lunedì 1 dicembre 2014

Grillo e Petacco, lasciate stare almeno Matteotti…

Ecco l’articolo completo, pubblicato oggi in versione sintetica su popoffquotidiano.it col titolo “Grillo e Petacco alla ricerca del Mussolini buono”

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In questi giorni ha fatto discreto rumore un articolo apparso sul blog di Beppe Grillo, in cui in sostanza si afferma l’estraneità di Mussolini al delitto Matteotti. Si tratta di un’intervista ad Arrigo Petacco, disponibile qui:

All’articolo, per quanto mi risulta, sono seguite critiche sacrosante quanto vaghe. Sacrosante perché si pensava che il revisionismo storico non arrivasse a tanto; vaghe perché nessuno – a quanto ho potuto leggere – si è preso la briga di rispondere puntualmente alle numerose inesattezze contenute nell’intervista.
E’ vero, si tratta di un fatto molto datato (l’omicidio avvenne il 10 giugno 1924), ma di cui è necessario mantenere una corretta memoria, trattandosi di un momento fondamentale nella storia d’Italia per diversi motivi:
- Non credo esistano molti casi, in Italia o altrove, in cui il capo dell’opposizione parlamentare (o almeno il leader più combattivo dell’opposizione) sia stato eliminato da sicari riconducibili, al di là di responsabilità specifiche di Mussolini che poi affronteremo, direttamente al presidente del consiglio e ad alti dirigenti del suo stesso partito.
- Il caso Matteotti è stato l’unico episodio a seguito del quale, per almeno 6 mesi, il governo fascista vacillò seriamente. Sembrò persino che il regime potesse crollare… L'opposizione scelse di lasciare il Parlamento, con la cosiddetta secessione dell'Aventino. I liberali confidavano in una mossa del Re che non arrivò. I cattolici erano ostili ai fascisti ma diffidenti verso socialisti e comunisti. La scelta dell’Aventino si rivelò sterile e il midollo marcio di questo Paese fece il resto… Successivamente, dopo la svolta dittatoriale che trova origine nel celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 e concretizzazione nelle seguenti e cosiddette “leggi fascistissime”, il regime si mantenne saldo fino ai tragici fatti della seconda guerra mondiale e alla sua conseguente caduta (che qui non dettaglieremo).

Dunque, avviso tutti e tutte che questo articolo sarà lungo e risentirà, comunque, di molta sintesi: abbandoni la lettura fin d’ora chi vorrebbe vedere una replica a Petacco (e Grillo) sotto la forma di un arguto tweet…

Qualche dato per iniziare

- Il fascismo, arrivato in parlamento per la prima volta con le elezioni del 1921, giunse al potere a seguito della marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Su questo episodio va sottolineato che le squadre fasciste non avrebbero avuto possibilità di sconfiggere una reale opposizione da parte dell’esercito, qualora fosse stata disposta. La vera forza del fascismo, in questa come in altre occasioni, fu determinata dagli appoggi politici ed economici di cui già disponeva: gran parte del mondo imprenditoriale e finanziario e pure dell’esercito guardavano con favore al movimento fascista. Obbiettivo di Mussolini era causare la caduta del governo, in quel momento presieduto da Luigi Facta, proponendosi al sovrano quale unica possibile soluzione della crisi. Dopo che Antonio Salandra, la mattina del 29 ottobre 1922, rinunciò all’incarico di primo ministro, il Re disse a De Vecchi (un quadrumviro, ossia fra i capi operativi della marcia) di informare Mussolini, in quel momento ancora a Milano, che avrebbe avuto l’incarico di formare il nuovo esecutivo: in questa fase fu un governo di coalizione, sostenuto anche da esponenti di altre aree politiche.

- Per fare chiarezza sulle principali formazioni di sinistra di quegli anni: il Partito Comunista Italiano sorse nel 1921 a Livorno per “scissione di sinistra” del Partito Socialista; un anno dopo, nell’ottobre 1922, da una nuova frattura nacque il Partito Socialista Unitario a cui aderirono fra gli altri Filippo Turati e Matteotti, che venne nominato segretario. Matteotti, arrivato in Parlamento la prima volta nel 1919 e rieletto nel 1921, nel 1924 era dunque al suo terzo mandato.

- Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si svolsero secondo la cosiddetta "legge Acerbo" (legge 18 novembre 1923 n. 2444), fortemente voluta da Mussolini stesso. In base a tale normativa, se una lista avesse ottenuto la maggioranza relativa raggiungendo almeno il 25% dei consensi si vedeva assegnati i 2/3 dei seggi. I rimanenti venivano attribuiti alle altre liste in proporzione ai voti ottenuti. Nella lista nazionale, oltre al partito fascista, confluirono esponenti liberali e popolari filofascisti. Si trattava di un cartello elettorale a forte prevalenza fascista (è infatti noto anche come listone Mussolini) ideato per blindare, unitamente alla legge Acerbo, il responso delle urne a favore del fascismo. Il risultato elettorale, al di là delle denuncie di violenze e intimidazioni, fu schiacciante. La lista nazionale ottenne più del 60% dei suffragi, staccando pesantemente il partito popolare fermo al 9%. Il neonato partito socialista unitario di Matteotti si fermò al 5,90%.

- Con un celebre intervento alla Camera, il 30 maggio 1924, Matteotti denunciò il clima di violenze e intimidazioni in cui si erano svolte le elezioni, chiedendone in sostanza l’annullamento. Il 10 giugno successivo fu rapito e ucciso.

L’omicidio e la “Ceka fascista”

La squadra era composta da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. In realtà su numero e composizione del commando ci sono versioni contrastanti. Altri soggetti furono fermati nell’immediatezza del fatto, risultando però estranei all’azione, perlomeno nelle fasi esecutive di rapimento e omicidio. Interessante, fra gli altri, è la figura di Otto Thierschwald: detenuto fino a pochi giorni prima del delitto, fu rilasciato ed ebbe da Dumini l’incarico di pedinare Matteotti e di studiarne comportamenti e orari, a dimostrazione dell’attenta premeditazione.

Ma Dumini poteva disporre in autonomia di decisioni operative gravi come l’aggressione al principale esponente dell’opposizione? Questa domanda ci porta alla cosiddetta “Ceka fascista”.
Ceka è la sigla con cui era nota la polizia segreta sovietica. Sembra che Mussolini abbia usato, almeno informalmente, lo stesso nome per identificare questo nucleo segreto che doveva garantirgli, con azioni coperte, il mantenimento del potere appena conquistato. Obbiettivo del duce era con ogni probabilità incanalare e gestire in modo più sottile lo squadrismo, ponendolo sotto suo completo e diretto controllo. La Ceka, di cui Mussolini negò l’esistenza nel celebre discorso del 3 gennaio 1925, era già operativa prima del delitto Matteotti.
Secondo alcune fonti Mussolini sollecitò direttamente l’intervento della banda Dumini per “punire” il segretario socialista: l’affermazione è presente sul sito del ministero dell’interno nella sua scheda sul dopoguerra “La storia - Il primo dopoguerra e il pericolo fascista”, paragrafo “Dalla CEKA fascista all'OVRA”, ma in forma vaga: “Si dice che Mussolini, profondamente irritato dal discorso di Matteotti alla Camera, esclamasse: Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell'uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare... ". Sempre qui si sostiene che “la Ceka fascista non fu, comunque, una struttura sofisticata e professionale ma poco più che una squadraccia di bravi di regime, che si resero protagonisti di violenze di basso livello, fino ad incappare per eccesso di zelo, approssimazione e gratuita brutalità ‘nell'incidente Matteotti’, che rischiò di travolgere Mussolini”.
Per ulteriori approfondimenti segnalo “La polizia del duce al servizio del crimine”, articolo di Silvio Bertoldi sul Corriere della Sera del 25 luglio 1994: anche qui viene riportata come certa la frase del duce, che in altre fonti viene riferita a un colloquio avvenuto fra Mussolini e Giovanni Marinelli. Quest’ultimo, segretario amministrativo del partito e depositario dei fondi, sarebbe stato il referente diretto della Ceka, assieme a Cesare Rossi (capo ufficio stampa della presidenza del consiglio).
Sottoposti a interrogatori dopo il delitto, di questa polizia clandestina parlarono esplicitamente Filippo Filippelli (direttore del Corriere Italiano: procurò la Lancia Lambda usata per il sequestro) e Aldo Finzi (sottosegretario agli Interni e vice capo della Polizia).
Da citare è pure una lettera che Emilio De Bono (ex quadrumviro e all’epoca capo della polizia) inviò a Italo Balbo e altri camerati il 24 giugno 1924, citata in “Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino” di Giuseppe Rossini (Società Editrice Il Mulino, 1966). Il tono accorato della lettera, confidenziale e destinata a restare riservata, e la sua datazione (precedente le accuse per il delitto che investiranno pure De Bono) rendono il documento molto interessante.
“Dumini io lo volevo perseguire fin da quando fece, o meglio tentò, la vendita di armi alla Jugoslavia. Subito dopo le elezioni … dissi a Mussolini: dì a Rossi che mandi fuori dai coglioni Dumini. Anche per Volpi dissi cento volte di farlo arrestare … ma non vi riuscii mai”. Al di là dell’intento chiaramente autoassolutorio, sono parole chiarissime: il capo della polizia lamenta di non poter perseguire due delinquenti a causa dell’altissimo livello di protezione politica di cui godono.
In un passaggio successivo De Bono si difende dall’accusa di non aver fatto arrestare subito Rossi: “Non potevo arrestarlo, perché non dovevo dimenticare che egli dipendeva direttamente dal presidente del consiglio, che sapeva tutto e che avrebbe saputo darmene l’ordine…”. Tanto perché sia chiaro chi comandava e quali erano le reali gerarchie sotto il regime…
Ancora più interessante è la versione che De Bono fornisce di un incontro del 12 giugno 1924 (due giorni dopo l’omicidio): “Rossi disse: se arrestate Dumini, Volpi e compagni … quelli parleranno e diranno che hanno avuto l’incarico da noi di far fuori Matteotti … Rossi proseguì: c’era l’assenso, anzi l’ordine del presidente … Marinelli soggiunse: … quando andai dal presidente al quale prospettai la formazione di una specie di Ceka … e gli feci il nome di Dumini come capo, il presidente assentì”. Non credo serva aggiungere altro…

