mercoledì 30 aprile 2014
mercoledì 16 aprile 2014
Gipi e il premio Strega: perché sì, perché no
Di quanto stimo Gipi ho parlato poche volte, e ho solo accennato a quanto m’è piaciuto il suo ultimo libro, “unastoria” (vedi qui e qui). Provo a parlarne ancora a seguito del dibattito nato dopo la sua candidatura al Premio Strega.
Un dibattito valido, ben argomentato da entrambe le parti. In coda al mio intervento trovate i links più interessanti, pressochè tutti caratterizzati da un’alta considerazione dell’ultimo lavoro di Gianni e più in generale della sua produzione artistica (segnalo in particolare l’articolo di Matteo Stefanelli).
Si possono trovare elementi condivisibili in entrambi i lati delle “barricate”, pro e contro la candidatura allo Strega del fumetto di Gipi. Da un lato la questione viene posta a livello di pertinenza, come correttamente sintetizza Stefanelli: non si tratta di stabilire se il fumetto sia “più alto o più basso” della letteratura (o di altro mezzo espressivo artistico, aggiungo - e mi sono già trovato in passato a difendere la dignità del mezzo-fumetto), ma più semplicemente di essere consapevoli che il fumetto ha peculiarità artistiche “altre” – né superiori né inferiori, appunto – rispetto a letteratura, teatro, cinema e via di seguito. Dall’altro lato, si sottolinea che un riconoscimento così autorevole può fare bene all'ambiente nostrano della nona arte (e alla sua percezione diffusa) e che accostare “unastoria” a un romanzo non è certo azzardato.
Come accennavo, è difficile dire che solo una delle due opinioni sia valida. E per dirla tutta non credo neppure sia così importante: ancora una volta mi trovo d’accordo con l’analisi più articolata fra quelle formulate, quella già citata di Stefanelli.
Mi permetto dunque di aggiungere solo alcuni elementi di riflessione.
1. A memoria ricordo alcuni casi in cui il fumetto era già entrato nel “salotto buono della cultura”. Il premio Pulitzer a Spiegelman per Maus, i riconoscimenti giornalistici a Sacco, la menzione di Watchmen fra i 100 migliori romanzi in lingua inglese nella lista di Time, tanto per citarne tre. Non ho trovato però, tra i molti articoli spulciati sul dibattito “Gipi-Strega”, menzioni su quale sia la prassi in altri paesi. In Francia (per fare l’esempio di un Paese assai più avanti del nostro a livello di considerazione riservata al fumetto) come si comportano? Sarebbe possibile che un racconto a fumetti entrasse fra i candidati di un premio letterario? La domanda, preciso, non ha intenti polemici, è una “domanda pura” (non ne conosco cioè la risposta) che ha una sua relazione coi punti seguenti.
2. Chi mi conosce sa che nei miei interventi cito spesso De Andrè: per me, un maestro di vita prima che un grande artista. Scusatemi, sarà mania o deformazione mentale, ma ne parlo pure oggi. Perché la discussione nata (Strega o non Strega? Un fumetto può essere considerato romanzo?) m’ha fatto venire in mente quanto si è detto sovente dell’opera di De Andrè: canzone o poesia?
Il cantautore genovese spesso liquidava la questione con una battuta/citazione (“Benedetto Croce diceva che fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”). Se però si ha la pazienza di ripercorrere quanto da lui raccontato a proposito del proprio lavoro (consiglio: De Andrè talk, a cura di Claudio Sassi e Walter Pistarini, Coniglio Editore) noteremo che De Andrè era consapevole della complessità compositiva della sua opera. Che si basava su un mix straordinario di capacità poetica, conoscenza della tecnica musicale (per nulla statica: fu costante la sua ricerca di nuove sonorità, la sua alternanza di arrangiamenti semplici con altri più elaborati e ”raffinati”), consapevolezza delle sue doti vocali (una voce di non grande estensione ma calda ed evocativa, come lui stesso la definiva, che sapeva far cadere o “scivolare” a seconda dell’intensità che intendeva imprimere in un dato momento a ogni canzone). Insomma, è vero che molte sue canzoni possono essere tranquillamente lette come poesie, ma per lui la musica non era semplice ornamento del testo. Versi e musica si fondevano nelle sue creazioni bilanciandosi e valorizzandosi gli uni con l’altra, creando qualcosa che non era poesia e non pretendeva di essere nulla di “più alto” o “più basso” della poesia, ma semplicemente il SUO modo di esprimersi, di fare vibrare delle coscienze. Esattamente come fanno i testi e i disegni di Gipi…
3. Ho già scritto in altre occasioni che non sono tanto preoccupato dalla scarsa considerazione riservata al fumetto in Italia, quanto dalla scarsa considerazione riservata in generale alla cultura, qui da noi. Se fosse migliore la seconda, anche la prima ne gioverebbe.
