il maestro di nodi” ha inserito un capitolo su Genova; ma anche altri, che non fanno parte del gruppo di scrittori con cui parlai nell’immediatezza, hanno scritto pagine molto interessanti su Genova.
Insomma, l’idea mi è nata subito, ma si è concretizzata solo dopo alcuni mesi. Ero a Pisa, alla libreria “Tra le righe”, per la presentazione del mio precedente romanzo, “L’ora del ritorno”. Quella sera parlai con Laura Baldini, la proprietaria della libreria, una cara amica che era stata anche una delle tante vittime di Genova (probabilmente l’hai vista ritratta in una foto che la mostra ferita e sanguinante al capo)… Mi chiese cosa avessi in mente di scrivere, dopo quel romanzo, e le risposi che pensavo proprio ad un romanzo su Genova. Le confidai che volevo scrivere un storia che avesse come protagonista una ragazza giovane; una ragazza che non aveva mai visto personalmente un morto per “fatti di piazza”, ma anzi fosse nata proprio negli anni in cui erano morti gli ultimi ragazzi durante manifestazioni, per mano delle forze dell’ordine o dei fascisti (penso a Walter Rossi, Giorgiana Masi, Francesco Lorusso). Mi interessava un discorso generazionale: la mia generazione aveva vissuto il periodo delle “leggi speciali”, durante il quale gli scontri di piazza dovevi, purtroppo, metterli in preventivo… Ma che cosa significava Genova per una ragazza di 25 anni, andata a Genova senza aspettarsi minimamente quel clima, mai conosciuto precedentemente?
Confidai a Laura tutti questi pensieri, ma le dissi che sulla trama vera e propria non avevo ancora le idee chiare: stavo cercando vicende “secondarie” di Genova, fatti oscuri, vicende ancora avvolte nell’indefinito. Fu lei a dirmi “perché non scrivi qualcosa sull’ipotetica seconda vittima degli scontri del venerdì? Si tratta di una voce circolata moltissimo, in quei giorni, ma poi è stata messa a tacere…”.
F.B.:
Tu conoscevi già questa storia?
S.T.:
Sì, ne avevo sentito parlare, ma ti confesso che la reputavo una leggenda metropolitana. Fu Laura ad insistere; mi disse che se ne erano interessati alcuni avvocati, che diverse voci convergevano in quella direzione. Mi convinse che dietro quelle voci potevano trovarsi elementi reali, o comunque emblematici del clima di quelle giornate.
Quindi sono tornato a Genova, ed ho cominciato a raccogliere diverse testimonianze, sia fra avvocati, sia fra ragazzi del Movimento. Poi (per la costruzione del profilo della protagonista) decisi di intervistare ragazze della stessa età che avevo ipotizzato per Caterina, che avessero fatto le croniste durante il G8 per Radio Capital, Città del Capo, Radio Gap eccetera. Parlando con una di queste ragazze venne fuori il discorso della prima telefonata che cito nel libro, quella in cui un ragazzo dice: “non sono di Genova, non so come si chiami la strada in cui mi trovo, ma sono vicino a Via Tolemaide. Ho visto una ragazza caricata su un’ambulanza. Non mi sembrava dare segni di vita…”.
Abbiamo cercato le registrazioni di tutte le telefonate arrivate a queste radio il 20 luglio. La ragazza ricordava nitidamente di aver ricevuto una telefonata allarmante, che parlava di una possibile vittima, ma nella concitazione di quella giornata la cosa era finita poi nel dimenticatoio (tieni conto poi che la morte di Carlo e tutti i fatti successivi deviarono l’attenzione da quella “voce” che non trovava conferme). Successivamente alcuni avvocati genovesi mi parlarono della testimonianza di un’infermiera dell’ospedale Galliera, che ricordava una richiesta di intervento di un’ambulanza con un “codice rosso” (quindi per un intervento molto grave ed urgentissimo) dalla zona di via Invrea, proprio all’ora della telefonata a radio Gap (si tratta delle 17,00 circa, quindi PRIMA della morte di Carlo)… Tu nell’articolo proponi, giustamente, dei dubbi sulla collocazione precisa del fatto, avanzando l’ipotesi che questo (ferma restando la sua natura ipotetica) sia avvenuto nei pressi di Via Montevideo; io posso dirti che le testimonianze che ho raccolto convergevano invece sulla zona di Via Invrea. Anche Giulietto Chiesa nel suo libro (“G8/Genova” – Einaudi) parla di un episodio molto simile a quello ipotizzato nel mio libro, e lo fa citando la stessa fascia oraria e la stessa zona. Quella di Giulietto Chiesa, pur nella sua brevità, è una testimonianza fondamentale; dice semplicemente: “Vedo una ragazza urtata violentemente da un furgone, che cade a terra svenuta. Due giovani la sollevano e la portano lontano. Viva? Morta? L’angoscia cresce”. Non aggiunge altro perché questo è tutto ciò che vede, ma le coincidenze sono inquietanti… Stessa fascia oraria della prima telefonata a Radio Gap, stessa zona…
Comunque, ti dicevo, dopo tutte queste ricerche ho deciso di puntare su questa vicenda per il romanzo su Genova. Mi rendevo conto di avere in mano delle telefonate anonime (quindi con tutti i limiti di affidabilità e credibilità che bisogna riconoscere), ma che convergevano nella stessa direzione. La telefonata dall’ospedale militare, poi, per molti versi definiva i termini della vicenda e la rendeva ancora più credibile. Si tratta anche in questo caso di una testimonianza anonima e brevissima; questa telefonata, a differenza della prima non l’ho ascoltata personalmente, ma l’ho rintracciata attraverso le mie interviste (raccolte però in tempi diversi e con persone che raccontavano la propria esperienza senza essersi parlate fra loro). E’ una telefonata brevissima (alle 19,20 circa sempre di venerdì 20 luglio) in cui la voce di un uomo adulto dice, semplicemente e con grande freddezza, “c’è una ragazza morta qui all’ospedale militare…”. E’ una testimonianza, dicevo, che contribuisce a spostare ancora di più la vicenda dall’ipotetico al verosimile, la rende più definita: ti ricordo che la voce di una seconda vittima cominciò a circolare con insistenza nel tardo pomeriggio del 20 luglio, tanto che giornali e televisioni mandarono i propri inviati a cercare conferme nei vari ospedali di Genova, ottenendo sempre risposte che smentivano con sicurezza l’esistenza di una ragazza arrivata morta all’ospedale o ricoverata in condizioni disperate… Ma nessuno aveva pensato all’ospedale militare.
A questo punto mi sono trovato effettivamente di fronte ad una cosa che mi sembrava enorme ed ho cominciato a lavorarci sopra. So che le telefonate anonime hanno forti limiti. La notizia di una seconda vittima poteva anche essere stata messa in giro “ad arte” da qualcuno dei Servizi, per mille motivi (visto che in quelle giornate circolarono diverse voci “strane” e poi rivelatesi infondate), ma su questa ragazza investita le voci erano molteplici, con riscontri in termini di orari e di collocazione…
F.B.:
Come arrivi ad ipotizzare che quella ragazza fosse un’infiltrata?
S.T.:
Le voci che avevo raccolto mi portarono a dire che se il fatto era successo davvero la vittima non poteva essere una ragazza del movimento (in questo caso i suoi compagni o la famiglia avrebbero chiesto notizie, la cosa non poteva certo passare sotto silenzio), ma un’infiltrata, e che la cosa era stata messa a tacere di conseguenza, per i motivi che anche tu sintetizzi nell’articolo. Di infiltrati ce n’erano, in quei giorni, questo te lo posso assicurare (e magari su un episodio “curioso”, che ho vissuto personalmente, ci soffermeremo dopo…), di tutte le nazionalità, e di sicuro ce n’erano parecchi nei gruppi baschi.
E’ chiaro che a questo punto il mio lavoro di ricerca si intreccia inevitabilmente con le esigenze narrative: mi trovavo a dover spiegare il modo in cui si insabbia la morte della giovane, e qui ho lavorato di fantasia: l’incidente “inventato” in Andalusia, in cui si finge che la ragazza sia rimasta uccisa, è pura invenzione narrativa. Mi sono detto che, per insabbiare la fine della ragazza, qualcuno doveva aver inscenato una sua morte “diversa” e non collegabile a Genova, pagando poi il silenzio della famiglia eccetera…
Ma del resto il vero obbiettivo del mio romanzo non era una controinchiesta. Da un lato volevo fare emergere questa vicenda oscura, in modo che se qualcuno (a cominciare dalla Magistratura) avesse voluto approfondirla con inchieste più puntuali avrebbe potuto farlo. D’altra parte mi serviva una storia da usare a livello simbolico, che rendesse il clima di quei giorni, le molte vicende mai chiarite, comprese quelle che, alla fine del romanzo, faccio raccontare ai ragazzi che si ritrovano; quelle di cui avete parlato anche tu ed Haidi: il cadavere di Chiavari (seppellito senza un’identità), l’inglese recuperato a Levanto…
Il senso del romanzo era raccontare questa generazione che si affaccia alla politica, forse con un po’ di ingenuità, ma con passione ed entusiasmo, e che vive questa violenza inaudita ed inaspettata. Ho aggiunto anche la storia d’amore fra Caterina ed Alessandro e l’ho fatta nascere proprio qui a Bologna… Perché del resto, in un certo senso, il Movimento stesso rinasce proprio in questa città un anno prima del G8 genovese, durante il “NO OCSE”, quando la gente ricomincia ad andare in piazza dopo tanti anni… Il mio obbiettivo era usare la letteratura per fare riflettere le persone (anche e soprattutto quelle che a Genova non c’erano) su tutte le violazioni della legalità che sono state commesse, sul clima oscuro di quei momenti.
Io credo che una lettura attenta di quei giorni potrebbe portare a riflessioni politiche molto interessanti, in gran parte ancora non maturate. Mi è capitato di riflettere sulle divisioni politiche che hanno attraversato l’Europa, in occasione della preparazione della guerra in Iraq. Se ci pensi, i Paesi che si allineano con l’America di Bush sono gli stessi che sulla repressione a Genova si schierano per la linea dura: Italia, Spagna, Inghilterra. Molti Paesi europei hanno avuto loro cittadini feriti e traumatizzati dalle violenze poliziesche a Genova; la Germania e la Francia (che poi sull’Iraq si schiereranno contro gli USA) avanzarono forti proteste contro il governo Berlusconi per il trattamento riservato ai propri cittadini (e l’atteggiamento della Francia, in teoria alleato politico della destra di Berlusconi, sorprese non poco). Inghilterra e Spagna non avanzarono nessuna protesta per quanto successo ai propri cittadini nel luglio 2001… Sembra quasi che proprio in quel vertice si siano delineate delle strategie internazionali che avrebbero sotteso la politica degli anni successivi, delineando le alleanze e le conseguenze non solo in tema di politica estera, ma pure in tema di repressione del dissenso. E la teorizzazione della “guerra preventiva” ha molto a che vedere con la repressione dura del Movimento.
F.B.:
Prima hai accennato a voci e notizie “fuori controllo”: ricordo distintamente che dalle 16,00 circa del 20 luglio circola insistentemente anche la voce, rivelatasi poi totalmente falsa, di un carabiniere morto o gravissimo. Ne parla anche Marco Poggi nel suo libro “Io, l’infame di Bolzaneto” (“…fra di noi, si sparse la notizia che un carabiniere fosse stato ferito. Questo ci turbò molto, anche perché la notizia ebbe un seguito all’interno del nostro ambiente. … Qualche ora più tardi eravamo al lavoro, a Bolzaneto. Incrociai un maresciallo dei carabinieri e chiesi notizie del carabiniere ferito. La sua risposta mi gelò: ‘È morto!’, mi disse. Per diverse ore continuai a credere che un carabiniere fosse morto veramente.”). Una notizia probabilmente costruita ad arte per alimentare la furia delle forze dell’ordine ed alzare ancora di più il livello dello scontro… Volevo poi che tu mi raccontassi l’episodio dell’infiltrato che hai vissuto di persona.
S.T.:
Sì, ho sentito anch’io questa voce. E sicuramente lo scopo era proprio quello che dicevi tu. Ricordo che girò anche la voce che si fosse “cercata” la morte di un carabiniere, proprio per scatenare ancora di più la violenza delle forze dell’ordine…
Per quanto concerne l’infiltrato: il sabato, mentre stavamo scappando verso Quarto, si è avvicinato a noi un tipo, molto robusto ed armato di una mazza da baseball, vestito come un black block. Ha cominciato ad urlare come un pazzo, incitandoci ad assaltare la caserma dei carabinieri di Corso Italia. Noi l’abbiamo guardato come fosse uno scemo… Ma il punto è che, una volta arrivati davanti a quella caserma (assolutamente pacifici, e senza che nessuno avesse lanciato un solo sasso) è iniziato un fitto lancio di lacrimogeni. Piovevano sia dall’alto (dalle mura), sia da dietro i cancelli: evidentemente ci aspettavano, aspettavano qualche provocazione da parte nostra e si erano preparati per attaccarci in quel modo. Noi, tra l’altro, eravamo in fuga (eravamo già stati caricati in precedenza), per cui non aveva alcun senso che loro ci aggredissero in quel modo; semplicemente loro avevano preparato DA PRIMA l’attacco coi lacrimogeni, convinti di rispondere ad una nostra provocazione. Una provocazione che non era arrivata, ma a cui proprio quello strano individuo ci voleva istigare…
F.B.:
Nell’articolo accenno all’interrogazione di Paolo Cento conseguente il tuo libro. L’unica traccia di una risposta a questa interrogazione l’ho trovata sul Manifesto. Ne parlo nell’articolo: si tratta di una risposta totalmente fuorviante, che in apparenza risponde all’episodio narrato nel tuo libro ed all’interrogazione di Cento, ma in realtà tratta UN ALTRO episodio. In questa risposta, che persino il Manifesto prende per buona, c’è solo ignoranza dei fatti o la volontà da parte delle Istituzioni di voler mantenere una scarsa conoscenza su questi fatti (sempre sottolineando la sicura buona fede del Manifesto)? E sai qualcosa su dove sia avvenuto l’episodio della ragazza manganellata?
S.T.:
Ho letto l’articolo di cui parli. Sinceramente anch’io sono rimasto colpito in negativo. Anche a mio avviso da parte del Manifesto c’è buona fede, ma sono stati un po’ superficiali nel prendere per buona la risposta di Pisanu (o, per meglio dire, la risposta del pm, che Pisanu riprende nella sua risposta in Parlamento). Io sapevo della storia di questa ragazza manganellata e svenuta, che sembra grave ma poi per fortuna si salva. Quando ho sentito della risposta della Magistratura Genovese e di Pisanu mi sono subito detto: hanno usato una storia simile (oddio… simile fino ad un certo punto, per di più…) per rispondere, divincolandosi da una situazione difficile… Mi ha sorpreso ed infastidito: il mio libro e l’interrogazione di Cento parlano di un caso preciso (vero o falso che sia poco importa, in questo momento): una ragazza INVESTITA da un blindato, e NON di una ragazza manganellata. Piuttosto potevano rispondere “non ci risulta nessuna ragazza investita, o investita con conseguenze così gravi”; sarebbe stato persino più semplice, per loro…
Certo, di menzogne ne hanno raccontate tante: penso alla storia della sassaiola con cui hanno giustificato l’irruzione alla Diaz e poi alla storia delle armi improprie e delle molotov “trovate” in quella scuola, alle menzogne raccontate per fatti di strada o per la morte di Carlo… Però mi ha stupito sentire un Ministro che risponde ad un’interrogazione semplicemente eludendola… e senza entrare nel merito di quanto chiesto.
Per quanto concerne la localizzazione della ragazza manganellata, purtroppo non so dirti nulla. Non so se la zona fosse vicina a dove ipotizzo io l’investimento, e se questa eventuale vicinanza possa in una certa misura giustificare la sovrapposizione dei due episodi.
F.B.:
Prima hai parlato di “violenza inaudita ed inaspettata”. Inaudita ed inaspettata anche per chi aveva vissuto un’epoca di conflitti sociali fortissimi, in cui le violenze delle forze dell’ordine erano molto più frequenti. Questo mi porta a chiederti una riflessione in generale sulla gestione dell’ordine pubblico a Genova.
