domenica 29 luglio 2012
mercoledì 18 luglio 2012
L’inutile “vittoria” di Genova 2001
Di Genova 2001 ho parlato e scritto molto. Ne ho parlato come di un trauma o di uno spartiacque nella vita di tanti: chi è stato segnato – sulla propria pelle, nella propria esistenza – da quei fatti; chi, come me, da undici anni non è mai mancato una sola volta, a luglio, in Piazza Alimonda. Perché andare a Genova in luglio è…
Non so neppure io cosa sia... Sicuramente non un vuoto rito. Neppure “un dovere” (poca simpatia per ogni “dovere”, capitemi…). In mancanza di parole adatte lasciamo la frase così, incompiuta. Tanto le parole non aggiungono nulla: per tanti, l’ho detto, Genova è un trauma, uno spartiacque: loro sanno cosa significa “esserci” tutti gli anni a luglio, anche senza sintetizzarlo con un termine.
Il luglio 2012 finora è stato, metaforicamente, “caldo” e importante quanto quello del 2001. Sono arrivati a sentenza definitiva tre processi: Dopo De Gennaro e Diaz, la condanna a dieci manifestanti.
Sulla condanna ai dieci manifestanti è già stato scritto tutto.
- Sulla tipologia di reato (“devastazione e saccheggio”): che puzza di fascismo ed è spropositata.
- Sull’asimmetria delle pene inflitte ai manifestanti rispetto a quelle comminate alle forze dell’ordine in altri procedimenti (non solo genovesi): una sproporzione che rende “l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge” pura e vuota retorica.
- In particolare, sulle pene ai manifestanti: degne del codice fascista a cui il reato di “devastazione e saccheggio” è dovuto (codice a sua volta degno, del resto, del paese autoritario in cui viviamo).
Al netto di tutti i commenti possibili (e, sia chiaro, tutti quelli che ho sinteticamente ricordato sono sacrosanti), stiamo parlando della vita sconvolta a dieci persone (5 subito e 5 vedremo dopo il nuovo appello, che dovrà pronunciarsi solo sulle attenuanti, al massimo “limando” la pena) e ai loro cari. Non parliamo di astrazioni, ma di altre ferite, di esistenze violate: leggete quanto scrive Amal: nulla da aggiungere.
*****
Dunque, lentamente, Genova 2001 si sta avvicinando alla fine (nella sua dimensione processuale, intendo…).
Ho già detto altre volte che non penso che la risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. E non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col pallottoliere che tiene il conto di condanne e assoluzioni: i tribunali hanno detto anche altro…
Su Bolzaneto (dove la Cassazione non è ancora arrivata) nel marzo 2010 la sentenza di appello, seppure nella permanente impossibilità di parlare di tortura e in presenza di molti reati per cui è scattata la prescrizione, ha aumentato pene e risarcimenti, riconoscendo aggravanti specifiche come l’aver agito per motivi “futili e abietti”. Inutile aggiungere che è l’ignavia del mondo politico (trasversale e tutt’altro che recente) ad aver fatto sì che l’Italia sia ancora priva, a livello giuridico, di una specifica definizione del reato di tortura.
Sulla Scuola Diaz la sentenza definitiva (accantonando il discorso della bassa entità delle pene) è stata clamorosa: credo sia una novità assoluta, non solo per l’Italia, una condanna dei vertici della Polizia di uno Stato occidentale avvenuta in un “normale” processo penale. Inoltre è il caso di ricordare che i 93 presenti la notte del 21 luglio 2001 nella scuola erano stati a suo tempo prosciolti dal GIP dalle accuse a loro carico: associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio e resistenza aggravata. Oggi appare scontato e ridondante ricordarlo (qui andiamo alla “preistoria” dei processi su Genova: la sentenza del GIP se non sbaglio è del 2003), ma pure quel provvedimento ha contribuito a “fare la storia processuale” di Genova: senza quello probabilmente non ci sarebbe stato neppure il processo ai funzionari per la “macelleria messicana”.
Sui manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento.
