Quando ho scritto questo articolo
non era ancora stata diffusa la lettera che Vincenzo Canterini ha
inviato agli uomini del Reparto mobile condannati, come lui, per i fatti
della Diaz. Una lettera intrisa di retorica, inquietante, ricca di
messaggi ambigui. Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica del 15 novembre, ha
giustamente parlato di “una rivendicazione di uno spirito di corpo
omertoso”.
Più interessante della lettera è l’intervista che
Canterini ha concesso a Carlo Bonini (sempre su Repubblica del 15
novembre). In questa occasione il poliziotto che al G8 guidava il VII
Reparto mobile ribadisce concetti già espressi in un’altra intervista
(pure questa su Repubblica, 15 giugno 2007): riconosce la violenza
dell’irruzione, parla espressamente di “macellai di quella notte”,
rinnova il concetto di “macedonia di polizia” operante nella scuola, ma
esclude responsabilità proprie e degli uomini ai suoi ordini. Ormai
credo sia chiaro che l’atteggiamento di Canterini nel corso del
processo, decisamente più ciarliero (fuori e dentro l’aula) di altri
imputati, fosse il tentativo di allargare il cerchio delle
responsabilità, in modo che non ricadessero esclusivamente sui propri
uomini.
Spiego dunque meglio la mia impressione sulla sentenza, con cui ho chiuso l’altro articolo.
Al di là di una difesa corporativa “a 360 gradi”, credo che la
strategia delle forze dell’ordine fosse quella di identificare da subito
“i sacrificabili”, ossia quegli elementi per cui si poteva accettare
una condanna, in modo da accontentare, almeno parzialmente, l’opinione
pubblica e contemporaneamente salvaguardare l’immagine complessiva della
polizia. Una strategia ovviamente più articolata, ma che
sostanzialmente si proponeva in prima battuta di portare a casa il
massimo risultato, e in subordine di potersi allineare alla parola
d’ordine “il pestaggio è stato opera di pochi esaltati, i quali per di
più hanno saputo ingannare i vertici della Polizia”. Canterini non
sembra accontentarsi di questo esito.
La frattura, o per lo meno la
contraddizione, aperta all’interno delle forze dell’ordine non è
certamente l’elemento più interessante emerso dal processo Diaz, ma
sarebbe errato liquidarlo come cosa che non ci riguarda. Essa attiene, è
vero, unicamente a rapporti di forza interni agli apparati dello Stato,
che nulla hanno a che vedere con sincere autocritiche circa la gestione
dell’ordine pubblico a Genova, ma andrebbe evidenziata maggiormente: da
una piccola fessura, a volte, può nascere una crepa più vistosa.
Nel frattempo, anche Manganelli scrive: sembra che la tentazione
ciarliera sia venuta a molti, dopo sette anni di silenzio. Una lettera,
quella dell’attuale capo della Polizia, di poco migliore di quella di
Canterini (ma che a mio avviso parte anche dalle provocazioni di
quest’ultimo), in cui unico elemento blandamente positivo è una
dichiarazione di intenti, un mettersi genericamente a disposizione “su
quel che realmente accadde a Genova … nelle sedi istituzionali e
costituzionali”. Affermazione che causa un certo stupore (evidentemente
il tribunale non è stato ritenuto, per sette lunghi anni, sede
“istituzionalmente e costituzionalmente” corretta per l’accertamento
della verità su quei giorni, o almeno sulla Diaz) e che, pur essendo di
una vaghezza sconcertante, ha già portato al plauso di Veltroni. Il
leader del PD, con lo stesso spirito critico di uno zerbino, si affida
anima e corpo alle assicurazioni del capo della Polizia, testimoniando
ancora una volta lo stato di totale sudditanza della politica rispetto
ai vertici delle forze dell’ordine.