S.T.:
Io credo abbiano fatto una selezione preventiva sulle persone da mandare a Genova. Qui a Bologna, tanto per parlare di una situazione che conosco bene, tutti o quasi gli appartenenti ai sindacati di sinistra sono rimasti a casa. Ma anche in tempi successivi si sono visti i segni di un’involuzione autoritaria delle forze dell’ordine. Ricordo lo scandalo emerso proprio qui a Bologna quando apparvero le magliette con scritto “A Genova io c’ero – Polizia di Stato”. Pisanu liquidò la cosa come una ragazzata, chiedendo il ritiro della magliette, ma il poliziotto che denunciò quella faccenda (con un’intervista a Micromega) fu poi letteralmente massacrato mediaticamente. Giravano i manifestini con la sua foto e scritte allucinanti tipo “ecco l’amico di Bin Laden”…
Io credo che in questi anni si sia sbagliato nel non continuare la battaglia iniziata nei primi anni 80, per una polizia più “democratica”. Dopo la smilitarizzazione della Polizia li abbiamo lasciati da soli, abbiamo pensato che il lavoro fosse finito… Invece, specie negli ultimi anni, è cominciato dalla parte contraria un lavoro metodico di selezione e formazione politica delle nuove reclute. Ci sono episodi inquietanti; penso a quel poliziotto Laziale, di stanza a Torino, estromesso dalla polizia perché su un furgone, tornando dopo aver prestato servizio ad una partita di calcio, si era permesso di criticare l’operato delle forze dell’ordine a Genova; penso ad altri casi del genere… e penso anche a Marco Poggi: lui non era poliziotto ma infermiere della polizia penitenziaria, ma dopo le sue “rivelazioni” su Bolzaneto la vita nel suo ambiente di lavoro è andata deteriorandosi velocemente…
F.B.:
A proposito del “dopo Genova”, quando ci siamo parlati per telefono mi hai parlato di altri aspetti inquietanti. Storie di ragazzi traumatizzati, di suicidi riconducibili (magari indirettamente e parzialmente) proprio all’esperienza genovese… Si può dire che si tratta di storie ingiustamente dimenticate, che dimostrano che i “segni sulla pelle” si sono propagati anche nelle coscienze delle persone, segnandole in modo indelebile…
S.T.:
Ci sono molti casi su cui si dovrebbe indagare meglio e con più serietà, riunendoli in un’inchiesta che abbia anche uno spessore scientifico. Sì, ho sentito di ragazzi che sono giunti al suicidio; chiaramente è impossibile dire in che misura l’esperienza del luglio 2001 li abbia portati a quel gesto disperato. Per uno di questi casi ho parlato personalmente con amici e parenti del ragazzo, che mi hanno raccontato di quanto fosse sconvolto dopo gli avvenimenti di Genova; si è suicidato nell’agosto dello stesso anno. Un altro caso che conosco personalmente è quello di un ragazzo, vicino ad Arezzo, che per un mese e mezzo dopo il G8 si chiuse in un mutismo assoluto; non parlava né con genitori né con gli amici, mentre prima era un giovane aperto, senza problemi di relazioni con gli altri… Ne ho parlato più in generale con alcuni psicologi di Verona, intenzionati a seguire vicende di questo tipo, i quali mi hanno riferito di diversi giovani sconvolti… Bisognerebbe allargare la ricerca, ritrovando i vari ragazzi e studiando come sia cambiata la loro vita dopo quei giorni.
Ci sono casi che sono rimasti “famosi” per quei pochi giorni, ma poi che ne è stato di loro? Penso a quel ragazzo di Ostia, massacrato dal vicequestore Perugini e ripreso in varie foto e video. Penso al figlio del giornalista de “La Stampa” Gian Paolo Ormezzano; anche questo fu un caso famoso, perché il padre parlò sui giornali del figlio, che era andato a Genova per girare un video nell’ambito dei suoi studi universitari. I due ragazzi sono stati pienamente scagionati, ma ora come vivono? Dentro di loro che segni portano di quell’esperienza?
Sappiamo quali sono stati i cambiamenti nella vita di Lorenzo Guadagnucci o di Laura Baldini, la mia amica di Pisa. Il primo non era un ragazzo, ma un uomo, un giornalista inspiegabilmente massacrato durante la “notte della Diaz”; sappiamo quanto la sua vita è cambiata, quanto abbia cercato di tradurre in impegno civile quella sua esperienza. Laura, quando sfoglia i libri su Genova e vede quella sua foto che la ritrae sanguinante, fa fatica a guardarsi… Lei e Lorenzo però sono due persone adulte, con già un’esperienza e forti motivazioni alle spalle, che avevano già vissuto o erano a conoscenza di storie drammatiche, ma un ragazzo di vent’anni come ha reagito? Quanto è cambiato?
F.B.:
A volte penso che si è scritto molto su “cosa è stata Genova”, per chi c’era o, in generale, per quelli che si riconoscono nell’attuale Movimento. E a volte penso che a questa domanda si potrebbe rispondere semplicemente: “è stata un trauma”; un trauma a cui ognuno reagisce a modo suo: c’è chi ne è uscito indebolito e chi rafforzato; chi più cinico e chi magari ancora più idealista; chi lo ha rimosso e chi ci convive ogni giorno… Un trauma per tutti, ma da cui si dipanano poi le matasse delle storie e delle sensibilità individuali. Per questo volevo chiudere questo articolo e la nostra chiacchierata con una tua riflessione su questo aspetto, e su cosa vuol dire per te, oggi, Genova…
S.T.:
Sì, si è trattato di un trauma. Inatteso per tutti, ma soprattutto per la generazione di Caterina. Noi “vecchi” avevamo visto o vissuto situazioni persino peggiori, ma erano altri tempi. Qui torno al discorso che ti facevo all’inizio: negli anni 70 c’erano le leggi speciali, per cui sotto un certo punto di vista andavi ad una manifestazione consapevole che qualcosa poteva andare storto. Io di morti in Piazza ne avevo visti anche personalmente, penso a Pietro Bruno, a Francesco Lorusso... Negli anni 70 andavi in piazza col servizio d’ordine, in un clima in cui eri preparato alla violenza, fisicamente e mentalmente. Certo, a Genova siamo stati traumatizzati anche noi, perché pensavamo che le cose fossero cambiate, ma i ragazzi erano andati a manifestare pacificamente, disarmati, pensando quasi ad una festa...
Io ho visto scene che non dimenticherò mai. Non dimenticherò mai l’agguato (uso intenzionalmente questa parola…) fatto in fondo a Corso Italia. Quando hanno attaccato l’hanno fatto senza alcuna considerazione per le persone, con una strategia militare che nulla aveva in comune con le esigenze di ordine pubblico. C’era un muro molto alto a destra, che sostiene un terrapieno, il mare a sinistra, i poliziotti davanti e migliaia di persone che premevano dietro, senza la possibilità di capire cosa stesse succedendo davanti (dove c’era una curva secca, oltre la quale il retro del corteo non poteva assolutamente vedere). E’ stato un momento drammatico: hanno cominciato a sparare decine e decine di lacrimogeni; da davanti, dagli elicotteri (e questo, ti assicuro, non l’avevo MAI visto fare) e persino dalle barche. Noi sentivamo questi gas terribili… Nell’immediatezza dei fatti, ovviamente, nessuno di noi aveva mai sentito parlare del gas CS, nessuno sapeva quanto micidiale fosse, ma ti assicuro che anche quelli come me (con già alle spalle esperienza di manifestazioni e di lacrimogeni) sentivano che era un gas “diverso” e terribile, che ti fa sentire morire… La gente scappava e rischiava di calpestarsi. C’è stato un autocontrollo incredibile, da parte dei manifestanti, ma potevano morire o restare ferite gravemente molte persone.
Le forze dell’ordine avevano perfettamente il controllo della situazione, dall’alto, e sapevano benissimo cosa vuol dire e cosa può provocare attaccare da più parti un corteo con 50.000 persone in quel modo, in una via senza sbocchi. Quella non è un’azione di ordine pubblico, ma è un’azione militare: non punta a disperdere un corteo, ma a farti ammassare per poi massacrarti. Fu in quel frangente che vidi persone gettarsi in acqua per cercare scampo, ma li inseguivano e li picchiavano anche in acqua…
L’ultima carica ce l’hanno fatta sotto il ponte che c’è 800 metri prima della stazione di Quarto, nei pressi di una caserma della polizia. E quando hanno sparato i lacrimogeni hanno pure sbagliato: tiravano dal basso verso l’alto, e calcolarono male la parabola; i candelotti finirono una cinquantina di metri oltre l’obbiettivo, in spiaggia, dove c’erano famiglie con bambini. Fu una scena allucinante, con le mamme che prendevano i bambini e scappavano… Anche questo ho dovuto vedere a Genova…
Avevo parlato dei suoi romanzi. Lui ne era stato contento, mi scrisse ringraziandomi…
Anni prima lo avevo intervistato. Una lunga chiacchierata che partiva dal suo “I segni sulla pelle” e affrontava in generale i fatti di Genova del luglio 2001.
L’articolo completo lo potete leggere qui (contiene anche una mia lunga premessa e un’intervista ad Haidi Giuliani). Riporto di seguito, integralmente, l’intervista a Stefano, realizzata a Bologna il 27 ottobre 2004.
Ciao Stefano. Le (purtroppo poche…) volte in cui ti ho visto sono state per me “speciali”. Sei stato un bell’esempio: di vita, di capacità di analisi, di onestà intellettuale, di “vera militanza attiva”. E oggi non trovo parole adatte per ricordarti o per dirti quanto mi mancherai…
********
Bologna, 27 ottobre 2004 – intervista con Stefano Tassinari
F.B.:
Una domanda banale e scontata, ma fondamentale: come ti è nata l’idea di scrivere questo libro?
STEFANO TASSINARI:
L’idea di scrivere qualcosa su Genova mi è nata praticamente subito, alla fine della terza giornata, prima ancora dell’irruzione alla Diaz. Ero nei pressi della stazione ferroviaria di Quarto, raggiunta insieme a migliaia di fuggitivi, dopo ore di cariche e di lacrimogeni. Mi dissi che su tutti quegli episodi andava fatta una ricostruzione che non fosse “solo” quella della controinformazione (senza nulla togliere ai meriti che ha avuto la controinformazione, per quei giorni), ma anche qualcosa di diverso. Io tra l’altro vengo da un’esperienza di letteratura civile, ed ho sempre ritenuto importante che gli scrittori si rapportino con la realtà in cui vivono, calando la propria opera nella società contemporanea. E già in quel momento sentivo che i giorni di Genova sarebbero diventati, in negativo, un momento centrale della storia di questo Paese. Durante quella giornata avevo poi ricevuto molte telefonate preoccupate di amici scrittori, che sapevano della mia presenza a Genova; erano preoccupati sia per la mia incolumità, sia per le notizie drammatiche che sentivano dai notiziari. Parlo di Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Marco Lodoli, Simona Vinci e altri ancora. Anche parlando con loro emergeva l’esigenza di scrivere, di lasciare una traccia su quel che stava accadendo in quei frangenti. Cosa che poi è stata effettivamente fatta da alcuni: penso a Massimo, che nel suo romanzo “Il maestro di nodi” ha inserito un capitolo su Genova; ma anche altri, che non fanno parte del gruppo di scrittori con cui parlai nell’immediatezza, hanno scritto pagine molto interessanti su Genova.
Insomma, l’idea mi è nata subito, ma si è concretizzata solo dopo alcuni mesi. Ero a Pisa, alla libreria “Tra le righe”, per la presentazione del mio precedente romanzo, “L’ora del ritorno”. Quella sera parlai con Laura Baldini, la proprietaria della libreria, una cara amica che era stata anche una delle tante vittime di Genova (probabilmente l’hai vista ritratta in una foto che la mostra ferita e sanguinante al capo)… Mi chiese cosa avessi in mente di scrivere, dopo quel romanzo, e le risposi che pensavo proprio ad un romanzo su Genova. Le confidai che volevo scrivere un storia che avesse come protagonista una ragazza giovane; una ragazza che non aveva mai visto personalmente un morto per “fatti di piazza”, ma anzi fosse nata proprio negli anni in cui erano morti gli ultimi ragazzi durante manifestazioni, per mano delle forze dell’ordine o dei fascisti (penso a Walter Rossi, Giorgiana Masi, Francesco Lorusso). Mi interessava un discorso generazionale: la mia generazione aveva vissuto il periodo delle “leggi speciali”, durante il quale gli scontri di piazza dovevi, purtroppo, metterli in preventivo… Ma che cosa significava Genova per una ragazza di 25 anni, andata a Genova senza aspettarsi minimamente quel clima, mai conosciuto precedentemente?
Confidai a Laura tutti questi pensieri, ma le dissi che sulla trama vera e propria non avevo ancora le idee chiare: stavo cercando vicende “secondarie” di Genova, fatti oscuri, vicende ancora avvolte nell’indefinito. Fu lei a dirmi “perché non scrivi qualcosa sull’ipotetica seconda vittima degli scontri del venerdì? Si tratta di una voce circolata moltissimo, in quei giorni, ma poi è stata messa a tacere…”.
F.B.:
Tu conoscevi già questa storia?
S.T.:
Sì, ne avevo sentito parlare, ma ti confesso che la reputavo una leggenda metropolitana. Fu Laura ad insistere; mi disse che se ne erano interessati alcuni avvocati, che diverse voci convergevano in quella direzione. Mi convinse che dietro quelle voci potevano trovarsi elementi reali, o comunque emblematici del clima di quelle giornate.
Quindi sono tornato a Genova, ed ho cominciato a raccogliere diverse testimonianze, sia fra avvocati, sia fra ragazzi del Movimento. Poi (per la costruzione del profilo della protagonista) decisi di intervistare ragazze della stessa età che avevo ipotizzato per Caterina, che avessero fatto le croniste durante il G8 per Radio Capital, Città del Capo, Radio Gap eccetera. Parlando con una di queste ragazze venne fuori il discorso della prima telefonata che cito nel libro, quella in cui un ragazzo dice: “non sono di Genova, non so come si chiami la strada in cui mi trovo, ma sono vicino a Via Tolemaide. Ho visto una ragazza caricata su un’ambulanza. Non mi sembrava dare segni di vita…”.
Abbiamo cercato le registrazioni di tutte le telefonate arrivate a queste radio il 20 luglio. La ragazza ricordava nitidamente di aver ricevuto una telefonata allarmante, che parlava di una possibile vittima, ma nella concitazione di quella giornata la cosa era finita poi nel dimenticatoio (tieni conto poi che la morte di Carlo e tutti i fatti successivi deviarono l’attenzione da quella “voce” che non trovava conferme). Successivamente alcuni avvocati genovesi mi parlarono della testimonianza di un’infermiera dell’ospedale Galliera, che ricordava una richiesta di intervento di un’ambulanza con un “codice rosso” (quindi per un intervento molto grave ed urgentissimo) dalla zona di via Invrea, proprio all’ora della telefonata a radio Gap (si tratta delle 17,00 circa, quindi PRIMA della morte di Carlo)… Tu nell’articolo proponi, giustamente, dei dubbi sulla collocazione precisa del fatto, avanzando l’ipotesi che questo (ferma restando la sua natura ipotetica) sia avvenuto nei pressi di Via Montevideo; io posso dirti che le testimonianze che ho raccolto convergevano invece sulla zona di Via Invrea. Anche Giulietto Chiesa nel suo libro (“G8/Genova” – Einaudi) parla di un episodio molto simile a quello ipotizzato nel mio libro, e lo fa citando la stessa fascia oraria e la stessa zona. Quella di Giulietto Chiesa, pur nella sua brevità, è una testimonianza fondamentale; dice semplicemente: “Vedo una ragazza urtata violentemente da un furgone, che cade a terra svenuta. Due giovani la sollevano e la portano lontano. Viva? Morta? L’angoscia cresce”. Non aggiunge altro perché questo è tutto ciò che vede, ma le coincidenze sono inquietanti… Stessa fascia oraria della prima telefonata a Radio Gap, stessa zona…
Comunque, ti dicevo, dopo tutte queste ricerche ho deciso di puntare su questa vicenda per il romanzo su Genova. Mi rendevo conto di avere in mano delle telefonate anonime (quindi con tutti i limiti di affidabilità e credibilità che bisogna riconoscere), ma che convergevano nella stessa direzione. La telefonata dall’ospedale militare, poi, per molti versi definiva i termini della vicenda e la rendeva ancora più credibile. Si tratta anche in questo caso di una testimonianza anonima e brevissima; questa telefonata, a differenza della prima non l’ho ascoltata personalmente, ma l’ho rintracciata attraverso le mie interviste (raccolte però in tempi diversi e con persone che raccontavano la propria esperienza senza essersi parlate fra loro). E’ una telefonata brevissima (alle 19,20 circa sempre di venerdì 20 luglio) in cui la voce di un uomo adulto dice, semplicemente e con grande freddezza, “c’è una ragazza morta qui all’ospedale militare…”. E’ una testimonianza, dicevo, che contribuisce a spostare ancora di più la vicenda dall’ipotetico al verosimile, la rende più definita: ti ricordo che la voce di una seconda vittima cominciò a circolare con insistenza nel tardo pomeriggio del 20 luglio, tanto che giornali e televisioni mandarono i propri inviati a cercare conferme nei vari ospedali di Genova, ottenendo sempre risposte che smentivano con sicurezza l’esistenza di una ragazza arrivata morta all’ospedale o ricoverata in condizioni disperate… Ma nessuno aveva pensato all’ospedale militare.