Persino nel “processo ai 25” si possono trovare elementi positivi: per 15 dei 25 imputati l’impianto accusatorio della “devastazione e saccheggio” era crollato nei primi gradi di giudizio; e il tribunale ha riconosciuto a quegli imputati di aver reagito ad atti arbitrari di pubblici ufficiali, riconoscendo “illegittimo, ingiustificato e sproporzionato alla situazione” l’attacco al corteo di via Tolemaide del 20 luglio, da cui nacquero gli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani (certo: è scandaloso che da questo riconoscimento non sia nato né un processo per l’omicidio di Piazza Alimonda, né siano scaturite conseguenze positive per gli altri dieci imputati: perché la procura non ha proceduto contro i responsabili di quelle cariche, invece di incaponirsi contro i manifestanti?).
*****
Insomma: le sentenze, ferme restando le zone d’ombra (a cominciare dallo sconcerto per la scandalosa archiviazione per l’omicidio di Carlo) nel loro complesso dicono che “avevamo ragione noi”. Lo dicono brutalizzando il concetto, certo, ma anche ricordando che la risposta che DAVVERO NON E’ ARRIVATA è stata quella della politica: quella della magistratura, letta in filigrana, è – almeno “tecnicamente” – una vittoria.
Ma è una vittoria incompleta. E soprattutto amara. Vediamo perchè…
*****
Lo sapete, sono anarchico (intendendo l'anarchia, citando De Andrè, come una categoria dello spirito, che prescinde da rigide appartenenze o da logiche organizzative). Per me anarchia significa rifiuto del principio di autorità di un essere umano su un altro. Anarchico non è chi non accetta ordini (quella è caratteristica più o meno di tutti…) ma chi non concepirebbe darli…
Ritengo, quindi, che ogni forma di potere o di autorità sia una forma di controllo, subdolo o violento, sull’individuo (questo proprio in breve, eh…).
Preciso: non mi sfugge che anche dentro gli apparati dello Stato (e quindi dentro ai meccanismi del potere) esistono persone di spessore, di rigore morale, che credono davvero nello stato di diritto, convinti che quelle strutture a cui loro appartengono siano a servizio dei cittadini. Proprio la storia processuale di Genova, per fare solo un esempio, mi fa pensare al pm Enrico Zucca, senza il quale non si sarebbe ottenuta la sentenza Diaz. Non dimentico che proprio Zucca ha agito con scrupolo e professionalità, trovandosi ad affrontare ostacoli che, lungo il suo percorso, sono stati posti da altri apparati; ostacoli che in certi momenti si sono concretizzati non solo nel boicottaggio delle indagini, ma in attacchi anche personali nei confronti del pm. Guardo con stima e rispetto a un uomo come il dott. Zucca e so che non è un caso isolato, per fortuna.
Nonostante questo il mio giudizio sul potere e i suoi apparati è questo: un’oligarchia autonominatasi, che con giochi di prestigio costruisce attorno a sé un’aura di consenso e si puntella con strutture il cui unico compito è l’autoconservazione (autoconservazione del potere stesso, innanzitutto). Indipendentemente, cioè, dalla volontà dei cittadini, plagiata da quei “giochi di prestigio” o, alla peggio e quando serve, soggiogata; con le buone o con le cattive. Persino la forma della delega in politica è un orpello, una buccia che copre a malapena quei giochetti: grattata con l’unghia sparisce e resta quel nocciolo che si alimenta e perpetua.
I movimenti sociali agiscono in questo alveo. In dati momenti possono persino spaventare il potere: è quel che è successo a Genova; e la durezza della repressione è stata proporzionale alla paura che, almeno in prospettiva, il movimento destava nelle “stanze dei bottoni”.
Ora che quel movimento si è dissolto, anche la reazione civile di fronte a certe enormità, quali ad esempio la condanna ai dieci manifestanti di Genova, è solo una voce flebile. I riferimenti politici di quella stagione si sono dissolti; quel che ne rimane sembra il ribollire di frutta un po’ andata che vuole nobilitarsi in marmellata…
Per il potere la strategia più efficace non è tanto quella di vendere una proposta di mondo come fosse la migliore, ma evidenziare che non esistono alternative. Non è una cosa nuova, “there is no alternative”, diceva Tatcher, era un suo motto. Nella partita della contrapposizione di forze, “loro” avranno sempre la meglio, perché “loro” sono “La Forza”. Al massimo ci potremo ritagliare delle vittorie di Pirro. L’ora d’aria dei detenuti, la boccata d’ossigeno di un momento, in parte conquistata e in parte elargita come estrema concessione.