Se Manganelli volesse davvero
dare un segnale positivo a quanti sono rimasti scandalizzati
dall’operato delle forze dell’ordine a Genova, potrebbe molto
semplicemente esprimersi pubblicamente su questioni concrete. Potrebbe,
ad esempio, dire la sua opinione su proposte che da tempo sono state
sollevate, in primo luogo dai due Comitati (“Verità e Giustizia per
Genova” e “Piazza Carlo Giuliani”) che da anni si adoperano affinché la
memoria di Genova non cada nel dimenticatoio. Solo per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale delle forze dell'ordine circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine
pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una
moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Il giorno in cui sentiremo
Manganelli esprimersi su queste proposte potremo parlare davvero di un
segno concreto. Fino ad allora l’entusiasmo frettoloso di Veltroni
sembrerà solo un gioco delle parti in cui il leader del PD e il capo
della polizia si spalleggiano l’un l’altro, nel tentativo di
accontentare l’opinione pubblica con asserzioni di principio che
resteranno vuote e prive di sbocchi pratici.
Francesco “baro” Barilli
mercoledì 19 novembre 2008
venerdì 14 novembre 2008
Sentenza Diaz: un commento e un particolare
Ho sentito accomunare la sentenza sulla scuola Diaz a quella su Bolzaneto, con giudizi analogamente severi. In realtà mi sembra miope accomunare i due esiti in una valutazione negativa di uguale livello. La sentenza su Bolzaneto, pur con molte ombre, riconosceva in sostanza la gravità dei fatti, condannando la figura apicale (Antonio Biagio Gugliotta, l'ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma) con motivazioni nette. Indipendentemente da considerazioni sulle assoluzioni emerse anche in quel contesto o sulla lieve entità delle pene comminate, si scelse almeno di prescindere dalla logica delle “poche mele marce”. Nel giudicare la notte alla scuola Diaz il tribunale di Genova si è comportato in modo molto peggiore: che il verdetto abbia tracciato una così netta linea di demarcazione fra vertici decisionali e “manovalanza” è davvero sconcertante e avvilente.
Il verdetto Diaz è funzionale alla strategia messa in campo in questi anni dalle forze dell’ordine e da quei politici autonominatisi loro difensori “a prescindere”. Per la vicenda delle due molotov, falsamente prodotte come prove, sono condannati l’autista e il primo a farsene carico (Burgio e Troiani). Già l’anello successivo, il vice questore Bernardini, è assolto: pur potendolo considerare una figura non elevata, nella catena degli eventi costituiva un tramite troppo pericoloso verso livelli più alti. In altre parole, dovendo tranciare la linea decisionale che porta le due molotov, di mano in mano, all’interno dell’edificio, si è scelto di usare la forbice nel punto più basso possibile. Spingerla di poco più su avrebbe prodotto una catena di conseguenze difficile da arginare. Sostanzialmente, nell’affrontare la vicenda della costruzione delle prove false a carico dei presenti alla Diaz, i vertici delle forze dell’ordine si sono trovati di fronte a due alternative: riconoscersi complici di un gesto ignobile e illegale oppure passare per incompetenti. Hanno scelto la seconda opzione, e a questo punto il triste balletto delle due bottiglie, da Troiani in poi, diventa farsesco, potendolo definire criminale (stando alla sentenza) solo al livello più basso.
Passando all’altro nucleo di condannati (ossia il gruppo del reparto mobile di Canterini e del suo vice dell’epoca, Fournier, e relativi sottoposti) già molti hanno notato che la loro condanna equivale ad addebitare le violenze solo alla “mano pesante” degli agenti. Giusto e condivisibile, ma vorrei sottolineare un’altra particolarità. Fournier e Canterini sono due dei pochi imputati (anzi, se non ricordo male gli unici) a non essersi sottratti al processo, scegliendo di non avvalersi della facoltà di non rispondere e affrontando il confronto in aula. Canterini fu pure l’unico (vedi Ansa 11 febbraio 2003) a schierarsi a favore di una commissione d’inchiesta parlamentare. Fournier divenne famoso per aver riconosciuto la violenza dell’irruzione, coniando l’ormai famosa definizione di “macelleria messicana”, ed è anche uno dei pochi fra i protagonisti della Diaz a non essere stato promosso ma, al contrario, retrocesso a mansioni più umili (stando ad una notizia riportata dall’Espresso lo scorso ottobre).