A questo punto mi sono trovato effettivamente di fronte ad una cosa che mi sembrava enorme ed ho cominciato a lavorarci sopra. So che le telefonate anonime hanno forti limiti. La notizia di una seconda vittima poteva anche essere stata messa in giro “ad arte” da qualcuno dei Servizi, per mille motivi (visto che in quelle giornate circolarono diverse voci “strane” e poi rivelatesi infondate), ma su questa ragazza investita le voci erano molteplici, con riscontri in termini di orari e di collocazione…
F.B.:
Come arrivi ad ipotizzare che quella ragazza fosse un’infiltrata?
S.T.:
Le voci che avevo raccolto mi portarono a dire che se il fatto era successo davvero la vittima non poteva essere una ragazza del movimento (in questo caso i suoi compagni o la famiglia avrebbero chiesto notizie, la cosa non poteva certo passare sotto silenzio), ma un’infiltrata, e che la cosa era stata messa a tacere di conseguenza, per i motivi che anche tu sintetizzi nell’articolo. Di infiltrati ce n’erano, in quei giorni, questo te lo posso assicurare (e magari su un episodio “curioso”, che ho vissuto personalmente, ci soffermeremo dopo…), di tutte le nazionalità, e di sicuro ce n’erano parecchi nei gruppi baschi.
E’ chiaro che a questo punto il mio lavoro di ricerca si intreccia inevitabilmente con le esigenze narrative: mi trovavo a dover spiegare il modo in cui si insabbia la morte della giovane, e qui ho lavorato di fantasia: l’incidente “inventato” in Andalusia, in cui si finge che la ragazza sia rimasta uccisa, è pura invenzione narrativa. Mi sono detto che, per insabbiare la fine della ragazza, qualcuno doveva aver inscenato una sua morte “diversa” e non collegabile a Genova, pagando poi il silenzio della famiglia eccetera…
Ma del resto il vero obbiettivo del mio romanzo non era una controinchiesta. Da un lato volevo fare emergere questa vicenda oscura, in modo che se qualcuno (a cominciare dalla Magistratura) avesse voluto approfondirla con inchieste più puntuali avrebbe potuto farlo. D’altra parte mi serviva una storia da usare a livello simbolico, che rendesse il clima di quei giorni, le molte vicende mai chiarite, comprese quelle che, alla fine del romanzo, faccio raccontare ai ragazzi che si ritrovano; quelle di cui avete parlato anche tu ed Haidi: il cadavere di Chiavari (seppellito senza un’identità), l’inglese recuperato a Levanto…
Il senso del romanzo era raccontare questa generazione che si affaccia alla politica, forse con un po’ di ingenuità, ma con passione ed entusiasmo, e che vive questa violenza inaudita ed inaspettata. Ho aggiunto anche la storia d’amore fra Caterina ed Alessandro e l’ho fatta nascere proprio qui a Bologna… Perché del resto, in un certo senso, il Movimento stesso rinasce proprio in questa città un anno prima del G8 genovese, durante il “NO OCSE”, quando la gente ricomincia ad andare in piazza dopo tanti anni… Il mio obbiettivo era usare la letteratura per fare riflettere le persone (anche e soprattutto quelle che a Genova non c’erano) su tutte le violazioni della legalità che sono state commesse, sul clima oscuro di quei momenti.
Io credo che una lettura attenta di quei giorni potrebbe portare a riflessioni politiche molto interessanti, in gran parte ancora non maturate. Mi è capitato di riflettere sulle divisioni politiche che hanno attraversato l’Europa, in occasione della preparazione della guerra in Iraq. Se ci pensi, i Paesi che si allineano con l’America di Bush sono gli stessi che sulla repressione a Genova si schierano per la linea dura: Italia, Spagna, Inghilterra. Molti Paesi europei hanno avuto loro cittadini feriti e traumatizzati dalle violenze poliziesche a Genova; la Germania e la Francia (che poi sull’Iraq si schiereranno contro gli USA) avanzarono forti proteste contro il governo Berlusconi per il trattamento riservato ai propri cittadini (e l’atteggiamento della Francia, in teoria alleato politico della destra di Berlusconi, sorprese non poco). Inghilterra e Spagna non avanzarono nessuna protesta per quanto successo ai propri cittadini nel luglio 2001… Sembra quasi che proprio in quel vertice si siano delineate delle strategie internazionali che avrebbero sotteso la politica degli anni successivi, delineando le alleanze e le conseguenze non solo in tema di politica estera, ma pure in tema di repressione del dissenso. E la teorizzazione della “guerra preventiva” ha molto a che vedere con la repressione dura del Movimento.
F.B.:
Prima hai accennato a voci e notizie “fuori controllo”: ricordo distintamente che dalle 16,00 circa del 20 luglio circola insistentemente anche la voce, rivelatasi poi totalmente falsa, di un carabiniere morto o gravissimo. Ne parla anche Marco Poggi nel suo libro “Io, l’infame di Bolzaneto” (“…fra di noi, si sparse la notizia che un carabiniere fosse stato ferito. Questo ci turbò molto, anche perché la notizia ebbe un seguito all’interno del nostro ambiente. … Qualche ora più tardi eravamo al lavoro, a Bolzaneto. Incrociai un maresciallo dei carabinieri e chiesi notizie del carabiniere ferito. La sua risposta mi gelò: ‘È morto!’, mi disse. Per diverse ore continuai a credere che un carabiniere fosse morto veramente.”). Una notizia probabilmente costruita ad arte per alimentare la furia delle forze dell’ordine ed alzare ancora di più il livello dello scontro… Volevo poi che tu mi raccontassi l’episodio dell’infiltrato che hai vissuto di persona.
S.T.:
Sì, ho sentito anch’io questa voce. E sicuramente lo scopo era proprio quello che dicevi tu. Ricordo che girò anche la voce che si fosse “cercata” la morte di un carabiniere, proprio per scatenare ancora di più la violenza delle forze dell’ordine…
Per quanto concerne l’infiltrato: il sabato, mentre stavamo scappando verso Quarto, si è avvicinato a noi un tipo, molto robusto ed armato di una mazza da baseball, vestito come un black block. Ha cominciato ad urlare come un pazzo, incitandoci ad assaltare la caserma dei carabinieri di Corso Italia. Noi l’abbiamo guardato come fosse uno scemo… Ma il punto è che, una volta arrivati davanti a quella caserma (assolutamente pacifici, e senza che nessuno avesse lanciato un solo sasso) è iniziato un fitto lancio di lacrimogeni. Piovevano sia dall’alto (dalle mura), sia da dietro i cancelli: evidentemente ci aspettavano, aspettavano qualche provocazione da parte nostra e si erano preparati per attaccarci in quel modo. Noi, tra l’altro, eravamo in fuga (eravamo già stati caricati in precedenza), per cui non aveva alcun senso che loro ci aggredissero in quel modo; semplicemente loro avevano preparato DA PRIMA l’attacco coi lacrimogeni, convinti di rispondere ad una nostra provocazione. Una provocazione che non era arrivata, ma a cui proprio quello strano individuo ci voleva istigare…
F.B.:
Nell’articolo accenno all’interrogazione di Paolo Cento conseguente il tuo libro. L’unica traccia di una risposta a questa interrogazione l’ho trovata sul Manifesto. Ne parlo nell’articolo: si tratta di una risposta totalmente fuorviante, che in apparenza risponde all’episodio narrato nel tuo libro ed all’interrogazione di Cento, ma in realtà tratta UN ALTRO episodio. In questa risposta, che persino il Manifesto prende per buona, c’è solo ignoranza dei fatti o la volontà da parte delle Istituzioni di voler mantenere una scarsa conoscenza su questi fatti (sempre sottolineando la sicura buona fede del Manifesto)? E sai qualcosa su dove sia avvenuto l’episodio della ragazza manganellata?
S.T.:
Ho letto l’articolo di cui parli. Sinceramente anch’io sono rimasto colpito in negativo. Anche a mio avviso da parte del Manifesto c’è buona fede, ma sono stati un po’ superficiali nel prendere per buona la risposta di Pisanu (o, per meglio dire, la risposta del pm, che Pisanu riprende nella sua risposta in Parlamento). Io sapevo della storia di questa ragazza manganellata e svenuta, che sembra grave ma poi per fortuna si salva. Quando ho sentito della risposta della Magistratura Genovese e di Pisanu mi sono subito detto: hanno usato una storia simile (oddio… simile fino ad un certo punto, per di più…) per rispondere, divincolandosi da una situazione difficile… Mi ha sorpreso ed infastidito: il mio libro e l’interrogazione di Cento parlano di un caso preciso (vero o falso che sia poco importa, in questo momento): una ragazza INVESTITA da un blindato, e NON di una ragazza manganellata. Piuttosto potevano rispondere “non ci risulta nessuna ragazza investita, o investita con conseguenze così gravi”; sarebbe stato persino più semplice, per loro…
Certo, di menzogne ne hanno raccontate tante: penso alla storia della sassaiola con cui hanno giustificato l’irruzione alla Diaz e poi alla storia delle armi improprie e delle molotov “trovate” in quella scuola, alle menzogne raccontate per fatti di strada o per la morte di Carlo… Però mi ha stupito sentire un Ministro che risponde ad un’interrogazione semplicemente eludendola… e senza entrare nel merito di quanto chiesto.
Per quanto concerne la localizzazione della ragazza manganellata, purtroppo non so dirti nulla. Non so se la zona fosse vicina a dove ipotizzo io l’investimento, e se questa eventuale vicinanza possa in una certa misura giustificare la sovrapposizione dei due episodi.
F.B.:
Prima hai parlato di “violenza inaudita ed inaspettata”. Inaudita ed inaspettata anche per chi aveva vissuto un’epoca di conflitti sociali fortissimi, in cui le violenze delle forze dell’ordine erano molto più frequenti. Questo mi porta a chiederti una riflessione in generale sulla gestione dell’ordine pubblico a Genova.
S.T.:
Io credo abbiano fatto una selezione preventiva sulle persone da mandare a Genova. Qui a Bologna, tanto per parlare di una situazione che conosco bene, tutti o quasi gli appartenenti ai sindacati di sinistra sono rimasti a casa. Ma anche in tempi successivi si sono visti i segni di un’involuzione autoritaria delle forze dell’ordine. Ricordo lo scandalo emerso proprio qui a Bologna quando apparvero le magliette con scritto “A Genova io c’ero – Polizia di Stato”. Pisanu liquidò la cosa come una ragazzata, chiedendo il ritiro della magliette, ma il poliziotto che denunciò quella faccenda (con un’intervista a Micromega) fu poi letteralmente massacrato mediaticamente. Giravano i manifestini con la sua foto e scritte allucinanti tipo “ecco l’amico di Bin Laden”…
Io credo che in questi anni si sia sbagliato nel non continuare la battaglia iniziata nei primi anni 80, per una polizia più “democratica”. Dopo la smilitarizzazione della Polizia li abbiamo lasciati da soli, abbiamo pensato che il lavoro fosse finito… Invece, specie negli ultimi anni, è cominciato dalla parte contraria un lavoro metodico di selezione e formazione politica delle nuove reclute. Ci sono episodi inquietanti; penso a quel poliziotto Laziale, di stanza a Torino, estromesso dalla polizia perché su un furgone, tornando dopo aver prestato servizio ad una partita di calcio, si era permesso di criticare l’operato delle forze dell’ordine a Genova; penso ad altri casi del genere… e penso anche a Marco Poggi: lui non era poliziotto ma infermiere della polizia penitenziaria, ma dopo le sue “rivelazioni” su Bolzaneto la vita nel suo ambiente di lavoro è andata deteriorandosi velocemente…
F.B.:
A proposito del “dopo Genova”, quando ci siamo parlati per telefono mi hai parlato di altri aspetti inquietanti. Storie di ragazzi traumatizzati, di suicidi riconducibili (magari indirettamente e parzialmente) proprio all’esperienza genovese… Si può dire che si tratta di storie ingiustamente dimenticate, che dimostrano che i “segni sulla pelle” si sono propagati anche nelle coscienze delle persone, segnandole in modo indelebile…
S.T.:
Ci sono molti casi su cui si dovrebbe indagare meglio e con più serietà, riunendoli in un’inchiesta che abbia anche uno spessore scientifico. Sì, ho sentito di ragazzi che sono giunti al suicidio; chiaramente è impossibile dire in che misura l’esperienza del luglio 2001 li abbia portati a quel gesto disperato. Per uno di questi casi ho parlato personalmente con amici e parenti del ragazzo, che mi hanno raccontato di quanto fosse sconvolto dopo gli avvenimenti di Genova; si è suicidato nell’agosto dello stesso anno. Un altro caso che conosco personalmente è quello di un ragazzo, vicino ad Arezzo, che per un mese e mezzo dopo il G8 si chiuse in un mutismo assoluto; non parlava né con genitori né con gli amici, mentre prima era un giovane aperto, senza problemi di relazioni con gli altri… Ne ho parlato più in generale con alcuni psicologi di Verona, intenzionati a seguire vicende di questo tipo, i quali mi hanno riferito di diversi giovani sconvolti… Bisognerebbe allargare la ricerca, ritrovando i vari ragazzi e studiando come sia cambiata la loro vita dopo quei giorni.
Ci sono casi che sono rimasti “famosi” per quei pochi giorni, ma poi che ne è stato di loro? Penso a quel ragazzo di Ostia, massacrato dal vicequestore Perugini e ripreso in varie foto e video. Penso al figlio del giornalista de “La Stampa” Gian Paolo Ormezzano; anche questo fu un caso famoso, perché il padre parlò sui giornali del figlio, che era andato a Genova per girare un video nell’ambito dei suoi studi universitari. I due ragazzi sono stati pienamente scagionati, ma ora come vivono? Dentro di loro che segni portano di quell’esperienza?
Sappiamo quali sono stati i cambiamenti nella vita di Lorenzo Guadagnucci o di Laura Baldini, la mia amica di Pisa. Il primo non era un ragazzo, ma un uomo, un giornalista inspiegabilmente massacrato durante la “notte della Diaz”; sappiamo quanto la sua vita è cambiata, quanto abbia cercato di tradurre in impegno civile quella sua esperienza. Laura, quando sfoglia i libri su Genova e vede quella sua foto che la ritrae sanguinante, fa fatica a guardarsi… Lei e Lorenzo però sono due persone adulte, con già un’esperienza e forti motivazioni alle spalle, che avevano già vissuto o erano a conoscenza di storie drammatiche, ma un ragazzo di vent’anni come ha reagito? Quanto è cambiato?
F.B.:
A volte penso che si è scritto molto su “cosa è stata Genova”, per chi c’era o, in generale, per quelli che si riconoscono nell’attuale Movimento. E a volte penso che a questa domanda si potrebbe rispondere semplicemente: “è stata un trauma”; un trauma a cui ognuno reagisce a modo suo: c’è chi ne è uscito indebolito e chi rafforzato; chi più cinico e chi magari ancora più idealista; chi lo ha rimosso e chi ci convive ogni giorno… Un trauma per tutti, ma da cui si dipanano poi le matasse delle storie e delle sensibilità individuali. Per questo volevo chiudere questo articolo e la nostra chiacchierata con una tua riflessione su questo aspetto, e su cosa vuol dire per te, oggi, Genova…
S.T.:
Sì, si è trattato di un trauma. Inatteso per tutti, ma soprattutto per la generazione di Caterina. Noi “vecchi” avevamo visto o vissuto situazioni persino peggiori, ma erano altri tempi. Qui torno al discorso che ti facevo all’inizio: negli anni 70 c’erano le leggi speciali, per cui sotto un certo punto di vista andavi ad una manifestazione consapevole che qualcosa poteva andare storto. Io di morti in Piazza ne avevo visti anche personalmente, penso a Pietro Bruno, a Francesco Lorusso... Negli anni 70 andavi in piazza col servizio d’ordine, in un clima in cui eri preparato alla violenza, fisicamente e mentalmente. Certo, a Genova siamo stati traumatizzati anche noi, perché pensavamo che le cose fossero cambiate, ma i ragazzi erano andati a manifestare pacificamente, disarmati, pensando quasi ad una festa...