Tra queste vittorie di Pirro annovero “la vittoria” di Genova. Amara perché non servirà a nulla. E perché proprio la “condanna dei dieci” alla fine mi toglie le parole e non mi fa vedere, all’orizzonte, risposte alla domanda (“che fare?”) che spontanea potrebbe sorgere dopo aver letto questo mio lungo intervento…
Francesco “baro” Barilli
Non so neppure io cosa sia... Sicuramente non un vuoto rito. Neppure “un dovere” (poca simpatia per ogni “dovere”, capitemi…). In mancanza di parole adatte lasciamo la frase così, incompiuta. Tanto le parole non aggiungono nulla: per tanti, l’ho detto, Genova è un trauma, uno spartiacque: loro sanno cosa significa “esserci” tutti gli anni a luglio, anche senza sintetizzarlo con un termine.
Il luglio 2012 finora è stato, metaforicamente, “caldo” e importante quanto quello del 2001. Sono arrivati a sentenza definitiva tre processi: Dopo De Gennaro e Diaz, la condanna a dieci manifestanti.
Sulla condanna ai dieci manifestanti è già stato scritto tutto.
- Sulla tipologia di reato (“devastazione e saccheggio”): che puzza di fascismo ed è spropositata.
- Sull’asimmetria delle pene inflitte ai manifestanti rispetto a quelle comminate alle forze dell’ordine in altri procedimenti (non solo genovesi): una sproporzione che rende “l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge” pura e vuota retorica.
- In particolare, sulle pene ai manifestanti: degne del codice fascista a cui il reato di “devastazione e saccheggio” è dovuto (codice a sua volta degno, del resto, del paese autoritario in cui viviamo).
Al netto di tutti i commenti possibili (e, sia chiaro, tutti quelli che ho sinteticamente ricordato sono sacrosanti), stiamo parlando della vita sconvolta a dieci persone (5 subito e 5 vedremo dopo il nuovo appello, che dovrà pronunciarsi solo sulle attenuanti, al massimo “limando” la pena) e ai loro cari. Non parliamo di astrazioni, ma di altre ferite, di esistenze violate: leggete quanto scrive Amal: nulla da aggiungere.
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Dunque, lentamente, Genova 2001 si sta avvicinando alla fine (nella sua dimensione processuale, intendo…).
Ho già detto altre volte che non penso che la risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. E non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col pallottoliere che tiene il conto di condanne e assoluzioni: i tribunali hanno detto anche altro…
Su Bolzaneto (dove la Cassazione non è ancora arrivata) nel marzo 2010 la sentenza di appello, seppure nella permanente impossibilità di parlare di tortura e in presenza di molti reati per cui è scattata la prescrizione, ha aumentato pene e risarcimenti, riconoscendo aggravanti specifiche come l’aver agito per motivi “futili e abietti”. Inutile aggiungere che è l’ignavia del mondo politico (trasversale e tutt’altro che recente) ad aver fatto sì che l’Italia sia ancora priva, a livello giuridico, di una specifica definizione del reato di tortura.
Sulla Scuola Diaz la sentenza definitiva (accantonando il discorso della bassa entità delle pene) è stata clamorosa: credo sia una novità assoluta, non solo per l’Italia, una condanna dei vertici della Polizia di uno Stato occidentale avvenuta in un “normale” processo penale. Inoltre è il caso di ricordare che i 93 presenti la notte del 21 luglio 2001 nella scuola erano stati a suo tempo prosciolti dal GIP dalle accuse a loro carico: associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio e resistenza aggravata. Oggi appare scontato e ridondante ricordarlo (qui andiamo alla “preistoria” dei processi su Genova: la sentenza del GIP se non sbaglio è del 2003), ma pure quel provvedimento ha contribuito a “fare la storia processuale” di Genova: senza quello probabilmente non ci sarebbe stato neppure il processo ai funzionari per la “macelleria messicana”.
Sui manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento.
