Ho letto diversi commenti sul fallimento elettorale della Sinistra
Arcobaleno e sul conseguente dibattito interno a Rifondazione Comunista.
Un affollarsi di contributi contrastanti, uniti da quella che sembra
essere una regola dell’analisi politica: parlare nell’immediatezza dei
fatti. Personalmente ho preferito attendere qualche giorno; un po’ per
una sorta di “elaborazione del lutto”, un po’ per evitare che
impulsività o sconforto prendessero il sopravvento.
Sul fallimento
elettorale in sé resta poco da dire. Il rifiuto del progetto Sinistra
Arcobaleno è emerso inconfutabile; per le sue dimensioni e per i tempi
rapidissimi in cui si è consumato (non ricordo un’emorragia di consensi
tanto vasta consumarsi in così pochi mesi). Sono però rimasto colpito
negativamente più dal dopo elezioni che dal risultato nudo e crudo. Ho
trovato le dichiarazioni della maggior parte dei responsabili di
Rifondazione segnate da grande confusione, come se il KO elettorale li
avesse storditi fino a togliergli lucidità e capacità di analisi.
“Grande è la confusione sotto il cielo”, direbbe qualcuno, ma a smentire
l’aforisma la situazione è tutt’altro che eccellente.
I primi
commenti successivi al disastro del 14 aprile imputavano la disfatta al
PD e alla fretta con cui si era avviato il processo unitario. Il primo
punto lo trovo paradossale. Se Veltroni ha cercato (e ottenuto) voti a
sinistra è perché il suo progetto è stato ritenuto più efficace e
convincente di quello della Sinistra. Chiedersi se questa efficacia sia
vera o solo percepita è inutile, serve solo a ribaltare il vero nodo del
problema, perchè stava a noi dimostrare la nostra efficacia. E
lamentarsi del ruolo dei media è ancora più sterile: il mondo
dell’informazione non ci ha certo voltato le spalle da ieri, ma nella
stagione di Genova eravamo perdenti politicamente ma convincenti (se non
vincenti) culturalmente, seppur non godendo di grandi attenzioni da
parte di tv e giornali. Sulla perdita dei “nostri” voti (il virgolettato
è intenzionale) a vantaggio di PD, astensionismo e persino Lega, credo
inoltre che per un buon inizio di analisi si potrebbe smettere di
parlare di “nostro” elettorato. Non esiste più: a sinistra la gente non
se la sente di consegnare un mandato in bianco ai propri referenti
politici, perché da tempo si sono rotti i meccanismi di rappresentanza e
appartenenza, fra la base e i vertici della sinistra.
Il secondo
punto (la fretta con cui si era avviato il processo unitario) è
evaporato talmente in fretta che non vale la pena ribattere. Ormai la
Sinistra Arbobaleno sembra il cugino scemo di cui tutti si vergognano,
ma che fino a ieri ci accompagnava mentre noi sorridevamo di fronte alle
sue stramberie. Vale la pena sottolineare che il “nuovo soggetto
politico unitario” non ha entusiasmato nessuno non perché sia stato
fatto in fretta, ma per come è stato proposto: imposto dall’alto, senza
alcun processo partecipativo, e per di più venduto come un’esigenza
dettata dalla storia o – peggio – “ciò che ci chiede la nostra gente”.
Spariti, o almeno affievoliti, quei primi abbozzi di analisi, è partito
il confronto interno al partito. Ho seguito il dibattito emerso
nell’ultimo comitato politico di Rifondazione, che ha portato a una
contrapposizione fra Ferrero e Giordano, alle dimissioni della
segreteria e al varo di un congresso cui si arriverà con posizioni allo
stato indefinite, stante la fluidità della situazione del partito,
sicuramente non riassumibile con la sola contrapposizione bipolare cui
accennavo, che sembra anzi assai provvisoria. La sensazione più
dolorosa, per me, è stata quella di una distanza incolmabile, come se la
falce elettorale avesse tagliato orizzontalmente il partito. Mentre la
testa si dibatte, la coda soffre di un dolore incompreso o comunque
“diverso” da quello percepito dal vertice. Due sofferenze distanti,
nello stesso corpo.
Una riflessione che propongo, a tutti quelli che
in questi anni hanno condiviso le speranze (magari non il percorso) del
partito, è il chiedersi se davvero la base riesca a cogliere reali e
fondamentali differenze tra Giordano e Ferrero. A questa domanda
andrebbe collegata un’altra: se il linguaggio stesso che viene usato non
venga ormai percepito come testimonianza di una distanza tra pensiero e
azione, tra speranze e realizzazioni pratiche. Tra cuore e ragione.