Io ho visto scene che non dimenticherò mai. Non dimenticherò mai l’agguato (uso intenzionalmente questa parola…) fatto in fondo a Corso Italia. Quando hanno attaccato l’hanno fatto senza alcuna considerazione per le persone, con una strategia militare che nulla aveva in comune con le esigenze di ordine pubblico. C’era un muro molto alto a destra, che sostiene un terrapieno, il mare a sinistra, i poliziotti davanti e migliaia di persone che premevano dietro, senza la possibilità di capire cosa stesse succedendo davanti (dove c’era una curva secca, oltre la quale il retro del corteo non poteva assolutamente vedere). E’ stato un momento drammatico: hanno cominciato a sparare decine e decine di lacrimogeni; da davanti, dagli elicotteri (e questo, ti assicuro, non l’avevo MAI visto fare) e persino dalle barche. Noi sentivamo questi gas terribili… Nell’immediatezza dei fatti, ovviamente, nessuno di noi aveva mai sentito parlare del gas CS, nessuno sapeva quanto micidiale fosse, ma ti assicuro che anche quelli come me (con già alle spalle esperienza di manifestazioni e di lacrimogeni) sentivano che era un gas “diverso” e terribile, che ti fa sentire morire… La gente scappava e rischiava di calpestarsi. C’è stato un autocontrollo incredibile, da parte dei manifestanti, ma potevano morire o restare ferite gravemente molte persone.
Le forze dell’ordine avevano perfettamente il controllo della situazione, dall’alto, e sapevano benissimo cosa vuol dire e cosa può provocare attaccare da più parti un corteo con 50.000 persone in quel modo, in una via senza sbocchi. Quella non è un’azione di ordine pubblico, ma è un’azione militare: non punta a disperdere un corteo, ma a farti ammassare per poi massacrarti. Fu in quel frangente che vidi persone gettarsi in acqua per cercare scampo, ma li inseguivano e li picchiavano anche in acqua…
L’ultima carica ce l’hanno fatta sotto il ponte che c’è 800 metri prima della stazione di Quarto, nei pressi di una caserma della polizia. E quando hanno sparato i lacrimogeni hanno pure sbagliato: tiravano dal basso verso l’alto, e calcolarono male la parabola; i candelotti finirono una cinquantina di metri oltre l’obbiettivo, in spiaggia, dove c’erano famiglie con bambini. Fu una scena allucinante, con le mamme che prendevano i bambini e scappavano… Anche questo ho dovuto vedere a Genova…
sabato 28 aprile 2012
“Diaz” di Daniele Vicari: il punto non è cliccare su “mi piace”, ma domandarsi se è utile
Ho letto diversi commenti a “Diaz” di Daniele Vicari. Assai variegati: anche persone che conosco e stimo hanno dato pareri diversissimi. Il dibattito su “Diaz” mi sembra simile a quello sviluppatosi su “Romanzo di una strage”, film di Marco Tullio Giordana su P. Fontana (a quella discussione ho partecipato attivamente essendo stato in passato uno dei più severi critici del libro di Paolo Cucchiarelli a cui quel film è liberamente ispirato). In entrambi i casi le critiche vertono su quanto di “non detto” che, nel film, depotenzia anche il raccontato. Credo che, specie nel caso di “Diaz”, il dibattito centri solo parzialmente il problema. Che secondo me è: un film diverso sarebbe stato possibile farlo? Chi l’avrebbe prodotto e distribuito? Con quale riscontro quantitativo di pubblico?
Credo dia molto da pensare il fatto che la “cultura impegnata” (film, libri e quant’altro) in questo paese oggi sia strangolata fra due opzioni. Nel circuito “underground-alternativo” si può “dire tutta la verità, anche scomoda”, ma si finisce col predicare ai convertiti. Nel circuito mainstream si è costretti a edulcorare il messaggio, ma si riesce a veicolarlo a un numero maggiore di persone. Una ben triste scelta…
Il problema però non è se “Diaz” sia bello o brutto, se sia aderente o meno alla realtà o alle evidenze processuali, se l’autore sia stato “troppo timido” eccetera. Il punto è, brutalmente, se questo film “serve”. A veicolare un messaggio, a risvegliare coscienze. E si deve riconoscere che su fatti come Genova o Piazza Fontana – dove le sentenze hanno dato poco (sulla Diaz vedremo: la Cassazione è a giugno) e la politica molto meno o nulla – libri, cinema e teatro, seppure con i loro limiti, fanno ancora vibrare coscienze, alimentano la discussione.
Una postilla, che può sembrare autoreferenziale ma è, invece, solo per chiarezza. Chi scrive tre anni fa è stato autore, con Checchino Antonini e Dario Rossi di "Scuola Diaz: vergogna di stato" (Edizioni Alegre), in cui ricostruivamo i fatti attraverso la requisitoria dei Pm pronunciata nel processo di primo grado: potete facilmente supporre quindi quale sia il mio parere sui fatti e sui limiti del lavoro di Vicari. Però non mi sfugge una constatazione: sia per “Romanzo di una strage” che per “Diaz”, i pareri dei diretti interessati (i familiari delle vittime del 12 dicembre 69, chi fu massacrato nella scuola nel 2001 – penso a Christian Mirra) sono stati sostanzialmente positivi. Sul film di Giordana ho detto che, pur con varie critiche, il saldo è positivo; su “Diaz” Christian ha scritto: “Procacci e Vicari ci hanno regalato un mezzo potente per capire che siamo su una rotta sbagliata. Ora sta a noi scavare nei fatti alla ricerca di risposte, trovare i responsabili, chiedere giustizia e riforme democratiche”. Parole sagge: giusto dirci che il film poteva dare di più, ma si deve partire da quelle.
Questo Paese non è ancora stato del tutto sconfitto da trent’anni di pessima televisione, informazione addomesticata e “salotti culturali” anestetizzati. Sconfitto no, ma colpito duramente sì… Viviamo in una realtà in cui la commissione parlamentare d’inchiesta su Genova è stata sempre negata, persino dalla maggioranza di centrosinistra dopo averla promessa per iscritto nel proprio programma elettorale. Applicando un criterio proporzionale, se ci si scandalizza di Vicari per il suo “Diaz” i referenti politici di quella stagione dovrebbero essere lapidati…
Quindi il punto non è “accontentarsi perché questo è quel che passa il convento, coi tempi che corrono”. Il punto è saper partire dalle cose positive e di denuncia di film come “Diaz” o “Romanzo di una strage” (entrambi ne hanno: questo è poco ma sicuro) per ricostruire un tessuto sociale e culturale dove siano possibili, anche per il grande pubblico, opere di denuncia che abbiano ancora più spessore. Perché sono i film ad essere figli del proprio tempo e non il contrario. E siamo noi – e non i film – a poter rendere migliore il tempo in cui viviamo.
Francesco “baro” Barilli
Credo dia molto da pensare il fatto che la “cultura impegnata” (film, libri e quant’altro) in questo paese oggi sia strangolata fra due opzioni. Nel circuito “underground-alternativo” si può “dire tutta la verità, anche scomoda”, ma si finisce col predicare ai convertiti. Nel circuito mainstream si è costretti a edulcorare il messaggio, ma si riesce a veicolarlo a un numero maggiore di persone. Una ben triste scelta…
Il problema però non è se “Diaz” sia bello o brutto, se sia aderente o meno alla realtà o alle evidenze processuali, se l’autore sia stato “troppo timido” eccetera. Il punto è, brutalmente, se questo film “serve”. A veicolare un messaggio, a risvegliare coscienze. E si deve riconoscere che su fatti come Genova o Piazza Fontana – dove le sentenze hanno dato poco (sulla Diaz vedremo: la Cassazione è a giugno) e la politica molto meno o nulla – libri, cinema e teatro, seppure con i loro limiti, fanno ancora vibrare coscienze, alimentano la discussione.
Una postilla, che può sembrare autoreferenziale ma è, invece, solo per chiarezza. Chi scrive tre anni fa è stato autore, con Checchino Antonini e Dario Rossi di "Scuola Diaz: vergogna di stato" (Edizioni Alegre), in cui ricostruivamo i fatti attraverso la requisitoria dei Pm pronunciata nel processo di primo grado: potete facilmente supporre quindi quale sia il mio parere sui fatti e sui limiti del lavoro di Vicari. Però non mi sfugge una constatazione: sia per “Romanzo di una strage” che per “Diaz”, i pareri dei diretti interessati (i familiari delle vittime del 12 dicembre 69, chi fu massacrato nella scuola nel 2001 – penso a Christian Mirra) sono stati sostanzialmente positivi. Sul film di Giordana ho detto che, pur con varie critiche, il saldo è positivo; su “Diaz” Christian ha scritto: “Procacci e Vicari ci hanno regalato un mezzo potente per capire che siamo su una rotta sbagliata. Ora sta a noi scavare nei fatti alla ricerca di risposte, trovare i responsabili, chiedere giustizia e riforme democratiche”. Parole sagge: giusto dirci che il film poteva dare di più, ma si deve partire da quelle.
Questo Paese non è ancora stato del tutto sconfitto da trent’anni di pessima televisione, informazione addomesticata e “salotti culturali” anestetizzati. Sconfitto no, ma colpito duramente sì… Viviamo in una realtà in cui la commissione parlamentare d’inchiesta su Genova è stata sempre negata, persino dalla maggioranza di centrosinistra dopo averla promessa per iscritto nel proprio programma elettorale. Applicando un criterio proporzionale, se ci si scandalizza di Vicari per il suo “Diaz” i referenti politici di quella stagione dovrebbero essere lapidati…
Quindi il punto non è “accontentarsi perché questo è quel che passa il convento, coi tempi che corrono”. Il punto è saper partire dalle cose positive e di denuncia di film come “Diaz” o “Romanzo di una strage” (entrambi ne hanno: questo è poco ma sicuro) per ricostruire un tessuto sociale e culturale dove siano possibili, anche per il grande pubblico, opere di denuncia che abbiano ancora più spessore. Perché sono i film ad essere figli del proprio tempo e non il contrario. E siamo noi – e non i film – a poter rendere migliore il tempo in cui viviamo.
Francesco “baro” Barilli
lunedì 23 aprile 2012
“Piazza della Loggia volume 1. Non è di maggio” : cover e altro...
Ecco la cover (di Matteo Fenoglio):
Inoltre, qui potete vedere una corposa anticipazione, dal sito di Repubblica-Milano.
Ringrazio Repubblica per l'interessamento... E ricordo che NON sono un giornalista (così mi definisce la testata: ho già detto più volte che la qualifica mi onora, ma non risponde al vero).
Inoltre, qui potete vedere una corposa anticipazione, dal sito di Repubblica-Milano.
Ringrazio Repubblica per l'interessamento... E ricordo che NON sono un giornalista (così mi definisce la testata: ho già detto più volte che la qualifica mi onora, ma non risponde al vero).
lunedì 16 aprile 2012
Strage di Brescia: una proposta a tutti e tutte
Alcune date scandiscono questa mia proposta: 28 maggio 1974, 14 aprile 2012… Ma anche le ormai prossime date del 25 aprile e primo maggio…
Il 28 maggio 1974 sapete cosa significa. A Brescia, una serie di attentati portò alla mobilitazione dei sindacati e del comitato permanente antifascista. Venne indetta una manifestazione per il 28 maggio, con comizio conclusivo in Piazza della Loggia. Durante il discorso di Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, alle 10,12 l’esplosione di una bomba provocò 8 morti e oltre cento feriti.
Anche del 14 aprile 2012 conoscete il significato. La Corte d'assise d'appello di Brescia ha confermato la sentenza di assoluzione per gli imputati emessa in primo grado nel 2010. Quella che si è recentemente conclusa (fatto salvo il ricorso in Cassazione) era la quarta istruttoria sulla strage; la quinta contando “l’inchiesta stralcio-Bonati”.
Di 25 aprile e primo maggio non starò a spiegare il significato. Ricorderò però – ancora – che la manifestazione del 28 maggio 1974 era stata indetta dai sindacati (CGIL, CISL e UIL insieme: le tre maggiori organizzazioni sindacali unite; cose d’altri tempi…) e dal comitato permanente antifascista bresciano. Quel giorno in piazza c’erano la Costituzione nata dalla Resistenza antifascista e il lavoro: due elementi su cui dovrebbe essere fondato il nostro Paese.
Dopo 38 anni quella strage non ha colpevoli. L’attentato che nel 1993 il Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi descrisse come “un vero e proprio attacco diretto e frontale all’essenza stessa della democrazia” è ancora impunito. Pasolini disse “Io so i nomi dei responsabili delle stragi … Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Oggi abbiamo gli indizi. E un discreto numero di prove. Ma nessun tribunale che abbia voluto o saputo scrivere i nomi dei colpevoli in una sentenza definitiva…
Nelle ultime ore sono stati scritti molti commenti sulla sentenza bresciana. Lucide analisi, testimonianze di solidarietà, scoramento, rabbia... Alcuni interventi sono molto belli e utili. Però – almeno credo – sarebbe davvero un importante gesto di “cittadinanza attiva”, fra tante altre ugualmente doverose e sentite testimonianze, se ognuno di noi volesse ricordare la strage di Piazza della Loggia nelle ormai prossime ricorrenze del 25 aprile e primo maggio. I motivi mi sembra d’averli spiegati a sufficienza.
In queste ore ho sentito Maria Iannucci e, attraverso lei, Lydia Franceschi. Altre due splendide persone che portano dentro di sé quei valori che migliaia di persone volevano difendere il 28 maggio 1974 a Brescia (quando 8 di loro rimasero sul selciato). A loro due devo l’idea di questo appello: dedicare alla strage di Brescia, nelle prossime ricorrenze del 25 aprile e primo maggio, una parola, un gesto concreto (un fiore, un discorso, un messaggio, uno striscione… quel che volete). Per ricordare che la recente sentenza bresciana è un’altra ferita proprio verso i valori che quelle persone, ormai 38 anni fa, volevano difendere con la propria presenza in piazza.
Non scrivo questo appello perché mi sento investito di chissà quale autorità morale; non lo scrivo come “scrittore” o “intellettuale”. Lo scrivo come cittadino; che ha sentito come un dovere dire ciò che vi ha detto. Ognuno si senta libero di dare seguito alla mia proposta – se la ritiene valida – nelle forme che riterrà più opportune.
Francesco “baro” Barilli
Il 28 maggio 1974 sapete cosa significa. A Brescia, una serie di attentati portò alla mobilitazione dei sindacati e del comitato permanente antifascista. Venne indetta una manifestazione per il 28 maggio, con comizio conclusivo in Piazza della Loggia. Durante il discorso di Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, alle 10,12 l’esplosione di una bomba provocò 8 morti e oltre cento feriti.
Anche del 14 aprile 2012 conoscete il significato. La Corte d'assise d'appello di Brescia ha confermato la sentenza di assoluzione per gli imputati emessa in primo grado nel 2010. Quella che si è recentemente conclusa (fatto salvo il ricorso in Cassazione) era la quarta istruttoria sulla strage; la quinta contando “l’inchiesta stralcio-Bonati”.
Di 25 aprile e primo maggio non starò a spiegare il significato. Ricorderò però – ancora – che la manifestazione del 28 maggio 1974 era stata indetta dai sindacati (CGIL, CISL e UIL insieme: le tre maggiori organizzazioni sindacali unite; cose d’altri tempi…) e dal comitato permanente antifascista bresciano. Quel giorno in piazza c’erano la Costituzione nata dalla Resistenza antifascista e il lavoro: due elementi su cui dovrebbe essere fondato il nostro Paese.
Dopo 38 anni quella strage non ha colpevoli. L’attentato che nel 1993 il Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi descrisse come “un vero e proprio attacco diretto e frontale all’essenza stessa della democrazia” è ancora impunito. Pasolini disse “Io so i nomi dei responsabili delle stragi … Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Oggi abbiamo gli indizi. E un discreto numero di prove. Ma nessun tribunale che abbia voluto o saputo scrivere i nomi dei colpevoli in una sentenza definitiva…
Nelle ultime ore sono stati scritti molti commenti sulla sentenza bresciana. Lucide analisi, testimonianze di solidarietà, scoramento, rabbia... Alcuni interventi sono molto belli e utili. Però – almeno credo – sarebbe davvero un importante gesto di “cittadinanza attiva”, fra tante altre ugualmente doverose e sentite testimonianze, se ognuno di noi volesse ricordare la strage di Piazza della Loggia nelle ormai prossime ricorrenze del 25 aprile e primo maggio. I motivi mi sembra d’averli spiegati a sufficienza.