Persino nel “processo ai 25” si possono trovare elementi positivi: per 15 dei 25 imputati l’impianto accusatorio della “devastazione e saccheggio” era crollato nei primi gradi di giudizio; e il tribunale ha riconosciuto a quegli imputati di aver reagito ad atti arbitrari di pubblici ufficiali, riconoscendo “illegittimo, ingiustificato e sproporzionato alla situazione” l’attacco al corteo di via Tolemaide del 20 luglio, da cui nacquero gli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani (certo: è scandaloso che da questo riconoscimento non sia nato né un processo per l’omicidio di Piazza Alimonda, né siano scaturite conseguenze positive per gli altri dieci imputati: perché la procura non ha proceduto contro i responsabili di quelle cariche, invece di incaponirsi contro i manifestanti?).
*****
Insomma: le sentenze, ferme restando le zone d’ombra (a cominciare dallo sconcerto per la scandalosa archiviazione per l’omicidio di Carlo) nel loro complesso dicono che “avevamo ragione noi”. Lo dicono brutalizzando il concetto, certo, ma anche ricordando che la risposta che DAVVERO NON E’ ARRIVATA è stata quella della politica: quella della magistratura, letta in filigrana, è – almeno “tecnicamente” – una vittoria.
Ma è una vittoria incompleta. E soprattutto amara. Vediamo perchè…
*****
Lo sapete, sono anarchico (intendendo l'anarchia, citando De Andrè, come una categoria dello spirito, che prescinde da rigide appartenenze o da logiche organizzative). Per me anarchia significa rifiuto del principio di autorità di un essere umano su un altro. Anarchico non è chi non accetta ordini (quella è caratteristica più o meno di tutti…) ma chi non concepirebbe darli…
Ritengo, quindi, che ogni forma di potere o di autorità sia una forma di controllo, subdolo o violento, sull’individuo (questo proprio in breve, eh…).
Preciso: non mi sfugge che anche dentro gli apparati dello Stato (e quindi dentro ai meccanismi del potere) esistono persone di spessore, di rigore morale, che credono davvero nello stato di diritto, convinti che quelle strutture a cui loro appartengono siano a servizio dei cittadini. Proprio la storia processuale di Genova, per fare solo un esempio, mi fa pensare al pm Enrico Zucca, senza il quale non si sarebbe ottenuta la sentenza Diaz. Non dimentico che proprio Zucca ha agito con scrupolo e professionalità, trovandosi ad affrontare ostacoli che, lungo il suo percorso, sono stati posti da altri apparati; ostacoli che in certi momenti si sono concretizzati non solo nel boicottaggio delle indagini, ma in attacchi anche personali nei confronti del pm. Guardo con stima e rispetto a un uomo come il dott. Zucca e so che non è un caso isolato, per fortuna.
Nonostante questo il mio giudizio sul potere e i suoi apparati è questo: un’oligarchia autonominatasi, che con giochi di prestigio costruisce attorno a sé un’aura di consenso e si puntella con strutture il cui unico compito è l’autoconservazione (autoconservazione del potere stesso, innanzitutto). Indipendentemente, cioè, dalla volontà dei cittadini, plagiata da quei “giochi di prestigio” o, alla peggio e quando serve, soggiogata; con le buone o con le cattive. Persino la forma della delega in politica è un orpello, una buccia che copre a malapena quei giochetti: grattata con l’unghia sparisce e resta quel nocciolo che si alimenta e perpetua.
I movimenti sociali agiscono in questo alveo. In dati momenti possono persino spaventare il potere: è quel che è successo a Genova; e la durezza della repressione è stata proporzionale alla paura che, almeno in prospettiva, il movimento destava nelle “stanze dei bottoni”.
Ora che quel movimento si è dissolto, anche la reazione civile di fronte a certe enormità, quali ad esempio la condanna ai dieci manifestanti di Genova, è solo una voce flebile. I riferimenti politici di quella stagione si sono dissolti; quel che ne rimane sembra il ribollire di frutta un po’ andata che vuole nobilitarsi in marmellata…
Per il potere la strategia più efficace non è tanto quella di vendere una proposta di mondo come fosse la migliore, ma evidenziare che non esistono alternative. Non è una cosa nuova, “there is no alternative”, diceva Tatcher, era un suo motto. Nella partita della contrapposizione di forze, “loro” avranno sempre la meglio, perché “loro” sono “La Forza”. Al massimo ci potremo ritagliare delle vittorie di Pirro. L’ora d’aria dei detenuti, la boccata d’ossigeno di un momento, in parte conquistata e in parte elargita come estrema concessione.