4. Se la più importante manifestazione fumettistica italiana assomiglia sempre di più a una sagra di paese, va da sé che i premi fumettistici nostrani risentiranno dell’effetto citato dai creatori di Don Zauker (“cazzatelle per ragazzini o per adulti rincoglioniti”). Forse, più che discutere di Gipi allo Strega, si dovrebbe ragionare su come conferire importanza culturale ai riconoscimenti che già esistono nel campo fumettistico, cercando di mutarne una percezione che, quella sì, al fumetto non fa certo bene…
Francesco “baro” Barilli
Leggi anche:
Gipi, lo Strega, e i paradossi del fumetto impertinente
Una graphic novel al premio Strega ha senso? Forse no
Gipi contro la Strega
Gipi al premio Strega: sì o no?
Un dibattito valido, ben argomentato da entrambe le parti. In coda al mio intervento trovate i links più interessanti, pressochè tutti caratterizzati da un’alta considerazione dell’ultimo lavoro di Gianni e più in generale della sua produzione artistica (segnalo in particolare l’articolo di Matteo Stefanelli).
Si possono trovare elementi condivisibili in entrambi i lati delle “barricate”, pro e contro la candidatura allo Strega del fumetto di Gipi. Da un lato la questione viene posta a livello di pertinenza, come correttamente sintetizza Stefanelli: non si tratta di stabilire se il fumetto sia “più alto o più basso” della letteratura (o di altro mezzo espressivo artistico, aggiungo - e mi sono già trovato in passato a difendere la dignità del mezzo-fumetto), ma più semplicemente di essere consapevoli che il fumetto ha peculiarità artistiche “altre” – né superiori né inferiori, appunto – rispetto a letteratura, teatro, cinema e via di seguito. Dall’altro lato, si sottolinea che un riconoscimento così autorevole può fare bene all'ambiente nostrano della nona arte (e alla sua percezione diffusa) e che accostare “unastoria” a un romanzo non è certo azzardato.
Come accennavo, è difficile dire che solo una delle due opinioni sia valida. E per dirla tutta non credo neppure sia così importante: ancora una volta mi trovo d’accordo con l’analisi più articolata fra quelle formulate, quella già citata di Stefanelli.
Mi permetto dunque di aggiungere solo alcuni elementi di riflessione.
1. A memoria ricordo alcuni casi in cui il fumetto era già entrato nel “salotto buono della cultura”. Il premio Pulitzer a Spiegelman per Maus, i riconoscimenti giornalistici a Sacco, la menzione di Watchmen fra i 100 migliori romanzi in lingua inglese nella lista di Time, tanto per citarne tre. Non ho trovato però, tra i molti articoli spulciati sul dibattito “Gipi-Strega”, menzioni su quale sia la prassi in altri paesi. In Francia (per fare l’esempio di un Paese assai più avanti del nostro a livello di considerazione riservata al fumetto) come si comportano? Sarebbe possibile che un racconto a fumetti entrasse fra i candidati di un premio letterario? La domanda, preciso, non ha intenti polemici, è una “domanda pura” (non ne conosco cioè la risposta) che ha una sua relazione coi punti seguenti.