In queste ore ho sentito Maria Iannucci e, attraverso lei, Lydia Franceschi. Altre due splendide persone che portano dentro di sé quei valori che migliaia di persone volevano difendere il 28 maggio 1974 a Brescia (quando 8 di loro rimasero sul selciato). A loro due devo l’idea di questo appello: dedicare alla strage di Brescia, nelle prossime ricorrenze del 25 aprile e primo maggio, una parola, un gesto concreto (un fiore, un discorso, un messaggio, uno striscione… quel che volete). Per ricordare che la recente sentenza bresciana è un’altra ferita proprio verso i valori che quelle persone, ormai 38 anni fa, volevano difendere con la propria presenza in piazza.
Non scrivo questo appello perché mi sento investito di chissà quale autorità morale; non lo scrivo come “scrittore” o “intellettuale”. Lo scrivo come cittadino; che ha sentito come un dovere dire ciò che vi ha detto. Ognuno si senta libero di dare seguito alla mia proposta – se la ritiene valida – nelle forme che riterrà più opportune.
Francesco “baro” Barilli
giovedì 12 aprile 2012
Clamorosa sentenza sulla strage di Piazza della Loggia!!!
Dopo un titolo del genere per i lettori sono possibili tre reazioni:
1. “Come?! E’ già uscita la sentenza???”
2. “Uhm… c’è un processo in corso per la strage di Brescia?”
3. “Cosa diavolo è successo in Piazza della Loggia?”
I terzi possono essere solo miei lettori occasionali, capitati qui per caso o per qualche scherzo dei motori di ricerca. Fra poche righe potranno decidere se proseguire o meno.
I secondi difficilmente sono miei lettori assidui, altrimenti saprebbero dell’esistenza del processo attuale (“attuale” perché sulla strage di Brescia ci sono state 4 istruttorie, se preferite 4 più uno stralcio, che hanno portato a diversi procedimenti).
Gli uni e gli altri (i “secondi” e i “terzi”) sono comunque incolpevoli della loro ignoranza (etimologicamente intesa). Non è colpa loro se quella strage, “indiscutibilmente quella a più alto tasso di politicità” (così scrisse il 23 maggio 1993 il Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi – semplice omonimia con uno degli imputati del procedimento in corso) è stata trattata in tempi recenti alla stregua di una sagra locale, senza “bucare” sui grandi media.
Ai primi, quelli di “Come?! E’ già uscita la sentenza???”, devo una spiegazione. No, la sentenza d’appello non è ancora uscita. E’ attesa a giorni, probabilmente già per la fine di questa settimana. Su quella di primo grado (assoluzione per tutti gli imputati) mi pronunciai in altra occasione.
Quindi, sì, sto scrivendo di una sentenza ancora non emessa…
I lettori di tutte le tre tipologie potranno ora essere uniti in una nuova domanda: “perché lo fai?”.
Pasolini, nel lontano 1974, a proposito degli attentati che avevano insanguinato e avrebbero continuato a insanguinare l’Italia scriveva: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”.
Una citazione bella quanto ormai abusata. E oggi non c’è bisogno di essere intellettuali per “sapere”. I fatti ci sono, basta metterli in fila uno dopo l’altro, nella loro inquietante successione logica e temporale… Pasolini non c’è più, purtroppo. Fatevi bastare il sottoscritto.
Quindi (eccomi al “perché lo faccio?”) per scrivere il mio commento non mi serve la sentenza d’appello. L’attendo con speranza, la guarderò con rispetto. Ma non mi è utile “per ristabilire la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”. Quel che mi (e vi) serve è la pazienza. Perché la mia narrazione non sarà semplice (lo impone la vicenda) o sintetica (lo impongono miei limiti… e ciò nonostante molte cose saranno brutalizzate per condensare migliaia di fogli processuali in una narrazione che sia perlomeno leggibile).
Innanzitutto, una cronologia. Utilizzerò, rimaneggiandoli, pezzi che ho scritto per i redazionali di “Piazza della Loggia volume 1. Non è di maggio”, realizzato con Matteo Fenoglio e di prossima uscita per BeccoGiallo. Salterò tutti i prodromi, tranne un episodio, limitandomi al percorso giudiziario della strage. Che già da solo è assai contorto…
*******
19 maggio 1974 (e giorni seguenti…)
Brescia, le tre del mattino. Il giovane neofascista Silvio Ferrari sta trasportando sulla sua Vespa una bomba a orologeria, destinata a un attentato alla sede locale del Corriere della Sera in Piazza della Vittoria. La bomba esplode anzitempo, uccidendolo sul colpo. La sua morte è il culmine di una serie di attentati, fino a quel momento incruenti, che nei primi mesi del ’74 hanno destato grande preoccupazione a Brescia e nei paesi limitrofi. Il 21 maggio una lettera firmata “Partito nazionale fascista sezione Silvio Ferrari” arriva al Giornale di Brescia. Attribuisce l’esplosione che ha ucciso Ferrari “ai comunisti” e minaccia attentati come ritorsione. Il volantino – ne seguirà uno analogo il 27 maggio – per toni e contenuti è un’inquietante anticipazione della strage che avverrà solo pochi giorni dopo. Infatti proprio l’escalation di attentati, culminata nell’esplosione del 19 maggio, porta alla mobilitazione dei sindacati e del comitato permanente antifascista. Viene indetta la manifestazione del 28 maggio, con comizio conclusivo in Piazza della Loggia: durante il discorso di Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, alle 10,12 l’esplosione di una bomba provoca 8 morti e oltre cento feriti.
31 gennaio 1975
Prima vera svolta nelle indagini. Luigi Papa si presenta al comando dei carabinieri di Brescia del capitano Francesco Delfino. Due dei suoi figli (Raffaele e Angelino) sono già in carcere da qualche giorno, accusati di furti di opere d’arte consumati in alcune chiese del bresciano. Con loro è in carcere Ermanno Buzzi, già noto agli ambienti giudiziari cittadini: un bizzarro delinquente comune che si dichiara nazifascista e vanta conoscenze nell’ambiente dell’estrema destra. Luigi Papa afferma di aver saputo da un altro dei suoi figli, Domenico, che Buzzi è l’esecutore materiale della strage. Da questa dichiarazione nasce il primo filone processuale su Piazza della Loggia. Le indagini di questa istruttoria cercheranno di trovare un nesso tra il “gruppo Buzzi” e i giovani neofascisti bresciani amici di Silvio Ferrari, accorpando l’inchiesta sulla morte di Ferrari con quella sulla strage.
In questo primo filone d’inchiesta vengono coinvolti fra gli altri Marco De Amici e Pierluigi Pagliai, amici di Ferrari. A loro carico, al termine del processo, resterà l’accusa di detenzione e trasporto di esplosivo. A condurre le indagini sono i magistrati Domenico Vino e Francesco trovato. Molti interrogatori sono condotti dal capitano Delfino, secondo modalità che desteranno polemiche e perplessità.
2 luglio 1979
Prima sentenza di Corte d’assise di Brescia. Vengono condannati come esecutori materiali della strage Ermanno Buzzi e Angelino Papa. Ferdinando Ferrari (detto Nando, omonimo e non parente di Silvio, con cui ha trascorso la notte fra il 18 e il 19 maggio prima che quest’ultimo perdesse la vita nell’attentato) è condannato a 5 anni per detenzione dell’ordigno che ha causato la morte di Silvio e a un anno per omicidio colposo. Marco De Amici e Pierluigi Pagliai sono condannati per detenzione e trasporto di esplosivo da Parma (dall’appartamento che i due condividevano col Ferrari). Assoluzione per gli altri imputati.
17 dicembre 1980
Nell’ambito della prima istruttoria (“gruppo Buzzi”) era nato uno stralcio d’inchiesta (da alcuni definita seconda istruttoria, pur trattandosi sostanzialmente di una “inchiesta bis”) imperniata su Ugo Bonati. E’ uno dei principali testimoni dell’accusa, sostiene d’aver assistito a tutta la vicenda, dal trasporto dell’esplosivo alla Piazza fino al deposito della bomba. La sua posizione di “testimone inconsapevole” della strage si fa presto insostenibile e viene rinviato a giudizio come componente del gruppo degli attentatori, in concorso con Buzzi e Papa, con conseguente mandato di cattura. Nel ’79 fugge da Brescia e da allora non è più stato rintracciato. Il 17 dicembre 1980 il Giudice Istruttore dispone comunque l’assoluzione nei suoi confronti, accertando che le sue affermazioni sono false, sul ruolo degli altri imputati come sul proprio.
13 aprile 1981
Mentre è rinchiuso nel carcere di Novara, in attesa dell’appello per il processo che lo vede imputato per la strage, Ermanno Buzzi viene ucciso dai neofascisti Mario Tuti e Pierluigi Concutelli.
2 marzo 1982
La Corte d’appello conferma le assoluzioni di primo grado. Assolve per non aver commesso il fatto Angelino Papa, e assolve “virtualmente” anche Buzzi (già strangolato in carcere). Condanna confermata, ma ridotta, a Marco De Amici per detenzione di esplosivo.
30 novembre 1983
La Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello del marzo ’82, e rinvia gli atti alla Corte d’appello di Venezia per un nuovo giudizio.
19 aprile 1985
La Corte d’appello Veneziana emette un verdetto di assoluzione per insufficienza di prove per tutti gli imputati. Confermata la condanna al solo De Amici. La sentenza diventa definitiva a seguito del giudizio della Cassazione, il 25 settembre 1987.
23 maggio 1987
Semplifico la seconda istruttoria, partendo dalla data del giudizio della Corte d’assise: assoluzione per gli imputati. L’inchiesta aveva preso il via negli anni ’80, con indagini che portano al rinvio a giudizio di Cesare Ferri e Alessandro Stepanoff, quest’ultimo accusato di aver fornito un alibi al primo. Ferri, già apparso nelle primissime indagini e su cui torneremo in seguito, è un giovane milanese legato agli ambienti dell’estrema destra cittadina. L’assoluzione viene ratificata in appello il 10 marzo 1989 e confermata in Cassazione il 13 novembre 1989.
23 maggio 1993
Snellisco pure la terza istruttoria: la data è quella della sentenza del Giudice Gianpaolo Zorzi. Pur nell’impossibilità di accertare responsabilità penali a carico degli accusati (in questo filone d’inchiesta: Marco Ballan, Fabrizio Zani, Giancarlo Rognoni, Bruno Luciano Benardelli e Marilisa Macchi) l’ordinanza del Dott. Zorzi è anche un esplicito e accorato atto d’accusa verso le complicità istituzionali che hanno protetto esecutori e mandanti della strage, ostacolando l’accertamento della verità. Del documento abbiamo visto un passo in precedenza; ne vedremo altri più avanti.
15 maggio 2008
Vengono rinviati a giudizio per la strage di Brescia Pino Rauti, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, l'ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, Giovanni Maifredi e Maurizio Tramonte. Il rinvio a giudizio è frutto della quarta istruttoria, condotta dai PM Roberto Di Martino e Francesco Piantoni.
Le indagini si reggono su due pilastri. Uno è l’imputato Maurizio Tramonte.
Nato nel 1952, nell’autunno 1972 viene attivato come fonte del SID col criptonimo di Tritone. Collabora in questa veste con il Centro Controspionaggio di Padova, a cui fornisce per mesi informazioni sul mondo della destra eversiva. La sua collaborazione produce un’imponente mole di “veline”. Alcune sono relative a incontri che si sarebbero tenuti presso l’albergo che dirigeva un esponente missino, Giangastone Romani, ad Abano Terme. In uno di questi documenti si accenna esplicitamente alla “… creazione di una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino … Opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta”; inoltre sono presenti molti accenni proprio alla strage di Piazza della Loggia: in seguito dettaglierò meglio queste citazioni.
Negli anni ’90 Tramonte arricchisce le veline con nuove dichiarazioni, attraversando un percorso in cui ha vestito diversi ruoli, da persona informata sui fatti a indagato in reato collegato, fino a indagato – e poi imputato – per la strage. Il 24 maggio 2002 Tramonte ritratta tutte le sue precedenti dichiarazioni, sostenendo che le uniche informazioni credibili da lui rese sarebbero quelle a suo tempo fornite come “fonte Tritone” al Sid, e che queste sarebbero relative esclusivamente a notizie apprese de relato. L’interessato sosterrà, anche nel corso del dibattimento, che le successive dichiarazioni sarebbero state frutto di un disperato bisogno di aiuto e denaro per altri suoi guai giudiziari, nonché del difficile periodo in cui era schiavo di droga e alcol. La ritrattazione è ritenuta totalmente inattendibile dalla pubblica accusa.
L’altro pilastro è Carlo Digilio.
Esperto in armi ed esplosivi, nell’ambiente ordinovista chiamato “Zio Otto”, è testimone fondamentale già nel processo per Piazza Fontana, ma viene beffato dal destino. Anche a causa di un ictus, che ne compromette la memoria, non viene ritenuto sufficientemente credibile… tranne quando accusa se stesso… Muore nel 2005, proprio nell’anniversario di Piazza Fontana: una coincidenza simbolica difficilmente immaginabile nella realtà.
Sulla strage di Brescia racconta tre fatti.
1. Il primo è una riunione a Rovigo, collocabile nel mese di aprile ’74. Zio Otto non partecipa, ne apprende i contenuti da Marcello Soffiati, ordinovista veronese. Nell’occasione si parla di attentati, specie di uno da realizzare nell’Italia settentrionale.
2. Pure il secondo è una riunione, di poco successiva. A Colognola ai Colli, dove viveva Soffiati, e stavolta con la presenza diretta di Digilio. Qui è Carlo Maria Maggi a parlare: “Fate attenzione, ci sarà un attentato nell'Italia settentrionale. Procuratevi alibi, fate attenzione a come vi muovete…”. Secondo il proprio racconto, Digilio si apparta con Soffiati per chiedere spiegazioni, ed è qui che riceve le confidenze sulla precedente riunione di Rovigo.
3. Il terzo fatto emerge nella testimonianza resa il 4 maggio ’96 al dott. Salvini, durante l’inchiesta su Piazza Fontana, e ribadita il 15 maggio davanti ai magistrati bresciani. Digilio racconta che Marcello Soffiati, su incarico di Maggi, avrebbe ritirato l’ordigno da Delfo Zorzi. Soffiati fa tappa a Verona, preoccupato per la propria sicurezza. Qui, Digilio afferma d’essere intervenuto tecnicamente sull’ordigno, per rendere più sicuro il viaggio di Soffiati. Un viaggio che, sempre secondo questa testimonianza, avrebbe portato Soffiati e la bomba a Milano, dove l’ordigno sarebbe passato in altre mani per dirigersi poi verso la destinazione finale. Verso Brescia…
16 novembre 2010
La sentenza di primo grado assolve i 5 imputati ancora in vita (Maifredi è deceduto il 3 luglio 2009). La Corte non ritiene credibili né Digilio né Tramonte. Quest’ultimo è ritenuto attendibile solo nelle veline redatte per il Sid nell’immediatezza dei fatti. Tali documenti però, ad avviso della Corte, testimonierebbero solo la generica volontà di costituire un’organizzazione terroristica che il 28 maggio 1974 non sarebbe stata ancora pienamente operativa e in grado di compiere un’azione rilevante come la strage di Brescia.
I pubblici ministeri e le parti civili ricorrono in appello contro le assoluzioni.
gennaio-febbraio 2012
In vista dell’apertura del processo d’appello i pubblici ministeri inoltrano istanza di “rinnovamento parziale dell’istruttoria dibattimentale”: Piantoni e Di Martino chiedono che il tribunale d’appello valuti nuovi elementi, non emersi o non sufficientemente emersi nel corso del primo grado. Il processo d’appello si apre il 14 febbraio. Il 17 la Corte respinge tutte le richieste di riapertura parziale del dibattimento, tranne quella relativa l’escussione dei periti del primo processo, Romano Schiavi e Alberto Brandone. I due esperti testimoniano il 21. Il 28 inizia la requisitoria della pubblica accusa. Come detto, la sentenza è attesa per metà aprile.
*******
Negli anni sono stati prospettati diversi scenari, diverse ipotesi su chi e perché ha compiuto la strage. In sintesi (stavolta sul serio; anzi, con molte semplificazioni: ognuna delle sottoelencate teorie meriterebbe approfondimenti, e qualche “pista” collaterale resterà fuori dall’elencazione):
- Sbandati locali con simpatie neofasciste, come conseguenza della morte di Silvio Ferrari.
