Alcuni giorni fa m’è capitato di assistere ad un dibattito televisivo su
La7. Non l’ho guardato a lungo, giusto dieci minuti e a trasmissione
già in corso. Nel momento in cui ho acceso la televisione stava parlando
Piero Sansonetti. Il direttore di Liberazione, in sintesi, diceva che
reputava poco interessante la discussione circa la riforma della
giustizia. Inoltre, replicando probabilmente a una tesi proposta
precedentemente, sosteneva che gli apparivano più gravi gli attacchi
portati al sindacato, in particolar modo alla CGIL, da chi ne sostiene
l’inutilità o la dannosità.
A questo punto interveniva Filippo
Facci, giornalista de Il Giornale e, da quanto ho capito, collaboratore
di Mediaset. Per riportare la discussione sul tema della giustizia,
apriva il suo intervento dicendo che la presenza anche solo di un
cittadino innocente in galera a causa di storture del sistema
giudiziario gli pareva insopportabile e, soprattutto, motivo sufficiente
per ritenere che la riforma fosse priorità assoluta.
Raramente mi
sono trovato così combattuto di fronte ad una frase. In linea di
principio, quella di Facci è un’affermazione ineccepibile, da
sottoscrivere pienamente. Al limite se ne potrebbe discutere in termini
filosofici: la giustizia umana è ben diversa da quella divina (per chi
crede in quest’ultima) e non può prescindere da un tasso fisiologico di
fallibilità. Questo però non toglie che la presenza in carcere di
innocenti (cui aggiungerei le persone in attesa di giudizio) è cosa
intollerabile. In fondo, l’unica e vera e fondamentale barriera fra
garantismo e giustizialismo sta nel valutare i due pericoli fondamentali
dell’amministrazione della legge (mandare in galera un innocente o
lasciar libero un colpevole) ritenendo più grave il primo, in quanto
comporta un danno irrisarcibile per chi vi è coinvolto. Inoltre, la
consapevolezza di quanto sia inevitabile quel tasso di fallibilità non
rende vana la ricerca di ogni mezzo affinché la “macchina giustizia”
proceda nel modo più imparziale possibile, confinando la possibilità di
errori ai soli limiti della natura umana, e non a vizi insiti nel
sistema o a sperequazioni del giudizio.
Ferme restando queste
riflessioni, non posso nascondere che se a parlarmi di una necessità
della riforma della giustizia è il centrodestra mi viene più di un
dubbio, e non si tratta di pregiudizi.
Mesi fa ho intervistato il padre di Giuseppe Bianzino.
Chi propone oggi la riforma della giustizia pensa, come me, che suo
figlio in carcere non solo non doveva morirci, ma neppure finirci? Pensa
sia necessario provvedere alla depenalizzazione di certi reati o crede
si debbano perseguire, ad esempio, i writers? Che opinioni ha del reato
di devastazione e saccheggio o del principio della compartecipazione
psichica (reato e principio utilizzati dalla magistratura per i fatti di
Genova 2001 o quelli di Milano dell’11 marzo 2006)? Un elenco
tutt’altro che esaustivo, potrei proseguire a lungo: si tratta di
domande a mio avviso fondamentali, ma allo stato totalmente rimosse dal
confronto “riforma sì – riforma no” che si è acceso in merito all’azione
della magistratura.
Tutto questo, ripeto, non inficia
l’enunciazione di principio avanzata da Facci in quella trasmissione
televisiva. Resta però l’impressione che dietro il dibattito sulla
necessità di una riforma della magistratura stiano semplicemente
esigenze di controllo di uno dei poteri dello Stato, nell’intento di
sottoporre la giustizia ad una supervisione (nel migliore dei casi) o ad
un controllo subordinato (nel peggiore) che non la renderanno più equa,
ma solo meno indipendente. In quest’ottica è interessante chiedersi se
la presenza di un innocente in galera sia davvero inaccettabile, o se lo
diventi in base a specificità dell’arrestato o a contingenze politiche
del momento.
Francesco “baro” Barilli