2. Chi mi conosce sa che nei miei interventi cito spesso De Andrè: per me, un maestro di vita prima che un grande artista. Scusatemi, sarà mania o deformazione mentale, ma ne parlo pure oggi. Perché la discussione nata (Strega o non Strega? Un fumetto può essere considerato romanzo?) m’ha fatto venire in mente quanto si è detto sovente dell’opera di De Andrè: canzone o poesia?
Il cantautore genovese spesso liquidava la questione con una battuta/citazione (“Benedetto Croce diceva che fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”). Se però si ha la pazienza di ripercorrere quanto da lui raccontato a proposito del proprio lavoro (consiglio: De Andrè talk, a cura di Claudio Sassi e Walter Pistarini, Coniglio Editore) noteremo che De Andrè era consapevole della complessità compositiva della sua opera. Che si basava su un mix straordinario di capacità poetica, conoscenza della tecnica musicale (per nulla statica: fu costante la sua ricerca di nuove sonorità, la sua alternanza di arrangiamenti semplici con altri più elaborati e ”raffinati”), consapevolezza delle sue doti vocali (una voce di non grande estensione ma calda ed evocativa, come lui stesso la definiva, che sapeva far cadere o “scivolare” a seconda dell’intensità che intendeva imprimere in un dato momento a ogni canzone). Insomma, è vero che molte sue canzoni possono essere tranquillamente lette come poesie, ma per lui la musica non era semplice ornamento del testo. Versi e musica si fondevano nelle sue creazioni bilanciandosi e valorizzandosi gli uni con l’altra, creando qualcosa che non era poesia e non pretendeva di essere nulla di “più alto” o “più basso” della poesia, ma semplicemente il SUO modo di esprimersi, di fare vibrare delle coscienze. Esattamente come fanno i testi e i disegni di Gipi…
3. Ho già scritto in altre occasioni che non sono tanto preoccupato dalla scarsa considerazione riservata al fumetto in Italia, quanto dalla scarsa considerazione riservata in generale alla cultura, qui da noi. Se fosse migliore la seconda, anche la prima ne gioverebbe.
4. Se la più importante manifestazione fumettistica italiana assomiglia sempre di più a una sagra di paese, va da sé che i premi fumettistici nostrani risentiranno dell’effetto citato dai creatori di Don Zauker (“cazzatelle per ragazzini o per adulti rincoglioniti”). Forse, più che discutere di Gipi allo Strega, si dovrebbe ragionare su come conferire importanza culturale ai riconoscimenti che già esistono nel campo fumettistico, cercando di mutarne una percezione che, quella sì, al fumetto non fa certo bene…
Francesco “baro” Barilli
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Gipi, lo Strega, e i paradossi del fumetto impertinente
Una graphic novel al premio Strega ha senso? Forse no
Gipi contro la Strega
Gipi al premio Strega: sì o no?
mercoledì 9 aprile 2014
Piazza della Loggia: le domande non fatte al generale Delfino
Con ritardo ho letto questa intervista di Stefania Limiti a Francesco Delfino.
Preciso subito che questo mio articolo è rivolto a chi già conosce, almeno per sommi capi, l’intricata vicenda giudiziaria della strage di Brescia, impossibile da riassumere qui e da me già più volte affrontata.
L’articolo di Limiti è datato 18 febbraio. E’ dunque precedente la sentenza di Cassazione del 21 febbraio, che ha annullato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte e comporterà un nuovo processo d’appello a carico dei due imputati. Una decisione importante che, come ho scritto in altro intervento, sembra sottolineare (si devono attendere le motivazioni e l’esito del nuovo processo) le responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo nel Veneto, di cui Maggi era capo indiscusso, e pure di apparati dello stato (Tramonte era la “fonte Tritone” del Sid).
Ma parliamo dell’intervista a Delfino, capitano dei carabinieri all’epoca dei fatti, protagonista delle prime indagini, imputato e assolto nell’ultimo processo. L’ex ufficiale dice in sostanza di credere ancora alla “pista Buzzi” (ossia alle indagini da lui condotte, che portarono alla prima istruttoria per la strage). Ma soprattutto afferma che già all’epoca delle proprie ricerche sospettò che dietro al “gruppo Buzzi” potesse celarsi l’eversione neofascista organizzata, in particolar modo veneta. Stefania Limiti ricorda che l’ex ufficiale fece affermazioni di analogo contenuto già nella sua audizione alla Commissione parlamentare sulle stragi nel 1997.