- Un attentato diretto alla manifestazione antifascista, figlio di un’evoluzione “tattica” della strategia della tensione. In sostanza, e in questa ricostruzione, Piazza Fontana e Piazza della Loggia rappresentano davvero, per citare ancora Pasolini, “le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione”. La prima doveva provocare una svolta golpista o comunque reazionaria. Dopo il passo indietro di chi doveva proclamare o appoggiare lo stato di emergenza, dopo il successivo fallimento, per contrordine, del golpe Borghese (notte fra 8 e 9 dicembre 1970), nella destra eversiva matura l’idea della ritorsione (Peteano, 31 maggio ’72, obbiettivo i carabinieri; questura di Milano, 17 maggio 1973, obbiettivo il “traditore” Rumor, Presidente del Consiglio nel dicembre ’69); e il decreto di scioglimento di Ordine nuovo (novembre 1973) peggiora ulteriormente le cose. Dunque, Piazza Fontana rientra in una strategia “attiva” da parte delle organizzazioni neofasciste, rappresenta il “fare” qualcosa nell’ottica di un obbiettivo da perseguire; Brescia, invece, rientrerebbe in una strategia “di risposta” da parte degli stessi neofascisti, che cercavano di uscire dalla marginalizzazione, di dimostrare la propria forza e la propria pericolosa vitalità.
- Il terzo scenario è solo una maggiore specifica del secondo: il tentativo di colpire i carabinieri, che a Brescia in occasione di manifestazioni stazionavano solitamente proprio sotto il porticato dove esplose l’ordigno (per il maltempo le forze dell’ordine si posizionarono diversamente, lasciando la zona riparata ai manifestanti). I carabinieri, come prima accennato, sarebbero stati obbiettivo in quanto “traditori” dei disegni golpisti dell’estrema destra.
Tutti i filoni d’indagine portano all’estrema destra, con imputati che presentano sfumature ideologiche e personali anche molto diverse l’uno dall’altro. Al di là degli esiti sul piano delle responsabilità individuali, anche l’ultimo dibattimento ha delineato come contesto storico un impianto inquietante e ricorrente: un nucleo operativo dell’eversione neofascista, l’intesa con uomini dei servizi segreti, la copertura di apparati politici e militari.
Questo non significa che tutti gli imputati delle 4 (o 5, se preferite) istruttorie siano colpevoli. E su questo aspetto matura l’ennesimo inciso. Collaterale ma, credo, non privo d’interesse.
Quando io e Matteo Fenoglio abbiamo cominciato a lavorare su Piazza della Loggia abbiamo deciso di dividere il lavoro in due volumi. Nel primo, la contestualizzazione storica e gli eventi che portarono alla strage. Il secondo, di prossima pubblicazione, sarà imperniato sugli sviluppi processuali dal 1974 fino ai giorni nostri.
Per questa seconda parte del lavoro stiamo valutando l’ipotesi di intervistare uomini che siano stati interni alla “destra radicale” dell’epoca, per vedere se sia possibile acquisire informazioni “alla fonte”, e col grosso dubbio di riuscire davvero a scalfire il muro della reticenza.
Per ora, facilitato da circostanze con cui non voglio tediare il lettore, sono riuscito a parlare solo con Cesare Ferri. M’ha accolto con cortesia, e di questo lo ringrazio. Ha difeso la sua innocenza personale, supportata a suo dire sia dalla scarsa credibilità dei testi che l’accusarono sia – specularmente – dalla fondatezza degli elementi a proprio favore.
In sostanza ha rivendicato l’estraneità alla strage. Sua personale e del suo ambiente dell’epoca (riguardo quel periodo, Ferri non rinnega nulla della propria attività in quel contesto e delle proprie radici ideali), esprimendo un duro giudizio etico-morale sulla strage in sé. Giudizio che, ovviamente, condivido, ma che mi porta a una riflessione/domanda che formulerò nel finale.
Tutto questo per dire che la totale distanza ideologica o morale che posso avere verso ognuno degli imputati (vecchi e attuali) non m’impedisce (non deve impedirmi; e non deve impedire nessun lettore interessato solo al raggiungimento della verità sulla strage di Brescia) di affermare che sicuramente fra questi ci siano dei “veri innocenti”. Alcuni dei quali si sono fatti un bel po’ di galera per un crimine mai commesso.
Il concetto l’ha espresso meglio di me Adriano Sofri, nel suo recente “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”, in cui ha confutato con esemplare chiarezza (la mia citazione vale anche quale consiglio di lettura del bel pamphlet di Sofri) le teorie di Paolo Cucchiarelli sulla strage del 12 dicembre 1969.
“Badate che il fatto che il suo casting fra candidati assassini e stragisti avvenga così disinvoltamente non è reso meno grave dalle fedine penali o politiche di coloro cui si applica, già o tuttora nazifascisti o chissà che altro. Nessuna persona si avvicina di un centimetro in più ad essere colpevole di una strage per avere un passato di idee e atti loschi, se a quella strage non ha preso davvero parte”
Seppure formulata per un’altra strage (riflettete sulla mia espressione, “per un’altra strage”: è orribile, lo so… E c’è da perdersi in quello che non dovrebbe essere solo uno sterile e triste elenco) la frase di Sofri vale come paradigma: un “pedigree ideologico”, per quanto aberrante possa essere, non trasforma nessuno in un colpevole.
Ma l’elemento che maggiormente emerge, nell’intricata lettura delle vicende processuali della strage, è il ritardo incomprensibile – e soprattutto esiziale per la ricerca della verità – con cui le rivelazioni di Tramonte, mentre era confidente del Sid, arrivano all’autorità giudiziaria… mentre vengono trasmesse vere e proprie polpette depistanti. E’ illuminante un lungo passaggio della sentenza ordinanza del 23 maggio 1993 (Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi; i grassetti sono miei).
La notte del 2 marzo 1989 giungevano presso la Legione Carabinieri di Brescia un corriere inviato dal Comando Generale per recapitare una nota del Direttore del S.I.S.M.I. Amm. Sq. Fulvio Martini. La nota - datata 20.2.1989 - dava conto del rinvenimento … di un documento in data 3.6.1974, dal quale si rilevava che tale "Margherita" (da identificarsi in Ragnoli Margherita, … co-segretaria dell Associazione "Italia-Cuba" di Brescia) il 29.5.1974, nel corso di una conversazione telefonica interurbana, avrebbe detto che della strage di Piazza della Loggia "se ne era parlato fin dalla sera precedente", soggiungendo inoltre d'essere subito corsa in detta piazza in quanto le era stato riferito che uno dei morti apparteneva alI Associazione "Italia-Cuba", notizia risultata poi infondata.
Poichè alla data del 2.3.89 era in corso la celebrazione del dibattimento d'appello nei confronti di Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini, il mattino seguente il Comandante della Legione provvedeva a recapitare personalmente al Presidente della Corte d'Assise d'Appello e al Procuratore Generale il documento di cui sopra.
Lo stesso - portato e reso noto nella pubblica udienza - induceva i difensori a formulare immediata istanza di rinnovazione parziale del dibattimento al fine di "escutere Ragnoli Margherita".
… Gli approfondimenti - consistiti principalmente nell'interrogatorio a chiarimenti di Margherita Ragnoli e nell'escussione dell'Amm. Fulvio Martini - hanno pienamente confermato il giudizio di assoluta irrilevanza espresso dalla Corte d'Assise d'Appello in ordine a quanto rappresentato con la nota 20.2.89 e impongono di stendere sulla vicenda un "pietoso velo di silenzio" - ex art. 74 c.p.p. 1930 - come richiesto dal Pubblico Ministero.
Invero, attraverso l'acquisizione di una copia del documento 3.6.74 (rinvenuto a detta dell'Amm. Martini presso un centro periferico del Servizio), si è in primo luogo appurato che non si trattò di un'intercettazione telefonica abusiva, ma dell'ascolto - a mezzo di microspia piazzata all'interno dell’Ambasciata Cubana a Roma - di una conversazione avvenuta il 29.5.74 tra l'Ambasciatore di Cuba, Salvador Villaseca Fornò, e la propria segretaria-dattilografa, Maria del Carmen de Castillo Santamarina Rodriguez: nella circostanza l'Ambasciatore, commentando "l'attentato di Brescia", affamò di aver saputo "da Margherita, sua conoscente di quella città, che di esso (attentato) se ne era parlato fin dalla sera precedente" e che lei "Margherita" era "subito accorsa in Piazza della Loggia in quanto le era stato riferito che uno dei morti (donna) apparteneva all'Associazione `Italia-Cuba', notizia risultata poi infondata".
Pertanto … trattavasi e trattasi pur sempre di un resoconto (da parte dell’Ambasciatore) di cose dette da un'altra persona per telefono (parlando per di più non con l'Ambasciatore, ma - come ora si vedrà - con la moglie del medesimo).
Per parte sua, Margherita Ragnoli, … ha dichiarato che effettivamente, il 29.5.74, ebbe un contatto telefonico con l'Ambasciata di Cuba in Italia e ha precisato che fu la moglie dell'Ambasciatore … a chiamarla in quanto, saputo della strage di Piazza della Loggia, aveva temuto che lei fosse presente e voleva dunque accertarsi che non le "fosse accaduto nulla" … Quanto poi alla frase "se ne era parlato fin dalla sera precedente", attribuitale nella nota e nel documento del S.I.S.M.l., la Ragnoli ha naturalmente escluso di avere potuto parlare della strage fin dalla sera del 27 maggio 74, e non ha escluso invece di avere fatto cenno, parlando al telefono con l'amica cubana, al clima "elettrico" che si era venuto a creare in città in quel periodo … e alla netta sensazione - che ella avvertì e che ben ricorda - che "ci fosse qualcosa nell'aria" già nei giorni precedenti. Ecco, di che cosa si era, se mai, potuto parlare fin dalla sera precedente.
… E che l'unica versione possibile (perchè vera) sia quella data dalla Ragnoli è confermato dalle dichiarazioni dello stesso Amm. Martini, il quale - richiesto di fornire spiegazioni dell'improvvisa comparsa della "velina" 3.6.74 a "soli" 15 anni dalla sua stesura e proprio in coincidenza con il processo d'appello a carico dei neofascisti Ferri, Stepanoff e Latini - ha precisato: che realmente il documento tornò alla luce nel corso della revisione degli archivi disposta dalla Presidenza del Consiglio nel 1988; che egli ne ebbe personalmente conoscenza solo in data 25.1.89 e provvide subito a interpellare sul da farsi il Presidente del Consiglio, il quale il 17.2.89 rispose che doveva provvedersi ai sensi dell’art.9 comma 3¡ L.801/77; che fece dunque partire la nota il 20.2.89: che all'epoca (1974) non fu "effettuato alcun approfondimento in ordine al contenuto del documento in questione perchè era ampiamente noto (e riportato anche dalla stampa) il clima di tensione che ricorrenti minacce dell'estrema destra extraparlamentare avevano creato nella città di Brescia"; che - si badi al gran finale –agli atti del Servizio "non esistono ulteriori documenti dai quali si possano trarre utili elementi di valutazione in ordine alla strage di Brescia" (col vivo ringraziamento del popolo italiano per aver saputo produrre - su questa epocale tragedia - una sola "velina" e di cotanta utilità).
Quindi, a 15 anni dalla strage i servizi segreti mandano “una patacca” all’autorità giudiziaria, dichiarando di non avere null’altro sull’argomento. E i servizi usano la “patacca Ragnoli” incuranti delle veline di Maurizio Tramonte, coeve alla strage, rese in tempo reale ai referenti locali del Sid e in tempo reale trasmesse ai vertici romani… Sì, trasmesse ai vertici romani del Servizio, ma NON all’autorità giudiziaria: il 29 agosto 1974 il generale Gianadelio Maletti (nel 1974 a capo dell’ufficio D del Sid) negò al giudice istruttore di avere notizie utili riguardo a possibili responsabili della strage di Brescia… Le veline di Tramonte emergeranno dagli abissi (dai cassetti…) solo negli anni ’90, confluendo nell’istruttoria Piantoni/Di Martino (ossia l’attuale).
(un ultimo inciso; un’annotazione a suo modo più antropologica che non “politica”: la “patacca Ragnoli” purtroppo non è invece rimasta nel cestino dove era stata giustamente confinata – e censurata con amara ironia – dal giudice Zorzi. Molto istruttivo, ma non privo di conseguenze per l’umore del lettore, è la lettura delle deposizioni in Commissione Stragi – fine anni ’90 – laddove, incuranti del ridicolo, commissari del centrodestra hanno provato a rilucidarla e venderla come una pista da seguire…)
Riassumiamo…
- Le indagini potevano essere indirizzate verso Ordine Nuovo/Nero fin dall’immediatezza dei fatti. Bastava che le informative della fonte Tritone del Sid (Maurizio Tramonte) fossero trasmesse all’Autorità giudiziaria. Vediamo alcuni passaggi della nota datata 8 luglio 1974: “La sera del 25 maggio il dottor Carlo Maria Maggi di Mestre si è recato, insieme ad altri due camerati della zona di Venezia, ad Abano Terme, per incontrarsi con Giangastone Romani nell’abitazione di questo ultimo … Gli argomenti trattati nell’abitazione di Romani hanno riguardato la situazione e i programmi della destra extra parlamentare dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo. E’ stato quasi un monologo di Maggi, in quanto Romani e gli altri si sono limitati ad annuire o ad intervenire per puntualizzazioni marginali … Maggi ha reso noto che è in corso la creazione di una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino, con le caratteristiche e i compiti seguenti: numericamente molto ristretto, costituito da elementi maturi (dai 35 ai 45 anni, salvo qualche eccezione) e di collaudata fede politica. Opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta. L’altro palese, il quale si appoggerà a circoli culturali - ancora da costituire - gestiti da elementi di estrema destra finora rimasti nell’ombra; avrà il compito di sfruttare politicamente le ripercussioni degli attentati operati dal gruppo clandestino”.
- Tramonte/Tritone va anche oltre. Ancora dalla velina dell’8 luglio 1974: “Nel commentare i fatti di Brescia Maggi ha affermato che quell’attentato non deve rimanere un fatto isolato, perché il sistema va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi. … Nello spirito di questa teoria, lo stesso Maggi e Romani avevano espresso l’intenzione - qualche giorno dopo la strage - di stilare un comunicato da far pervenire alla stampa. Il documento avrebbe dovuto: esporre la linea politica e programmatica dell’organizzazione già menzionata; annunciare azioni terroristiche di grande portata da compiere a breve scadenza …”
- L’attentato viene effettivamente rivendicato, almeno in un primo tempo. Esiste un volantino, firmato Ordine Nero sezione Codreanu e Anno Zero, fatto trovare il primo giugno ’74 in una cassetta delle lettere a Vicenza: “Ci siamo assunti non a caso la paternità della strage di Brescia. … Vendicheremo noi in prima persona i soprusi contro i camerati ingiustamente incriminati… ”. Per completezza d’informazione preciso che, nell’ultimo processo, l’autore del volantino ha sostenuto d’averlo scritto per propria spontanea iniziativa.
In sostanza, le indagini potevano indirizzarsi da subito verso Ordine nuovo (cellule venete). Con quali risultati non è dato sapersi; con maggiore efficacia è sicuro (non starò a spiegare come il tempo, con la sua monumentale oggettività, sappia depistare e inquinare indagini persino meglio del Sid…); evitando imputazioni anche a qualche innocente è altrettanto sicuro (ricordo ancora quanto scritto da Sofri, sull’argomento).
Ma non è stato il destino a ostacolare le indagini. E neppure la “normale” fallibilità della giustizia umana. Nulla di tutto questo: apparati dello Stato hanno operato affinchè gli otto morti di Piazza della Loggia non avessero giustizia. Di questo “sappiamo” i colpevoli. Senza avere lo spessore intellettuale di Pasolini e senza temere, per averlo detto, il Lido di Ostia.
Resta ancora, nella tastiera, quella riflessione/domanda di cui ho anticipato prima l’esistenza.
Parliamo dunque di Bruno Luciano Benardelli (già incrociato in cronologia: elemento della destra radicale milanese, imputato nell’istruttoria chiusa nel ’93). In un’intervista a L’Europeo dell’ottobre ’74 disse: “la strage di Brescia potremmo averla fatta noi di Ordine Nero, da un punto di vista teorico, perché era un’azione militare. Insomma, dico, ammazzare dieci comunisti… I comunisti hanno ammazzato decine di camerati… ”.
Si potrà affermare che quella frase non era una rivendicazione; che era forse solo la spacconata di uno che, dall’estero, ha voluto spararla grossa, magari allettato da un compenso promesso per l’intervista; che una frase del genere ha “fatto male” proprio all’ambiente della destra radicale (mi si consenta di precisare: credo che leggerla abbia fatto molto più male ai parenti delle vittime di Piazza della Loggia…).