Tra queste vittorie di Pirro annovero “la vittoria” di Genova. Amara perché non servirà a nulla. E perché proprio la “condanna dei dieci” alla fine mi toglie le parole e non mi fa vedere, all’orizzonte, risposte alla domanda (“che fare?”) che spontanea potrebbe sorgere dopo aver letto questo mio lungo intervento…
Francesco “baro” Barilli
martedì 10 luglio 2012
Diaz, undici anni dopo: cose arrivate in ritardo e cose ancora da fare… E una speranza per dieci…
Ho aspettato qualche giorno a scrivere sulla sentenza di Cassazione sulla scuola Diaz: avrei voluto commentare, più che la sentenza (di cui, è chiaro, sono contento) le reazioni politiche, ma… queste non sono state molte: un segno dei tempi, su cui potremmo parlare a lungo; e soprattutto un segnale che mi rafforza in una personale convinzione: di fronte ai fatti di Genova la magistratura (pur con zone d’ombra su cui tornerò in seguito) ha dato le sue risposte, alcune addirittura clamorose. La politica al contrario non ha dato nulla, facendo una ben grama figura. E l’inerzia della politica non è, invece, segno dei tempi: parte da lontano… Come ho già avuto modo di scrivere, in quasi tutte le vicende che ho affrontato per reti-invisibili sono riscontrabili carenze (spesso qualcosa di ben peggiore) da parte della magistratura, ma niente paragonabile al “nulla sotto vuoto” della politica. E taccio di cose di cui già tante volte ho parlato in passato (le promozioni ai dirigenti, prima indagati e poi condannati; il rifiuto ad istituire una commissione d’inchiesta, anche durante il governo di centrosinistra; la mancata istituzione del reato di tortura e altro ancora…)
Ecco comunque alcune riflessioni sparse.
L’indipendenza della Magistratura
Undici anni sono tanti per un processo, per qualsiasi processo. Specie se si pensa che, lo dico per la Diaz ma vale pure per Bolzaneto, lo spettro della prescrizione ha depotenziato il risultato e rischiava di fare di peggio (ancora qualche mese…). E’ pacifico che qualche riflessione sui tempi della macchina della giustizia sarebbe doverosa, indipendentemente dal fatto che su Genova, e specialmente sulla Diaz, i tempi sono stati dilatati perché altri pezzi dello Stato hanno fatto di tutto per ostacolare o almeno rallentare (sempre nell’ottica di puntare alla prescrizione) i tempi della magistratura. E’ vero, inoltre, che non è possibile dare un giudizio univoco dei giudici genovesi: brucia ancora l’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, e siamo ancora in attesa della sentenza definitiva a carico di alcuni manifestanti (a cui dedicherò un capitolo a parte).
Fermo restando tutto questo la sentenza Diaz resta qualcosa di clamoroso. Anche perché proprio la strategia “ostruzionistica” messa in campo, fra indagini e processo, dalle forze dell’ordine ha portato ad un effetto paradossale quanto significativo: per una volta le condanne hanno risparmiato la “bassa manovalanza”, colpendo il vertice della catena di comando (fatta eccezione per De Gennaro e per i referenti politici). Insomma, al di là dell’importanza specifica sul “caso Genova” la sentenza Diaz (ma anche quella d’appello su Bolzaneto, nonché alcuni giudizi del tribunale su violenze ai manifestanti – piazza Manin, Via Barabino ecc) è paradigmatica di quanto sia importante l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato.
Come anarchico non sono particolarmente vicino a qualsivoglia forma di “potere” (tranquilli: non v’annoierò filosofeggiando su anarchia e “stato di diritto”), ma non mi sfugge che – dal fascismo a Berlusconi passando per la Loggia P2 – tutti i progetti autoritari (diversamente modulati, ovvio) avevano fra le priorità la subordinazione del potere giudiziario all’autorità politica. L’indipendenza della magistratura fa paura alla politica e agli altri apparati del potere: questo è uno dei tanti “insegnamenti” del processo Diaz; non il più importante, ma comunque da tenere ben presente.