Mi permetto dunque di aggiungere alcune domande che potevano essere poste all’interessato. Il quale, se vorrà, potrà rispondere. I miei quesiti sono assai articolati, ma in una storia complessa come quella della strage di Brescia rinunciare alla sintesi giornalistica mi sembra necessario.
Spero che qualcuno possa fare arrivare le domande all’ex generale. E’ possibile che scelga (legittimamente, s’intende) di non rispondere. In ogni caso, a volte il senso di una narrazione può essere reso tanto dalle risposte date quanto da quelle sottaciute.
Domanda 1:
Generale Delfino, nell’intervista afferma che la “pista veneta” fu intuita già all’epoca delle indagini da lei condotte. Dice che a questa pista foste portati dall’allora principale imputato Ermanno Buzzi e ricorda che già ai funerali di Silvio Ferrari erano presenti molti neofascisti veronesi. In realtà la sua indagine portò ad addebitare la strage a soggetti che con la stessa nulla avevano a che fare, con la possibile eccezione di Buzzi. Un impalcato accusatorio complessivo, dall’ideazione all’esecuzione della strage, stridente con le sue attuali affermazioni. Perché dunque insistette nelle indagini a carico del solo “gruppo Buzzi”?
Domanda 2:
Nell’articolo di Stefania Limiti l’autrice la descrive “soddisfatto per la definitiva assoluzione sancita dalla Corte d’appello di Brescia nell’aprile del 2012”. In realtà i giudici d’appello, pur confermando l’assoluzione di primo grado, pronunciano nei suoi confronti dure critiche. Accennano a una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)”, ma quella “spregiudicata attività investigativa … che ha poi finito per inquinarne le risultanze probatorie” sarebbe addebitabile, oltre che a lei, ai primi magistrati. Emblematico, questo passaggio: “quelle dichiarazioni accusatorie e autoaccusatorie pronunciate da Angiolino Papa non furono frutto dell’esclusivo intervento abusivamente esercitato dal cap. Delfino … Era stato il giudice istruttore che, violando la legge, aveva ordinato l’isolamento in carcere di Angelo Papa, il quale, invece, per la strage non era ancora stato inquisito”. Come risponde a queste critiche? Inoltre, alla luce delle sue recenti affermazioni su una sua “intuizione” della “pista veneta”, sorge spontanea un’altra domanda: lei, all’epoca di quelle prime indagini, condivise con i magistrati i suoi sospetti circa le (sintetizzo dalla sua audizione in comm. stragi) “due diverse configurazioni nell'attentato, quella di chi voleva lo scherzo ai rossi … e quella di chi invece … ha voluto la strage”?
Domanda 3:
La sentenza del 14 aprile 2012 attesta le responsabilità di Ordine Nuovo del Veneto, o perlomeno di schegge residue di quel gruppo (ricordiamo che lo scioglimento di ON fu disposto il 23 novembre 1973 dal ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani), indicando in particolare responsabilità di Carlo Digilio e Marcello Soffiati (entrambi deceduti). Responsabilità specifiche che potrebbero essere arricchite nella “gerarchia” ordinovista dal futuro processo a carico di Maggi e Tramonte. Ma pure riguardo i depistaggi il dibattimento bresciano ha lasciato elementi su cui riflettere. Ne affrontiamo solo quello relativo al fondamentale appunto informativo del SID di Padova, redatto in base a dichiarazioni fornite da Tramonte e confluito nella velina n. 4873 dell’8 luglio 1974. In questo documento Tramonte parla, fra le altre cose, di una riunione tenutasi il 25 maggio a casa di Giangastone Romani. Ebbene, nel Rapporto Investigativo Speciale sottoscritto dal Ten. Col. Manlio del Gaudio il 7 giugno si riporta: “gli sbandati di Ordine Nuovo, secondo una indiscrezione trapelata localmente, stanno dando vita ad una nuova organizzazione dalle due facce: una palese, sotto forma di circoli culturali l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dar vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”. Un testo che rispecchia quasi letteralmente il contenuto del monologo tenuto da Maggi il 25 maggio 1974, così come riferito da Tramonte nella citata velina. Sembrerebbe dunque che quanto raccontato dalla “fonte Tritone”, indipendentemente dalla sua fondatezza, fosse noto al centro di controspionaggio di Padova sin dai giorni immediatamente successivi all’attentato. Lei, generale Delfino, sarebbe stato territorialmente competente a svolgere gli approfondimenti suggeriti dall’appunto. Nessuna indagine risulta però compiuta da lei in questa direzione: fu mai informato (da Del Gaudio o da altri) di tali circostanze?