Tutto questo “ci sta”, come si dice… Ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensa chi sostiene ancora oggi, riguardo gli anni bui dello stragismo, una sorta di verginità “morale e ideale” della destra. Mi piacerebbe che in questo paese si aprisse una seria discussione sui “cattivi maestri” del terrorismo neofascista (chissà perché quando si parla di cattivi maestri si allude solo a quelli riconducibili – spesso con molte forzature – al brigatismo…); su se/quanto abbiano preso le distanze da quegli anni; su quanto abbiano detto e quanto abbiano (ancora) da dire.
Francesco “baro” Barilli
1. “Come?! E’ già uscita la sentenza???”
2. “Uhm… c’è un processo in corso per la strage di Brescia?”
3. “Cosa diavolo è successo in Piazza della Loggia?”
I terzi possono essere solo miei lettori occasionali, capitati qui per caso o per qualche scherzo dei motori di ricerca. Fra poche righe potranno decidere se proseguire o meno.
I secondi difficilmente sono miei lettori assidui, altrimenti saprebbero dell’esistenza del processo attuale (“attuale” perché sulla strage di Brescia ci sono state 4 istruttorie, se preferite 4 più uno stralcio, che hanno portato a diversi procedimenti).
Gli uni e gli altri (i “secondi” e i “terzi”) sono comunque incolpevoli della loro ignoranza (etimologicamente intesa). Non è colpa loro se quella strage, “indiscutibilmente quella a più alto tasso di politicità” (così scrisse il 23 maggio 1993 il Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi – semplice omonimia con uno degli imputati del procedimento in corso) è stata trattata in tempi recenti alla stregua di una sagra locale, senza “bucare” sui grandi media.
Ai primi, quelli di “Come?! E’ già uscita la sentenza???”, devo una spiegazione. No, la sentenza d’appello non è ancora uscita. E’ attesa a giorni, probabilmente già per la fine di questa settimana. Su quella di primo grado (assoluzione per tutti gli imputati) mi pronunciai in altra occasione.
Quindi, sì, sto scrivendo di una sentenza ancora non emessa…
I lettori di tutte le tre tipologie potranno ora essere uniti in una nuova domanda: “perché lo fai?”.
Pasolini, nel lontano 1974, a proposito degli attentati che avevano insanguinato e avrebbero continuato a insanguinare l’Italia scriveva: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”.
Una citazione bella quanto ormai abusata. E oggi non c’è bisogno di essere intellettuali per “sapere”. I fatti ci sono, basta metterli in fila uno dopo l’altro, nella loro inquietante successione logica e temporale… Pasolini non c’è più, purtroppo. Fatevi bastare il sottoscritto.
Quindi (eccomi al “perché lo faccio?”) per scrivere il mio commento non mi serve la sentenza d’appello. L’attendo con speranza, la guarderò con rispetto. Ma non mi è utile “per ristabilire la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”. Quel che mi (e vi) serve è la pazienza. Perché la mia narrazione non sarà semplice (lo impone la vicenda) o sintetica (lo impongono miei limiti… e ciò nonostante molte cose saranno brutalizzate per condensare migliaia di fogli processuali in una narrazione che sia perlomeno leggibile).
Innanzitutto, una cronologia. Utilizzerò, rimaneggiandoli, pezzi che ho scritto per i redazionali di “Piazza della Loggia volume 1. Non è di maggio”, realizzato con Matteo Fenoglio e di prossima uscita per BeccoGiallo. Salterò tutti i prodromi, tranne un episodio, limitandomi al percorso giudiziario della strage. Che già da solo è assai contorto…
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19 maggio 1974 (e giorni seguenti…)
Brescia, le tre del mattino. Il giovane neofascista Silvio Ferrari sta trasportando sulla sua Vespa una bomba a orologeria, destinata a un attentato alla sede locale del Corriere della Sera in Piazza della Vittoria. La bomba esplode anzitempo, uccidendolo sul colpo. La sua morte è il culmine di una serie di attentati, fino a quel momento incruenti, che nei primi mesi del ’74 hanno destato grande preoccupazione a Brescia e nei paesi limitrofi. Il 21 maggio una lettera firmata “Partito nazionale fascista sezione Silvio Ferrari” arriva al Giornale di Brescia. Attribuisce l’esplosione che ha ucciso Ferrari “ai comunisti” e minaccia attentati come ritorsione. Il volantino – ne seguirà uno analogo il 27 maggio – per toni e contenuti è un’inquietante anticipazione della strage che avverrà solo pochi giorni dopo. Infatti proprio l’escalation di attentati, culminata nell’esplosione del 19 maggio, porta alla mobilitazione dei sindacati e del comitato permanente antifascista. Viene indetta la manifestazione del 28 maggio, con comizio conclusivo in Piazza della Loggia: durante il discorso di Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, alle 10,12 l’esplosione di una bomba provoca 8 morti e oltre cento feriti.
31 gennaio 1975
Prima vera svolta nelle indagini. Luigi Papa si presenta al comando dei carabinieri di Brescia del capitano Francesco Delfino. Due dei suoi figli (Raffaele e Angelino) sono già in carcere da qualche giorno, accusati di furti di opere d’arte consumati in alcune chiese del bresciano. Con loro è in carcere Ermanno Buzzi, già noto agli ambienti giudiziari cittadini: un bizzarro delinquente comune che si dichiara nazifascista e vanta conoscenze nell’ambiente dell’estrema destra. Luigi Papa afferma di aver saputo da un altro dei suoi figli, Domenico, che Buzzi è l’esecutore materiale della strage. Da questa dichiarazione nasce il primo filone processuale su Piazza della Loggia. Le indagini di questa istruttoria cercheranno di trovare un nesso tra il “gruppo Buzzi” e i giovani neofascisti bresciani amici di Silvio Ferrari, accorpando l’inchiesta sulla morte di Ferrari con quella sulla strage.
In questo primo filone d’inchiesta vengono coinvolti fra gli altri Marco De Amici e Pierluigi Pagliai, amici di Ferrari. A loro carico, al termine del processo, resterà l’accusa di detenzione e trasporto di esplosivo. A condurre le indagini sono i magistrati Domenico Vino e Francesco trovato. Molti interrogatori sono condotti dal capitano Delfino, secondo modalità che desteranno polemiche e perplessità.
2 luglio 1979
Prima sentenza di Corte d’assise di Brescia. Vengono condannati come esecutori materiali della strage Ermanno Buzzi e Angelino Papa. Ferdinando Ferrari (detto Nando, omonimo e non parente di Silvio, con cui ha trascorso la notte fra il 18 e il 19 maggio prima che quest’ultimo perdesse la vita nell’attentato) è condannato a 5 anni per detenzione dell’ordigno che ha causato la morte di Silvio e a un anno per omicidio colposo. Marco De Amici e Pierluigi Pagliai sono condannati per detenzione e trasporto di esplosivo da Parma (dall’appartamento che i due condividevano col Ferrari). Assoluzione per gli altri imputati.
17 dicembre 1980
Nell’ambito della prima istruttoria (“gruppo Buzzi”) era nato uno stralcio d’inchiesta (da alcuni definita seconda istruttoria, pur trattandosi sostanzialmente di una “inchiesta bis”) imperniata su Ugo Bonati. E’ uno dei principali testimoni dell’accusa, sostiene d’aver assistito a tutta la vicenda, dal trasporto dell’esplosivo alla Piazza fino al deposito della bomba. La sua posizione di “testimone inconsapevole” della strage si fa presto insostenibile e viene rinviato a giudizio come componente del gruppo degli attentatori, in concorso con Buzzi e Papa, con conseguente mandato di cattura. Nel ’79 fugge da Brescia e da allora non è più stato rintracciato. Il 17 dicembre 1980 il Giudice Istruttore dispone comunque l’assoluzione nei suoi confronti, accertando che le sue affermazioni sono false, sul ruolo degli altri imputati come sul proprio.
13 aprile 1981
Mentre è rinchiuso nel carcere di Novara, in attesa dell’appello per il processo che lo vede imputato per la strage, Ermanno Buzzi viene ucciso dai neofascisti Mario Tuti e Pierluigi Concutelli.
2 marzo 1982
La Corte d’appello conferma le assoluzioni di primo grado. Assolve per non aver commesso il fatto Angelino Papa, e assolve “virtualmente” anche Buzzi (già strangolato in carcere). Condanna confermata, ma ridotta, a Marco De Amici per detenzione di esplosivo.
30 novembre 1983
La Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello del marzo ’82, e rinvia gli atti alla Corte d’appello di Venezia per un nuovo giudizio.
19 aprile 1985
La Corte d’appello Veneziana emette un verdetto di assoluzione per insufficienza di prove per tutti gli imputati. Confermata la condanna al solo De Amici. La sentenza diventa definitiva a seguito del giudizio della Cassazione, il 25 settembre 1987.
23 maggio 1987
Semplifico la seconda istruttoria, partendo dalla data del giudizio della Corte d’assise: assoluzione per gli imputati. L’inchiesta aveva preso il via negli anni ’80, con indagini che portano al rinvio a giudizio di Cesare Ferri e Alessandro Stepanoff, quest’ultimo accusato di aver fornito un alibi al primo. Ferri, già apparso nelle primissime indagini e su cui torneremo in seguito, è un giovane milanese legato agli ambienti dell’estrema destra cittadina. L’assoluzione viene ratificata in appello il 10 marzo 1989 e confermata in Cassazione il 13 novembre 1989.
23 maggio 1993
Snellisco pure la terza istruttoria: la data è quella della sentenza del Giudice Gianpaolo Zorzi. Pur nell’impossibilità di accertare responsabilità penali a carico degli accusati (in questo filone d’inchiesta: Marco Ballan, Fabrizio Zani, Giancarlo Rognoni, Bruno Luciano Benardelli e Marilisa Macchi) l’ordinanza del Dott. Zorzi è anche un esplicito e accorato atto d’accusa verso le complicità istituzionali che hanno protetto esecutori e mandanti della strage, ostacolando l’accertamento della verità. Del documento abbiamo visto un passo in precedenza; ne vedremo altri più avanti.
15 maggio 2008
Vengono rinviati a giudizio per la strage di Brescia Pino Rauti, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, l'ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, Giovanni Maifredi e Maurizio Tramonte. Il rinvio a giudizio è frutto della quarta istruttoria, condotta dai PM Roberto Di Martino e Francesco Piantoni.
Le indagini si reggono su due pilastri. Uno è l’imputato Maurizio Tramonte.
Nato nel 1952, nell’autunno 1972 viene attivato come fonte del SID col criptonimo di Tritone. Collabora in questa veste con il Centro Controspionaggio di Padova, a cui fornisce per mesi informazioni sul mondo della destra eversiva. La sua collaborazione produce un’imponente mole di “veline”. Alcune sono relative a incontri che si sarebbero tenuti presso l’albergo che dirigeva un esponente missino, Giangastone Romani, ad Abano Terme. In uno di questi documenti si accenna esplicitamente alla “… creazione di una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino … Opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta”; inoltre sono presenti molti accenni proprio alla strage di Piazza della Loggia: in seguito dettaglierò meglio queste citazioni.
Negli anni ’90 Tramonte arricchisce le veline con nuove dichiarazioni, attraversando un percorso in cui ha vestito diversi ruoli, da persona informata sui fatti a indagato in reato collegato, fino a indagato – e poi imputato – per la strage. Il 24 maggio 2002 Tramonte ritratta tutte le sue precedenti dichiarazioni, sostenendo che le uniche informazioni credibili da lui rese sarebbero quelle a suo tempo fornite come “fonte Tritone” al Sid, e che queste sarebbero relative esclusivamente a notizie apprese de relato. L’interessato sosterrà, anche nel corso del dibattimento, che le successive dichiarazioni sarebbero state frutto di un disperato bisogno di aiuto e denaro per altri suoi guai giudiziari, nonché del difficile periodo in cui era schiavo di droga e alcol. La ritrattazione è ritenuta totalmente inattendibile dalla pubblica accusa.
L’altro pilastro è Carlo Digilio.
Esperto in armi ed esplosivi, nell’ambiente ordinovista chiamato “Zio Otto”, è testimone fondamentale già nel processo per Piazza Fontana, ma viene beffato dal destino. Anche a causa di un ictus, che ne compromette la memoria, non viene ritenuto sufficientemente credibile… tranne quando accusa se stesso… Muore nel 2005, proprio nell’anniversario di Piazza Fontana: una coincidenza simbolica difficilmente immaginabile nella realtà.
Sulla strage di Brescia racconta tre fatti.
1. Il primo è una riunione a Rovigo, collocabile nel mese di aprile ’74. Zio Otto non partecipa, ne apprende i contenuti da Marcello Soffiati, ordinovista veronese. Nell’occasione si parla di attentati, specie di uno da realizzare nell’Italia settentrionale.
2. Pure il secondo è una riunione, di poco successiva. A Colognola ai Colli, dove viveva Soffiati, e stavolta con la presenza diretta di Digilio. Qui è Carlo Maria Maggi a parlare: “Fate attenzione, ci sarà un attentato nell'Italia settentrionale. Procuratevi alibi, fate attenzione a come vi muovete…”. Secondo il proprio racconto, Digilio si apparta con Soffiati per chiedere spiegazioni, ed è qui che riceve le confidenze sulla precedente riunione di Rovigo.
3. Il terzo fatto emerge nella testimonianza resa il 4 maggio ’96 al dott. Salvini, durante l’inchiesta su Piazza Fontana, e ribadita il 15 maggio davanti ai magistrati bresciani. Digilio racconta che Marcello Soffiati, su incarico di Maggi, avrebbe ritirato l’ordigno da Delfo Zorzi. Soffiati fa tappa a Verona, preoccupato per la propria sicurezza. Qui, Digilio afferma d’essere intervenuto tecnicamente sull’ordigno, per rendere più sicuro il viaggio di Soffiati. Un viaggio che, sempre secondo questa testimonianza, avrebbe portato Soffiati e la bomba a Milano, dove l’ordigno sarebbe passato in altre mani per dirigersi poi verso la destinazione finale. Verso Brescia…
16 novembre 2010
La sentenza di primo grado assolve i 5 imputati ancora in vita (Maifredi è deceduto il 3 luglio 2009). La Corte non ritiene credibili né Digilio né Tramonte. Quest’ultimo è ritenuto attendibile solo nelle veline redatte per il Sid nell’immediatezza dei fatti. Tali documenti però, ad avviso della Corte, testimonierebbero solo la generica volontà di costituire un’organizzazione terroristica che il 28 maggio 1974 non sarebbe stata ancora pienamente operativa e in grado di compiere un’azione rilevante come la strage di Brescia.
I pubblici ministeri e le parti civili ricorrono in appello contro le assoluzioni.
gennaio-febbraio 2012
In vista dell’apertura del processo d’appello i pubblici ministeri inoltrano istanza di “rinnovamento parziale dell’istruttoria dibattimentale”: Piantoni e Di Martino chiedono che il tribunale d’appello valuti nuovi elementi, non emersi o non sufficientemente emersi nel corso del primo grado. Il processo d’appello si apre il 14 febbraio. Il 17 la Corte respinge tutte le richieste di riapertura parziale del dibattimento, tranne quella relativa l’escussione dei periti del primo processo, Romano Schiavi e Alberto Brandone. I due esperti testimoniano il 21. Il 28 inizia la requisitoria della pubblica accusa. Come detto, la sentenza è attesa per metà aprile.
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Negli anni sono stati prospettati diversi scenari, diverse ipotesi su chi e perché ha compiuto la strage. In sintesi (stavolta sul serio; anzi, con molte semplificazioni: ognuna delle sottoelencate teorie meriterebbe approfondimenti, e qualche “pista” collaterale resterà fuori dall’elencazione):
- Sbandati locali con simpatie neofasciste, come conseguenza della morte di Silvio Ferrari.
- Un attentato diretto alla manifestazione antifascista, figlio di un’evoluzione “tattica” della strategia della tensione. In sostanza, e in questa ricostruzione, Piazza Fontana e Piazza della Loggia rappresentano davvero, per citare ancora Pasolini, “le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione”. La prima doveva provocare una svolta golpista o comunque reazionaria. Dopo il passo indietro di chi doveva proclamare o appoggiare lo stato di emergenza, dopo il successivo fallimento, per contrordine, del golpe Borghese (notte fra 8 e 9 dicembre 1970), nella destra eversiva matura l’idea della ritorsione (Peteano, 31 maggio ’72, obbiettivo i carabinieri; questura di Milano, 17 maggio 1973, obbiettivo il “traditore” Rumor, Presidente del Consiglio nel dicembre ’69); e il decreto di scioglimento di Ordine nuovo (novembre 1973) peggiora ulteriormente le cose. Dunque, Piazza Fontana rientra in una strategia “attiva” da parte delle organizzazioni neofasciste, rappresenta il “fare” qualcosa nell’ottica di un obbiettivo da perseguire; Brescia, invece, rientrerebbe in una strategia “di risposta” da parte degli stessi neofascisti, che cercavano di uscire dalla marginalizzazione, di dimostrare la propria forza e la propria pericolosa vitalità.