Sia chiaro: non è necessario credere che questi distinguo siano ascrivibili a nobili intenti. Forse potrebbero essere stati solo il tentativo di approcciarsi diversamente al processo, nell’intento di allargare il cerchio delle responsabilità, stemperando così quelle personali (in questo senso Canterini fu molto chiaro in un’intervista concessa a Repubblica il 15 giugno 2007). Che l’atteggiamento di Canterini e Fournier, diverso da quello degli altri imputati, sia dovuto a motivazioni etiche o pratiche poco conta (in ogni caso si tratta di scelte legittime). Ma è inquietante notare come l’essersi discostati dalla linea di totale silenzio e totale omertà scelta dagli altri imputati (e avallata ad altissimi livelli) abbia avuto riflessi negativi per i diretti interessati. Il sospetto di una sentenza scritta da tempo, e in altro luogo rispetto al tribunale di Genova, a questo punto diventa davvero forte.
Francesco “baro” Barilli
Il verdetto Diaz è funzionale alla strategia messa in campo in questi anni dalle forze dell’ordine e da quei politici autonominatisi loro difensori “a prescindere”. Per la vicenda delle due molotov, falsamente prodotte come prove, sono condannati l’autista e il primo a farsene carico (Burgio e Troiani). Già l’anello successivo, il vice questore Bernardini, è assolto: pur potendolo considerare una figura non elevata, nella catena degli eventi costituiva un tramite troppo pericoloso verso livelli più alti. In altre parole, dovendo tranciare la linea decisionale che porta le due molotov, di mano in mano, all’interno dell’edificio, si è scelto di usare la forbice nel punto più basso possibile. Spingerla di poco più su avrebbe prodotto una catena di conseguenze difficile da arginare. Sostanzialmente, nell’affrontare la vicenda della costruzione delle prove false a carico dei presenti alla Diaz, i vertici delle forze dell’ordine si sono trovati di fronte a due alternative: riconoscersi complici di un gesto ignobile e illegale oppure passare per incompetenti. Hanno scelto la seconda opzione, e a questo punto il triste balletto delle due bottiglie, da Troiani in poi, diventa farsesco, potendolo definire criminale (stando alla sentenza) solo al livello più basso.
Passando all’altro nucleo di condannati (ossia il gruppo del reparto mobile di Canterini e del suo vice dell’epoca, Fournier, e relativi sottoposti) già molti hanno notato che la loro condanna equivale ad addebitare le violenze solo alla “mano pesante” degli agenti. Giusto e condivisibile, ma vorrei sottolineare un’altra particolarità. Fournier e Canterini sono due dei pochi imputati (anzi, se non ricordo male gli unici) a non essersi sottratti al processo, scegliendo di non avvalersi della facoltà di non rispondere e affrontando il confronto in aula. Canterini fu pure l’unico (vedi Ansa 11 febbraio 2003) a schierarsi a favore di una commissione d’inchiesta parlamentare. Fournier divenne famoso per aver riconosciuto la violenza dell’irruzione, coniando l’ormai famosa definizione di “macelleria messicana”, ed è anche uno dei pochi fra i protagonisti della Diaz a non essere stato promosso ma, al contrario, retrocesso a mansioni più umili (stando ad una notizia riportata dall’Espresso lo scorso ottobre).
Sia chiaro: non è necessario credere che questi distinguo siano ascrivibili a nobili intenti. Forse potrebbero essere stati solo il tentativo di approcciarsi diversamente al processo, nell’intento di allargare il cerchio delle responsabilità, stemperando così quelle personali (in questo senso Canterini fu molto chiaro in un’intervista concessa a Repubblica il 15 giugno 2007). Che l’atteggiamento di Canterini e Fournier, diverso da quello degli altri imputati, sia dovuto a motivazioni etiche o pratiche poco conta (in ogni caso si tratta di scelte legittime). Ma è inquietante notare come l’essersi discostati dalla linea di totale silenzio e totale omertà scelta dagli altri imputati (e avallata ad altissimi livelli) abbia avuto riflessi negativi per i diretti interessati. Il sospetto di una sentenza scritta da tempo, e in altro luogo rispetto al tribunale di Genova, a questo punto diventa davvero forte.
Francesco “baro” Barilli
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