Domanda 4:
Dopo le sentenze lei ha rilasciato dichiarazioni alla stampa, mentre durante il processo ha scelto di non deporre in aula. Una legittima scelta di qualsiasi imputato, ma che desta perplessità quando adottata da chi, come lei, è stato “uomo delle istituzioni” e pertanto dovrebbe sentire il dovere di collaborare con la magistratura. Perplessità che aumentano pensando proprio alle sue valutazioni che accrediterebbero la “pista veneta”, che come già detto lei sostiene di avere intuito in tempi lontani. Come spiega la sua scelta – ripeto: formalmente legittima – di non testimoniare in aula?
Francesco “baro” Barilli
Preciso subito che questo mio articolo è rivolto a chi già conosce, almeno per sommi capi, l’intricata vicenda giudiziaria della strage di Brescia, impossibile da riassumere qui e da me già più volte affrontata.
L’articolo di Limiti è datato 18 febbraio. E’ dunque precedente la sentenza di Cassazione del 21 febbraio, che ha annullato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte e comporterà un nuovo processo d’appello a carico dei due imputati. Una decisione importante che, come ho scritto in altro intervento, sembra sottolineare (si devono attendere le motivazioni e l’esito del nuovo processo) le responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo nel Veneto, di cui Maggi era capo indiscusso, e pure di apparati dello stato (Tramonte era la “fonte Tritone” del Sid).
Ma parliamo dell’intervista a Delfino, capitano dei carabinieri all’epoca dei fatti, protagonista delle prime indagini, imputato e assolto nell’ultimo processo. L’ex ufficiale dice in sostanza di credere ancora alla “pista Buzzi” (ossia alle indagini da lui condotte, che portarono alla prima istruttoria per la strage). Ma soprattutto afferma che già all’epoca delle proprie ricerche sospettò che dietro al “gruppo Buzzi” potesse celarsi l’eversione neofascista organizzata, in particolar modo veneta. Stefania Limiti ricorda che l’ex ufficiale fece affermazioni di analogo contenuto già nella sua audizione alla Commissione parlamentare sulle stragi nel 1997.
Mi permetto dunque di aggiungere alcune domande che potevano essere poste all’interessato. Il quale, se vorrà, potrà rispondere. I miei quesiti sono assai articolati, ma in una storia complessa come quella della strage di Brescia rinunciare alla sintesi giornalistica mi sembra necessario.
Spero che qualcuno possa fare arrivare le domande all’ex generale. E’ possibile che scelga (legittimamente, s’intende) di non rispondere. In ogni caso, a volte il senso di una narrazione può essere reso tanto dalle risposte date quanto da quelle sottaciute.
Domanda 1:
Generale Delfino, nell’intervista afferma che la “pista veneta” fu intuita già all’epoca delle indagini da lei condotte. Dice che a questa pista foste portati dall’allora principale imputato Ermanno Buzzi e ricorda che già ai funerali di Silvio Ferrari erano presenti molti neofascisti veronesi. In realtà la sua indagine portò ad addebitare la strage a soggetti che con la stessa nulla avevano a che fare, con la possibile eccezione di Buzzi. Un impalcato accusatorio complessivo, dall’ideazione all’esecuzione della strage, stridente con le sue attuali affermazioni. Perché dunque insistette nelle indagini a carico del solo “gruppo Buzzi”?