L’azione civile delle vittime e dei comitati genovesi
Altro elemento che nella storia della Diaz mi ha fatto sentire particolarmente vivo il filo rosso che unisce molte, se non tutte, le vicende che seguo per reti-invisibili è l’azione dei comitati genovesi (Verità e Giustizia per Genova e Piazza Carlo Giuliani). Per Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia Georgofili, così come per casi “singoli” (Fausto e Iaio come Pinelli o Ilaria Alpi… e molti altri…) l’ammirevole impegno dei familiari delle vittime, nella quasi totale inerzia delle istituzioni, è una costante: senza di loro non si riuscirebbe a conquistare neppure un brandello di verità e giustizia.
Le deboli “scuse” di Manganelli e quelle ambigue di De Gennaro
Sia chiaro: c’è differenza fra le “scuse” di Manganelli e le parole di De Gennaro. Su quest’ultimo ha già detto tutto Lorenzo Guadagnucci e non aggiungo altro. Dico solo che le ambigue parole di De Gennaro sono riuscite persino a svilire le pallide, ma per certi versi apprezzabili, “scuse” di Manganelli.
Non è il caso di discutere sulla sincerità dell’attuale capo della polizia: questo attiene la sua coscienza. E pure il ricordare atteggiamenti passati di Manganelli ci porterebbe fuori strada: non dimentico certe frasi infelici (alcune gravi, espresse proprio verso i pm che indagavano sulla Diaz) e neppure che quella difesa “corporativa” e ostruzionistica dei funzionari di polizia va addebitata anche a lui (se non altro per il ruolo apicale che riveste da alcuni anni); ma ciò non toglie che proprio il suo ruolo apicale rende importante il gesto delle scuse.
Il vero punto è: ma di cosa chiede scusa?!
Perché, vedete, la mia impressione è che per Manganelli (ma così pure per molti commentatori, in buona o mala fede) tutto sia fermo a 11 anni fa; alle botte al plesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli; al massimo alle balle raccontate da agenti e funzionari per giustificare nell’immediato la “macelleria messicana” e per accusare i 90 e più fermati. Non è così: quanto accaduto è stato gravissimo, ma se le scuse sono rivolte, come credo, solo a quello non bastano. “Meglio di niente”, come si suol dire, ma gli undici anni trascorsi dalla notte cilena sembrano passati invano. Solo gesti concreti proiettati al futuro, tesi davvero a non far ripetere più quanto accaduto a Genova, servirebbero. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Su queste questioni Manganelli ha sempre taciuto, perdendo un’occasione irripetibile anche in occasione della Cassazione-Diaz: senza un serio impegno per il futuro la parola “scusa”, dopo un primo doveroso apprezzamento, resta una parola vuota (rischiando di diventare addirittura irridente)
Il timore che si voglia chiudere Genova con “un pareggio”
Il 13 luglio, quindi fra pochissimo, la Cassazione scriverà un’altra “parola definitiva” sui fatti di Genova. Stavolta alla sbarra sono dieci manifestanti, che rischiano davvero molto: il reato a cui sono stati condannati in appello (“devastazione e saccheggio”) è una fattispecie di reato che, dopo essere stata a lungo inutilizzata, è tornata d’attualità nell’intento di inasprire le sanzioni da comminare nei casi di disordini di piazza. Praticamente i dieci condannati sono stati trattati come fossero gli Unni di Attila: pene pesantissime, e stavolta, nel caso di conferma della sentenza, da scontare per intero: il salvagente della prescrizione e quello dei reati “individuati al ribasso” (paradigmatica la già menzionata mancata istituzione del reato di tortura, fondamentale – per gli agenti… – specialmente per Bolzaneto) non vale per i manifestanti… Checchino Antonini, con la consueta ruvida lucidità, ha scritto “dieci uomini e donne, che sembrano pescati nel mucchio tra i trecentomila dell'altromondo possibile, rischiano di pagare con un secolo di galera complessivo la straordinaria mobilitazione che tutta la società civile di allora mise in campo. All'indomani della sentenza sulle violenze inaudite all'interno della scuola Diaz, che ha decapitato la linea di comando della polizia di stato, si potrebbe verificare il paradosso che, per una vetrina rotta (di questo si tratta nel peggiore dei casi, o una bottiglia presa in un supermercato o una vespa presa per spostarsi dall'altra parte della città) si possano scontare da 8 a 15 anni di prigione, mentre per il massacro e l'arresto illegittimo di 92 persone inermi e innocenti non si sconta neppure un quarto d'ora di pena”: null’altro da aggiungere… Se non che quelle dieci persone non vanno lasciate sole: a tale proposito, vedere questo link.