Nel periodo elettorale ho sentito ripetere come un mantra “nuovo
soggetto politico unitario e plurale”. Oggi, forse, i più hanno capito
che non funzionava, che al nord gli operai magari restano iscritti alla
Fiom, ma votano Lega. Ma anche chi l’ha capito sembra alla ricerca di un
altro mantra, senza riuscire a trovarlo. La semantica sa essere
spietata: quando è bulimica, assieme alle idee divora le parole stesse.
Una precisazione: non m’interessa minimamente partecipare a un
dibattito da “notte dei lunghi coltelli”, e so benissimo che i mass
media marceranno su questo binario fino a luglio, ben oltre la pur dura
realtà interna del partito. Alimentare le maliziose pruderie
dell’informazione non mi attira. Capisco dunque chi chiede di non
personalizzare il dibattito con critiche a Bertinotti o ad altri
dirigenti, che suonerebbero ingenerose. Il rischio, effettivamente,
esiste; ma credo non ci sia nulla di personale nel ricordare la
solidarietà espressa a Ferrara, il “processo irreversibile” del percorso
unitario, il comunismo come “tendenza culturale” interna alla Sinistra.
Si tratta di affermazioni di contenuto (e nel criticarle non c’è nulla
di personale) che, assieme alla sciagurata linea politica (oscillante
negli ultimi anni tra opposizione e governismo, transitando per
movimentismo, e arrivando alla sintesi “di lotta e di governo” che ha
saputo svuotare entrambi i termini) hanno portato alla crisi attuale. E
preferisco non riesumare, sfogliando gli archivi di Liberazione, le
imbarazzanti dichiarazioni di piccoli dirigenti che, allevati e
cresciuti nel culto della fedeltà alla linea bertinottiana, hanno
costruito carriere veloci e brillanti come bolle di sapone, e della
stessa consistenza.
Condivido in gran parte la severa analisi di
Franco Berardi Bifo su Liberazione del 18 aprile. La trovo però, più
che troppo apocalittica, troppo astratta. Non credo, cioè, sia inutile
ricostruire la sinistra; ritengo invece doveroso che la sinistra riparta
da zero, assumendosi la responsabilità di proporre un’alternativa di
società che sia basata non su slogans (evocativi quanto privi di
sostanza), ma su un agire concreto. Per questo è necessario
riallacciarsi ai movimenti, ma non (come giustamente rilevato da Bifo)
in modo parassitario, per carpirne emotivi e temporanei consensi
elettorali, ma per interrogarsi assieme ad essi su concrete pratiche che
incidano sul sociale.
Abbiamo chiari i concetti di crescita, decrescita e “a-crescita”? Sappiamo trasmetterli in modo efficace?
Sappiamo rispondere a pulsioni securitarie o addirittura razziste senza
demonizzare il concetto di sicurezza, ma al contrario formulando una
proposta “nostra” di sicurezza, necessariamente saldata a principi di
giustizia sociale?
Abbiamo chiaro il ruolo di poteri e istituzioni?
Sappiamo interagire con essi senza rinunciare alla nostra identità e
senza per questo chiuderci in astrazioni? Sappiamo, in altre parole,
utilizzare poteri e istituzioni come un mezzo?
Abbiamo una politica energetica che non sia succube degli interessi economici ma che sappia essere concreta?
Ci lamentiamo (a ragione, s’intende) della cancellazione di “Bella
Ciao” dal 25 aprile, ma capiamo che quella cancellazione è figlia
dell’assenza di una nostra proposta culturale che sia percepita valida e
attuale? Capiamo che se la nostra presenza è ritenuta residuale diventa
residuale o inattuale il concetto stesso di antifascismo? E, con questa
deriva, diventano inattuali “Bella Ciao” e la Resistenza stessa, mentre
il cancro del fascismo viene circoscritto pressochè alle sole leggi
razziali? Capiamo, per usare un paradosso, che i libri di Pansa hanno
successo perché noi non abbiamo saputo difendere i nostri o scriverne
nuovi?
Capiamo il valore simbolico di indire il prossimo congresso
in giorni coincidenti con l’anniversario del G8 genovese, o vogliamo
usare la circostanza come un esorcismo scaramantico?
Abbiamo scritto belle analisi sul precariato, recensito libri e film che ne parlano. Ma sappiamo parlare ai precari?
Capiamo, in buona sostanza, che non si tratta di far tornare “gli ultimi” dalla nostra parte, ma di tornare noi verso di loro?
So bene che tutti questi argomenti meriterebbero una trattazione ben
più approfondita, e che le ragioni della nostra sconfitta si intrecciano
con altre: dalla devastante esperienza di governo a considerazioni, di
natura ormai quasi antropologica, sull’involuzione della società e
dell’elettorato italiani. Ma partire da quelle domande mi sembrerebbe un
buon inizio. Così come sarebbe utile parlare non di azzeramento dei
dirigenti, ma di azzeramento del dirigismo. Che è operazione più
complessa, ma ormai imprescindibile.