- Il terzo scenario è solo una maggiore specifica del secondo: il tentativo di colpire i carabinieri, che a Brescia in occasione di manifestazioni stazionavano solitamente proprio sotto il porticato dove esplose l’ordigno (per il maltempo le forze dell’ordine si posizionarono diversamente, lasciando la zona riparata ai manifestanti). I carabinieri, come prima accennato, sarebbero stati obbiettivo in quanto “traditori” dei disegni golpisti dell’estrema destra.
Tutti i filoni d’indagine portano all’estrema destra, con imputati che presentano sfumature ideologiche e personali anche molto diverse l’uno dall’altro. Al di là degli esiti sul piano delle responsabilità individuali, anche l’ultimo dibattimento ha delineato come contesto storico un impianto inquietante e ricorrente: un nucleo operativo dell’eversione neofascista, l’intesa con uomini dei servizi segreti, la copertura di apparati politici e militari.
Questo non significa che tutti gli imputati delle 4 (o 5, se preferite) istruttorie siano colpevoli. E su questo aspetto matura l’ennesimo inciso. Collaterale ma, credo, non privo d’interesse.
Quando io e Matteo Fenoglio abbiamo cominciato a lavorare su Piazza della Loggia abbiamo deciso di dividere il lavoro in due volumi. Nel primo, la contestualizzazione storica e gli eventi che portarono alla strage. Il secondo, di prossima pubblicazione, sarà imperniato sugli sviluppi processuali dal 1974 fino ai giorni nostri.
Per questa seconda parte del lavoro stiamo valutando l’ipotesi di intervistare uomini che siano stati interni alla “destra radicale” dell’epoca, per vedere se sia possibile acquisire informazioni “alla fonte”, e col grosso dubbio di riuscire davvero a scalfire il muro della reticenza.
Per ora, facilitato da circostanze con cui non voglio tediare il lettore, sono riuscito a parlare solo con Cesare Ferri. M’ha accolto con cortesia, e di questo lo ringrazio. Ha difeso la sua innocenza personale, supportata a suo dire sia dalla scarsa credibilità dei testi che l’accusarono sia – specularmente – dalla fondatezza degli elementi a proprio favore.
In sostanza ha rivendicato l’estraneità alla strage. Sua personale e del suo ambiente dell’epoca (riguardo quel periodo, Ferri non rinnega nulla della propria attività in quel contesto e delle proprie radici ideali), esprimendo un duro giudizio etico-morale sulla strage in sé. Giudizio che, ovviamente, condivido, ma che mi porta a una riflessione/domanda che formulerò nel finale.
Tutto questo per dire che la totale distanza ideologica o morale che posso avere verso ognuno degli imputati (vecchi e attuali) non m’impedisce (non deve impedirmi; e non deve impedire nessun lettore interessato solo al raggiungimento della verità sulla strage di Brescia) di affermare che sicuramente fra questi ci siano dei “veri innocenti”. Alcuni dei quali si sono fatti un bel po’ di galera per un crimine mai commesso.
Il concetto l’ha espresso meglio di me Adriano Sofri, nel suo recente “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”, in cui ha confutato con esemplare chiarezza (la mia citazione vale anche quale consiglio di lettura del bel pamphlet di Sofri) le teorie di Paolo Cucchiarelli sulla strage del 12 dicembre 1969.
“Badate che il fatto che il suo casting fra candidati assassini e stragisti avvenga così disinvoltamente non è reso meno grave dalle fedine penali o politiche di coloro cui si applica, già o tuttora nazifascisti o chissà che altro. Nessuna persona si avvicina di un centimetro in più ad essere colpevole di una strage per avere un passato di idee e atti loschi, se a quella strage non ha preso davvero parte”
Seppure formulata per un’altra strage (riflettete sulla mia espressione, “per un’altra strage”: è orribile, lo so… E c’è da perdersi in quello che non dovrebbe essere solo uno sterile e triste elenco) la frase di Sofri vale come paradigma: un “pedigree ideologico”, per quanto aberrante possa essere, non trasforma nessuno in un colpevole.
Ma l’elemento che maggiormente emerge, nell’intricata lettura delle vicende processuali della strage, è il ritardo incomprensibile – e soprattutto esiziale per la ricerca della verità – con cui le rivelazioni di Tramonte, mentre era confidente del Sid, arrivano all’autorità giudiziaria… mentre vengono trasmesse vere e proprie polpette depistanti. E’ illuminante un lungo passaggio della sentenza ordinanza del 23 maggio 1993 (Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi; i grassetti sono miei).
La notte del 2 marzo 1989 giungevano presso la Legione Carabinieri di Brescia un corriere inviato dal Comando Generale per recapitare una nota del Direttore del S.I.S.M.I. Amm. Sq. Fulvio Martini. La nota - datata 20.2.1989 - dava conto del rinvenimento … di un documento in data 3.6.1974, dal quale si rilevava che tale "Margherita" (da identificarsi in Ragnoli Margherita, … co-segretaria dell Associazione "Italia-Cuba" di Brescia) il 29.5.1974, nel corso di una conversazione telefonica interurbana, avrebbe detto che della strage di Piazza della Loggia "se ne era parlato fin dalla sera precedente", soggiungendo inoltre d'essere subito corsa in detta piazza in quanto le era stato riferito che uno dei morti apparteneva alI Associazione "Italia-Cuba", notizia risultata poi infondata.
Poichè alla data del 2.3.89 era in corso la celebrazione del dibattimento d'appello nei confronti di Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini, il mattino seguente il Comandante della Legione provvedeva a recapitare personalmente al Presidente della Corte d'Assise d'Appello e al Procuratore Generale il documento di cui sopra.
Lo stesso - portato e reso noto nella pubblica udienza - induceva i difensori a formulare immediata istanza di rinnovazione parziale del dibattimento al fine di "escutere Ragnoli Margherita".
… Gli approfondimenti - consistiti principalmente nell'interrogatorio a chiarimenti di Margherita Ragnoli e nell'escussione dell'Amm. Fulvio Martini - hanno pienamente confermato il giudizio di assoluta irrilevanza espresso dalla Corte d'Assise d'Appello in ordine a quanto rappresentato con la nota 20.2.89 e impongono di stendere sulla vicenda un "pietoso velo di silenzio" - ex art. 74 c.p.p. 1930 - come richiesto dal Pubblico Ministero.
Invero, attraverso l'acquisizione di una copia del documento 3.6.74 (rinvenuto a detta dell'Amm. Martini presso un centro periferico del Servizio), si è in primo luogo appurato che non si trattò di un'intercettazione telefonica abusiva, ma dell'ascolto - a mezzo di microspia piazzata all'interno dell’Ambasciata Cubana a Roma - di una conversazione avvenuta il 29.5.74 tra l'Ambasciatore di Cuba, Salvador Villaseca Fornò, e la propria segretaria-dattilografa, Maria del Carmen de Castillo Santamarina Rodriguez: nella circostanza l'Ambasciatore, commentando "l'attentato di Brescia", affamò di aver saputo "da Margherita, sua conoscente di quella città, che di esso (attentato) se ne era parlato fin dalla sera precedente" e che lei "Margherita" era "subito accorsa in Piazza della Loggia in quanto le era stato riferito che uno dei morti (donna) apparteneva all'Associazione `Italia-Cuba', notizia risultata poi infondata".
Pertanto … trattavasi e trattasi pur sempre di un resoconto (da parte dell’Ambasciatore) di cose dette da un'altra persona per telefono (parlando per di più non con l'Ambasciatore, ma - come ora si vedrà - con la moglie del medesimo).
Per parte sua, Margherita Ragnoli, … ha dichiarato che effettivamente, il 29.5.74, ebbe un contatto telefonico con l'Ambasciata di Cuba in Italia e ha precisato che fu la moglie dell'Ambasciatore … a chiamarla in quanto, saputo della strage di Piazza della Loggia, aveva temuto che lei fosse presente e voleva dunque accertarsi che non le "fosse accaduto nulla" … Quanto poi alla frase "se ne era parlato fin dalla sera precedente", attribuitale nella nota e nel documento del S.I.S.M.l., la Ragnoli ha naturalmente escluso di avere potuto parlare della strage fin dalla sera del 27 maggio 74, e non ha escluso invece di avere fatto cenno, parlando al telefono con l'amica cubana, al clima "elettrico" che si era venuto a creare in città in quel periodo … e alla netta sensazione - che ella avvertì e che ben ricorda - che "ci fosse qualcosa nell'aria" già nei giorni precedenti. Ecco, di che cosa si era, se mai, potuto parlare fin dalla sera precedente.
… E che l'unica versione possibile (perchè vera) sia quella data dalla Ragnoli è confermato dalle dichiarazioni dello stesso Amm. Martini, il quale - richiesto di fornire spiegazioni dell'improvvisa comparsa della "velina" 3.6.74 a "soli" 15 anni dalla sua stesura e proprio in coincidenza con il processo d'appello a carico dei neofascisti Ferri, Stepanoff e Latini - ha precisato: che realmente il documento tornò alla luce nel corso della revisione degli archivi disposta dalla Presidenza del Consiglio nel 1988; che egli ne ebbe personalmente conoscenza solo in data 25.1.89 e provvide subito a interpellare sul da farsi il Presidente del Consiglio, il quale il 17.2.89 rispose che doveva provvedersi ai sensi dell’art.9 comma 3¡ L.801/77; che fece dunque partire la nota il 20.2.89: che all'epoca (1974) non fu "effettuato alcun approfondimento in ordine al contenuto del documento in questione perchè era ampiamente noto (e riportato anche dalla stampa) il clima di tensione che ricorrenti minacce dell'estrema destra extraparlamentare avevano creato nella città di Brescia"; che - si badi al gran finale –agli atti del Servizio "non esistono ulteriori documenti dai quali si possano trarre utili elementi di valutazione in ordine alla strage di Brescia" (col vivo ringraziamento del popolo italiano per aver saputo produrre - su questa epocale tragedia - una sola "velina" e di cotanta utilità).
Quindi, a 15 anni dalla strage i servizi segreti mandano “una patacca” all’autorità giudiziaria, dichiarando di non avere null’altro sull’argomento. E i servizi usano la “patacca Ragnoli” incuranti delle veline di Maurizio Tramonte, coeve alla strage, rese in tempo reale ai referenti locali del Sid e in tempo reale trasmesse ai vertici romani… Sì, trasmesse ai vertici romani del Servizio, ma NON all’autorità giudiziaria: il 29 agosto 1974 il generale Gianadelio Maletti (nel 1974 a capo dell’ufficio D del Sid) negò al giudice istruttore di avere notizie utili riguardo a possibili responsabili della strage di Brescia… Le veline di Tramonte emergeranno dagli abissi (dai cassetti…) solo negli anni ’90, confluendo nell’istruttoria Piantoni/Di Martino (ossia l’attuale).
(un ultimo inciso; un’annotazione a suo modo più antropologica che non “politica”: la “patacca Ragnoli” purtroppo non è invece rimasta nel cestino dove era stata giustamente confinata – e censurata con amara ironia – dal giudice Zorzi. Molto istruttivo, ma non privo di conseguenze per l’umore del lettore, è la lettura delle deposizioni in Commissione Stragi – fine anni ’90 – laddove, incuranti del ridicolo, commissari del centrodestra hanno provato a rilucidarla e venderla come una pista da seguire…)
Riassumiamo…
- Le indagini potevano essere indirizzate verso Ordine Nuovo/Nero fin dall’immediatezza dei fatti. Bastava che le informative della fonte Tritone del Sid (Maurizio Tramonte) fossero trasmesse all’Autorità giudiziaria. Vediamo alcuni passaggi della nota datata 8 luglio 1974: “La sera del 25 maggio il dottor Carlo Maria Maggi di Mestre si è recato, insieme ad altri due camerati della zona di Venezia, ad Abano Terme, per incontrarsi con Giangastone Romani nell’abitazione di questo ultimo … Gli argomenti trattati nell’abitazione di Romani hanno riguardato la situazione e i programmi della destra extra parlamentare dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo. E’ stato quasi un monologo di Maggi, in quanto Romani e gli altri si sono limitati ad annuire o ad intervenire per puntualizzazioni marginali … Maggi ha reso noto che è in corso la creazione di una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino, con le caratteristiche e i compiti seguenti: numericamente molto ristretto, costituito da elementi maturi (dai 35 ai 45 anni, salvo qualche eccezione) e di collaudata fede politica. Opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta. L’altro palese, il quale si appoggerà a circoli culturali - ancora da costituire - gestiti da elementi di estrema destra finora rimasti nell’ombra; avrà il compito di sfruttare politicamente le ripercussioni degli attentati operati dal gruppo clandestino”.
- Tramonte/Tritone va anche oltre. Ancora dalla velina dell’8 luglio 1974: “Nel commentare i fatti di Brescia Maggi ha affermato che quell’attentato non deve rimanere un fatto isolato, perché il sistema va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi. … Nello spirito di questa teoria, lo stesso Maggi e Romani avevano espresso l’intenzione - qualche giorno dopo la strage - di stilare un comunicato da far pervenire alla stampa. Il documento avrebbe dovuto: esporre la linea politica e programmatica dell’organizzazione già menzionata; annunciare azioni terroristiche di grande portata da compiere a breve scadenza …”
- L’attentato viene effettivamente rivendicato, almeno in un primo tempo. Esiste un volantino, firmato Ordine Nero sezione Codreanu e Anno Zero, fatto trovare il primo giugno ’74 in una cassetta delle lettere a Vicenza: “Ci siamo assunti non a caso la paternità della strage di Brescia. … Vendicheremo noi in prima persona i soprusi contro i camerati ingiustamente incriminati… ”. Per completezza d’informazione preciso che, nell’ultimo processo, l’autore del volantino ha sostenuto d’averlo scritto per propria spontanea iniziativa.
In sostanza, le indagini potevano indirizzarsi da subito verso Ordine nuovo (cellule venete). Con quali risultati non è dato sapersi; con maggiore efficacia è sicuro (non starò a spiegare come il tempo, con la sua monumentale oggettività, sappia depistare e inquinare indagini persino meglio del Sid…); evitando imputazioni anche a qualche innocente è altrettanto sicuro (ricordo ancora quanto scritto da Sofri, sull’argomento).
Ma non è stato il destino a ostacolare le indagini. E neppure la “normale” fallibilità della giustizia umana. Nulla di tutto questo: apparati dello Stato hanno operato affinchè gli otto morti di Piazza della Loggia non avessero giustizia. Di questo “sappiamo” i colpevoli. Senza avere lo spessore intellettuale di Pasolini e senza temere, per averlo detto, il Lido di Ostia.
Resta ancora, nella tastiera, quella riflessione/domanda di cui ho anticipato prima l’esistenza.
Parliamo dunque di Bruno Luciano Benardelli (già incrociato in cronologia: elemento della destra radicale milanese, imputato nell’istruttoria chiusa nel ’93). In un’intervista a L’Europeo dell’ottobre ’74 disse: “la strage di Brescia potremmo averla fatta noi di Ordine Nero, da un punto di vista teorico, perché era un’azione militare. Insomma, dico, ammazzare dieci comunisti… I comunisti hanno ammazzato decine di camerati… ”.
Si potrà affermare che quella frase non era una rivendicazione; che era forse solo la spacconata di uno che, dall’estero, ha voluto spararla grossa, magari allettato da un compenso promesso per l’intervista; che una frase del genere ha “fatto male” proprio all’ambiente della destra radicale (mi si consenta di precisare: credo che leggerla abbia fatto molto più male ai parenti delle vittime di Piazza della Loggia…).
Tutto questo “ci sta”, come si dice… Ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensa chi sostiene ancora oggi, riguardo gli anni bui dello stragismo, una sorta di verginità “morale e ideale” della destra. Mi piacerebbe che in questo paese si aprisse una seria discussione sui “cattivi maestri” del terrorismo neofascista (chissà perché quando si parla di cattivi maestri si allude solo a quelli riconducibili – spesso con molte forzature – al brigatismo…); su se/quanto abbiano preso le distanze da quegli anni; su quanto abbiano detto e quanto abbiano (ancora) da dire.
Francesco “baro” Barilli
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