Francesco “baro” Barilli
Ecco comunque alcune riflessioni sparse.
L’indipendenza della Magistratura
Undici anni sono tanti per un processo, per qualsiasi processo. Specie se si pensa che, lo dico per la Diaz ma vale pure per Bolzaneto, lo spettro della prescrizione ha depotenziato il risultato e rischiava di fare di peggio (ancora qualche mese…). E’ pacifico che qualche riflessione sui tempi della macchina della giustizia sarebbe doverosa, indipendentemente dal fatto che su Genova, e specialmente sulla Diaz, i tempi sono stati dilatati perché altri pezzi dello Stato hanno fatto di tutto per ostacolare o almeno rallentare (sempre nell’ottica di puntare alla prescrizione) i tempi della magistratura. E’ vero, inoltre, che non è possibile dare un giudizio univoco dei giudici genovesi: brucia ancora l’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, e siamo ancora in attesa della sentenza definitiva a carico di alcuni manifestanti (a cui dedicherò un capitolo a parte).
Fermo restando tutto questo la sentenza Diaz resta qualcosa di clamoroso. Anche perché proprio la strategia “ostruzionistica” messa in campo, fra indagini e processo, dalle forze dell’ordine ha portato ad un effetto paradossale quanto significativo: per una volta le condanne hanno risparmiato la “bassa manovalanza”, colpendo il vertice della catena di comando (fatta eccezione per De Gennaro e per i referenti politici). Insomma, al di là dell’importanza specifica sul “caso Genova” la sentenza Diaz (ma anche quella d’appello su Bolzaneto, nonché alcuni giudizi del tribunale su violenze ai manifestanti – piazza Manin, Via Barabino ecc) è paradigmatica di quanto sia importante l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato.
Come anarchico non sono particolarmente vicino a qualsivoglia forma di “potere” (tranquilli: non v’annoierò filosofeggiando su anarchia e “stato di diritto”), ma non mi sfugge che – dal fascismo a Berlusconi passando per la Loggia P2 – tutti i progetti autoritari (diversamente modulati, ovvio) avevano fra le priorità la subordinazione del potere giudiziario all’autorità politica. L’indipendenza della magistratura fa paura alla politica e agli altri apparati del potere: questo è uno dei tanti “insegnamenti” del processo Diaz; non il più importante, ma comunque da tenere ben presente.
L’azione civile delle vittime e dei comitati genovesi
Altro elemento che nella storia della Diaz mi ha fatto sentire particolarmente vivo il filo rosso che unisce molte, se non tutte, le vicende che seguo per reti-invisibili è l’azione dei comitati genovesi (Verità e Giustizia per Genova e Piazza Carlo Giuliani). Per Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia Georgofili, così come per casi “singoli” (Fausto e Iaio come Pinelli o Ilaria Alpi… e molti altri…) l’ammirevole impegno dei familiari delle vittime, nella quasi totale inerzia delle istituzioni, è una costante: senza di loro non si riuscirebbe a conquistare neppure un brandello di verità e giustizia.
Le deboli “scuse” di Manganelli e quelle ambigue di De Gennaro
Sia chiaro: c’è differenza fra le “scuse” di Manganelli e le parole di De Gennaro. Su quest’ultimo ha già detto tutto Lorenzo Guadagnucci e non aggiungo altro. Dico solo che le ambigue parole di De Gennaro sono riuscite persino a svilire le pallide, ma per certi versi apprezzabili, “scuse” di Manganelli.
