Caro Calabresi,
ho letto da qualche settimana il suo libro, “Spingendo la notte più in là”,
e volevo comunicarle alcune riflessioni. Innanzitutto una precisazione,
che è corretto esporle subito affinché non si disperda fra le righe e
perché non resti fra noi il velo dell’incomprensione. Ho 42 anni, non ho
vissuto direttamente i fatti di cui le parlerò; conosco Licia Pinelli e ho seguito il caso del marito per passione civile, cercando di tenermi lontano da tentazioni manichee.
Vengo
ora al suo libro. Se è un racconto sul dolore personale,
sull’elaborazione del lutto resa ancora più faticosa dalla giovanissima
età che lei aveva quando suo padre fu ucciso, il suo è un bel libro. Se è
la ricostruzione di una parte della storia d’Italia (ripeto: di una
parte, per di più filtrata dalla sua soggettività) è un lavoro
dignitoso, che si confronta con i limiti di una rappresentazione
parziale, valida nella misura in cui quei limiti li ammette con
franchezza. Se pretende di essere “la” ricostruzione dei nostri anni ’70
il valore è ancora inferiore.
Non credo che
quest’ultima opzione fosse il suo intento, ma di fatto è quel che si è
concretizzato sui media. Un’operazione negativa, e lei – anche
riconoscendole di non avervi partecipato volontariamente – non può
sentirsi escluso dalle responsabilità, essendo persona consapevole delle
dinamiche dei media. Non può sottrarsi al ruolo assegnatole di
depositario di una verità costretto a rimuoverne un’altra.
Prima
di leggere il suo libro mi era capitato di vederla un paio di volte in
televisione. In entrambe le occasioni ha speso parole belle ma
“scivolose” su Pino Pinelli, come se la storia
dell’anarchico precipitato dalla questura milanese la notte del 15
dicembre ’69 fosse rimasta impigliata alla vicenda di suo padre per un
caso o per le bizze della storia. Leggendo il suo racconto speravo di
trovare qualcosa di diverso, ma sono rimasto deluso. I toni sono rimasti
partecipi, ma così pure l’atteggiamento sbrigativo, quasi da “è tutto
chiaro, passiamo ad altro”, verso una questione che resta irrisolta, al
di là della famosa sentenza D’Ambrosio che attribuì
quella morte ad un malore con slancio attivo. Glielo dico perché,
indipendentemente da quel che si può pensare delle conclusioni del
magistrato, il caso Pinelli non lo si può cristallizzare nell’istante
della precipitazione da quella finestra. Esistono un prima e un dopo, e
forse l’errore di questi 39 anni è stato concentrarsi su quel singolo
istante senza saperlo o volerlo contestualizzare.
Non
vorrei essere frainteso, dunque preciso pure il superfluo: la campagna
contro suo padre fu quanto di più sbagliato si possa immaginare, nei
toni e nei contenuti. Sbagliata eticamente, intellettualmente e
politicamente, perché finì col cementare l’opinione pubblica in una
contrapposizione in cui interrogarsi se suo padre fosse o meno l’unico
responsabile della morte di Pinelli, o se fosse o meno presente
nell’istante della precipitazione. Si personalizzò una campagna di
stampa che trascese nei modi e nei tragici effetti, perdendo di vista la complessità della situazione e i reali obbiettivi di verità cui si doveva aspirare.
Lei
potrà obbiettare che la verità la si raggiunse con la sentenza del
1975, in cui D’Ambrosio salomonicamente escluse l’omicidio come il
suicidio. Strano paese, l’Italia: dove speso la magistratura viene
accusata di ingerenze nella vita pubblica, per poi delegarle
acriticamente la ricerca della verità, dimenticando che solo scopo
dell’azione giudiziaria è l’accertamento dei fatti nei loro aspetti
penalmente rilevanti. I giudici non sono i sacerdoti della verità, ne
sono i meccanici: assegnargli un ruolo salvifico significa caricare la
loro coscienza di un peso insopportabile, col solo effetto di sgravare
la nostra.
Quel che è in discussione non è tanto
la sentenza (su cui ho i miei dubbi, ma parlarne risulterebbe
dispersivo) quanto la sua effettiva portata, perché la vicenda Pinelli
comincia prima di quell’ultimo interrogatorio e finisce dopo. Comincia
con un fermo di polizia svoltosi in termini e modi contrari alla legge
(e questo lo conferma pure la sentenza, pur se disponendo il
proscioglimento del dottor Allegra perché il reato si era nel frattempo
estinto per intervenuta amnistia). Termina con una campagna diffamatoria
verso la vittima, di cui si volle sostenere il suicidio e il
coinvolgimento nella strage di piazza Fontana. Queste
due menzogne, acclarate anche in sede giudiziaria, furono portate avanti
nell’immediatezza dei fatti e per diverso tempo in seguito, se non col
consenso almeno con l’acquiescenza di suo padre.