Domanda 2:
Nell’articolo di Stefania Limiti l’autrice la descrive “soddisfatto per la definitiva assoluzione sancita dalla Corte d’appello di Brescia nell’aprile del 2012”. In realtà i giudici d’appello, pur confermando l’assoluzione di primo grado, pronunciano nei suoi confronti dure critiche. Accennano a una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)”, ma quella “spregiudicata attività investigativa … che ha poi finito per inquinarne le risultanze probatorie” sarebbe addebitabile, oltre che a lei, ai primi magistrati. Emblematico, questo passaggio: “quelle dichiarazioni accusatorie e autoaccusatorie pronunciate da Angiolino Papa non furono frutto dell’esclusivo intervento abusivamente esercitato dal cap. Delfino … Era stato il giudice istruttore che, violando la legge, aveva ordinato l’isolamento in carcere di Angelo Papa, il quale, invece, per la strage non era ancora stato inquisito”. Come risponde a queste critiche? Inoltre, alla luce delle sue recenti affermazioni su una sua “intuizione” della “pista veneta”, sorge spontanea un’altra domanda: lei, all’epoca di quelle prime indagini, condivise con i magistrati i suoi sospetti circa le (sintetizzo dalla sua audizione in comm. stragi) “due diverse configurazioni nell'attentato, quella di chi voleva lo scherzo ai rossi … e quella di chi invece … ha voluto la strage”?
Domanda 3:
La sentenza del 14 aprile 2012 attesta le responsabilità di Ordine Nuovo del Veneto, o perlomeno di schegge residue di quel gruppo (ricordiamo che lo scioglimento di ON fu disposto il 23 novembre 1973 dal ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani), indicando in particolare responsabilità di Carlo Digilio e Marcello Soffiati (entrambi deceduti). Responsabilità specifiche che potrebbero essere arricchite nella “gerarchia” ordinovista dal futuro processo a carico di Maggi e Tramonte. Ma pure riguardo i depistaggi il dibattimento bresciano ha lasciato elementi su cui riflettere. Ne affrontiamo solo quello relativo al fondamentale appunto informativo del SID di Padova, redatto in base a dichiarazioni fornite da Tramonte e confluito nella velina n. 4873 dell’8 luglio 1974. In questo documento Tramonte parla, fra le altre cose, di una riunione tenutasi il 25 maggio a casa di Giangastone Romani. Ebbene, nel Rapporto Investigativo Speciale sottoscritto dal Ten. Col. Manlio del Gaudio il 7 giugno si riporta: “gli sbandati di Ordine Nuovo, secondo una indiscrezione trapelata localmente, stanno dando vita ad una nuova organizzazione dalle due facce: una palese, sotto forma di circoli culturali l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dar vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”. Un testo che rispecchia quasi letteralmente il contenuto del monologo tenuto da Maggi il 25 maggio 1974, così come riferito da Tramonte nella citata velina. Sembrerebbe dunque che quanto raccontato dalla “fonte Tritone”, indipendentemente dalla sua fondatezza, fosse noto al centro di controspionaggio di Padova sin dai giorni immediatamente successivi all’attentato. Lei, generale Delfino, sarebbe stato territorialmente competente a svolgere gli approfondimenti suggeriti dall’appunto. Nessuna indagine risulta però compiuta da lei in questa direzione: fu mai informato (da Del Gaudio o da altri) di tali circostanze?
Domanda 4:
Dopo le sentenze lei ha rilasciato dichiarazioni alla stampa, mentre durante il processo ha scelto di non deporre in aula. Una legittima scelta di qualsiasi imputato, ma che desta perplessità quando adottata da chi, come lei, è stato “uomo delle istituzioni” e pertanto dovrebbe sentire il dovere di collaborare con la magistratura. Perplessità che aumentano pensando proprio alle sue valutazioni che accrediterebbero la “pista veneta”, che come già detto lei sostiene di avere intuito in tempi lontani. Come spiega la sua scelta – ripeto: formalmente legittima – di non testimoniare in aula?
Francesco “baro” Barilli
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