Non è il caso di discutere sulla sincerità dell’attuale capo della polizia: questo attiene la sua coscienza. E pure il ricordare atteggiamenti passati di Manganelli ci porterebbe fuori strada: non dimentico certe frasi infelici (alcune gravi, espresse proprio verso i pm che indagavano sulla Diaz) e neppure che quella difesa “corporativa” e ostruzionistica dei funzionari di polizia va addebitata anche a lui (se non altro per il ruolo apicale che riveste da alcuni anni); ma ciò non toglie che proprio il suo ruolo apicale rende importante il gesto delle scuse.
Il vero punto è: ma di cosa chiede scusa?!
Perché, vedete, la mia impressione è che per Manganelli (ma così pure per molti commentatori, in buona o mala fede) tutto sia fermo a 11 anni fa; alle botte al plesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli; al massimo alle balle raccontate da agenti e funzionari per giustificare nell’immediato la “macelleria messicana” e per accusare i 90 e più fermati. Non è così: quanto accaduto è stato gravissimo, ma se le scuse sono rivolte, come credo, solo a quello non bastano. “Meglio di niente”, come si suol dire, ma gli undici anni trascorsi dalla notte cilena sembrano passati invano. Solo gesti concreti proiettati al futuro, tesi davvero a non far ripetere più quanto accaduto a Genova, servirebbero. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Su queste questioni Manganelli ha sempre taciuto, perdendo un’occasione irripetibile anche in occasione della Cassazione-Diaz: senza un serio impegno per il futuro la parola “scusa”, dopo un primo doveroso apprezzamento, resta una parola vuota (rischiando di diventare addirittura irridente)
Il timore che si voglia chiudere Genova con “un pareggio”
Il 13 luglio, quindi fra pochissimo, la Cassazione scriverà un’altra “parola definitiva” sui fatti di Genova. Stavolta alla sbarra sono dieci manifestanti, che rischiano davvero molto: il reato a cui sono stati condannati in appello (“devastazione e saccheggio”) è una fattispecie di reato che, dopo essere stata a lungo inutilizzata, è tornata d’attualità nell’intento di inasprire le sanzioni da comminare nei casi di disordini di piazza. Praticamente i dieci condannati sono stati trattati come fossero gli Unni di Attila: pene pesantissime, e stavolta, nel caso di conferma della sentenza, da scontare per intero: il salvagente della prescrizione e quello dei reati “individuati al ribasso” (paradigmatica la già menzionata mancata istituzione del reato di tortura, fondamentale – per gli agenti… – specialmente per Bolzaneto) non vale per i manifestanti… Checchino Antonini, con la consueta ruvida lucidità, ha scritto “dieci uomini e donne, che sembrano pescati nel mucchio tra i trecentomila dell'altromondo possibile, rischiano di pagare con un secolo di galera complessivo la straordinaria mobilitazione che tutta la società civile di allora mise in campo. All'indomani della sentenza sulle violenze inaudite all'interno della scuola Diaz, che ha decapitato la linea di comando della polizia di stato, si potrebbe verificare il paradosso che, per una vetrina rotta (di questo si tratta nel peggiore dei casi, o una bottiglia presa in un supermercato o una vespa presa per spostarsi dall'altra parte della città) si possano scontare da 8 a 15 anni di prigione, mentre per il massacro e l'arresto illegittimo di 92 persone inermi e innocenti non si sconta neppure un quarto d'ora di pena”: null’altro da aggiungere… Se non che quelle dieci persone non vanno lasciate sole: a tale proposito, vedere questo link.
Francesco “baro” Barilli
sabato 7 luglio 2012
Cose da fare, segnalazioni e cose da non dimenticare...
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Il 13 luglio io e Matteo Fenoglio saremo a Pinerolo, con Alessio Lega. Sotto, la locandina.
Il 20 luglio invece sarò a Genova... Ma questo credo che chi legge questo blog lo immaginasse già... Sotto, la locandina: l'illustrazione è di Manuel De Carli.
Il 13 luglio io e Matteo Fenoglio saremo a Pinerolo, con Alessio Lega. Sotto, la locandina.
Il 20 luglio invece sarò a Genova... Ma questo credo che chi legge questo blog lo immaginasse già... Sotto, la locandina: l'illustrazione è di Manuel De Carli.
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