So
che quest’ultima affermazione può averla ferita: mi creda, non era mia
intenzione. Così pure non è mia volontà tentare una sgradevole
graduatoria d’importanza o di gravità fra quelle due campagne
denigratorie (subite da suo padre e da Pinelli), ma va sottolineato che a
quella contro Luigi Calabresi parteciparono
intellettuali e artisti, a quella contro il ferroviere anarchico
partecipò lo Stato, e forse per questo è stata rimossa dalla memoria
collettiva. Riconoscere e ricordare il fiume di fango versato su Pinelli
e sugli anarchici sarebbe stato da parte sua un gesto non solo nobile,
ma pure utile e particolarmente significativo.
Caro
Calabresi, in precedenza le dicevo di averla vista in televisione in un
paio di occasioni. Una di queste fu lo speciale di Ballarò sugli anni
’70, lo scorso 23 gennaio. Oltre alle testimonianze in studio, nel corso
della trasmissione fu mostrato un filmato che ripercorreva le tragedie
di quel periodo. Qui, l’amara sorpresa: nessuna menzione per Varalli, Zibecchi, Brasili… Neppure per Roberto Franceschi,
che proprio 35 anni prima, il 23 gennaio 1973, fu colpito mortalmente
dalle forze dell’ordine al termine di una contestata assemblea del
movimento studentesco. Una sentenza civile del 1999, superando un muro
di omertà e falsità, affermò con chiarezza le responsabilità della
polizia, escludendo l’uso legitimo delle armi. In quella puntata di
Ballarò, se non altro per la coincidenza temporale, mi sarei aspettato
una citazione almeno del caso Franceschi. Così non è stato.
Sia
chiaro: non si tratta di considerare i morti come pesi da buttare sui
piatti della bilancia per raggiungere l’equilibrio, e neppure di
contrapporre lutti ad altri lutti. In altre parole, non vorrei un
Ballarò “compensativo”: la storia non la si fa con un macabro
pallottoliere, e cercare oggi il punto d’equilibrio su quella bilancia è
operazione antistorica e pericolosa. Credo però sia altrettanto
pericoloso rimuovere dalla storia d’Italia il fatto che le lotte sociali
– da Portella delle Ginestre alla fine degli anni ’70 – hanno prodotto un enorme tributo di tragedie.
Per
vicissitudini personali ho avuto modo di ascoltare le storie di molti
parenti di quelle vittime. Ho letto i loro racconti, ho raccolto memorie
di dolori ed esperienze. Sono molte le cose che ho trovato in comune;
alcune riguardano la dimensione collettiva, altre quella personale. Fra
queste, il timore che quelle vicende finiscano nella pattumiera della
storia, dimenticate o riscritte in modo sciatto o strumentale.
Nel
suo libro lei lamenta la mancanza di un luogo dove la memoria delle
tragedie degli anni ’70 sia conservata, arrivando ad essere condivisa e –
di conseguenza – sintomo di vera pacificazione nazionale. In quella sua
ipotesi di luogo della memoria resterebbero però esclusi i Franceschi,
Varalli, Zibecchi, i morti di Avola, quelli di Reggio Emilia
e molti altri, di cui non fa menzione. Si tratterebbe di una sorta di
operazione che ricalca quella intrapresa in Sudafrica senza saperne
ripercorrere il percorso (tortuoso e faticoso, ma anche il solo che
sappia portare a un risultato, tenendosi lontano dalle tentazioni di
scorciatoie), di una memoria strabica e incompleta. E una memoria
parziale è destinata a rimuoverne altre. Ricordo cosa scrisse Ferdinando Camon:
“quando le tragedie della storia si confondono e il ragazzo interrogato
a scuola nel datare un avvenimento sbaglia di tre secoli, vuol dire che
non fanno più male: che ci siano state o non ci siano state non fa
nessuna differenza”.
Caro Calabresi, credo che
la notte, prima di spingerla più in là e dirsi pronti a un nuovo giorno,
la si debba capire, senza ricordarne solo quella parte di oscurità che
ha sconvolto la nostra vita. Questa è la riflessione che le chiedo di
fare e la saluto cordialmente, nella speranza di una sua risposta.
Francesco “baro” Barilli