La coscienza di Mussolini è sicuramente sporca del sangue di Matteotti (e di altri…). Che l’omicidio sia stato commesso su suo ordine esplicito è meno certo e le ricostruzioni variano da precise ammissioni preventive (l’ipotesi del Duce che si rivolge a Marinelli o ad altri sollecitando l’intervento della banda Dumini) a ipotesi più sfumate. Questo ci porta ad altri scenari…

La questione Sinclair Oil

Il discorso con cui Matteotti contestò il risultato elettorale per anni è stato ritenuto l’unico elemento che causò la sua eliminazione. In realtà a questo ne vanno aggiunti altri la cui importanza è andata affermandosi fra gli studiosi del delitto, a partire dalla conoscenza da parte del segretario socialista di illeciti finanziari riguardanti gerarchi fascisti e forse esponenti di casa Savoia.
Nell’aprile 1924 il governo aveva stipulato un accordo con la compagnia americana Sinclair Oil, accordandole il monopolio delle ricerche petrolifere in Italia. Dietro l’accordo ci sarebbero stati, secondo il segretario del PSU, tangenti a favore del partito fascista.
Matteotti aveva accennato all’accordo stretto fra il governo e la compagnia americana in un suo articolo apparso postumo nel luglio 1924 su English Life (“Machiavelli, Mussolini and fascism”), riportato su varie fonti (si veda ad esempio treccani.it, voce su Giacomo Matteotti). L’articolo dimostra l’intenzione del parlamentare di allargare la propria critica al governo, non limitandosi alla sola polemica sulle elezioni. E’ anzi accertato che, nei giorni precedenti il suo omicidio, stava preparando un nuovo intervento alla Camera, imperniato proprio su questo scandalo politico-affaristico: era previsto per i giorni successivi il 10 giugno, forse già per il giorno dopo. Peraltro, sempre in quell’articolo postumo, Matteotti alludeva pure ad altri illeciti: “Ancora più funesto è il comportamento di molti capi fascisti di spicco che conducono una stringente opera di grassazione su società private e semipubbliche con lo scopo di finanziare i giornali fascisti e altre organizzazioni a proprio totale interesse e profitto”. Secondo questa ricostruzione, è plausibile che Matteotti non sia stato “punito” per quel che aveva detto, ma fatto tacere per quanto poteva dire…
A tanti anni di distanza dagli eventi, interrogarsi sul movente dell’omicidio può essere meno interessante di quanto possa sembrare: l’eliminazione di Matteotti può essere stata frutto, più che di un unico movente, di più fattori concomitanti e di più mandanti, tutti vicini all’allora presidente del consiglio. E molti, fra questi, avevano motivo di temere le rivelazioni che Matteotti poteva fare sugli “scandali politici affaristici”.
Se i confini penali del delitto possono essere ancora parzialmente vaghi, sicuramente non è vago il contesto in cui gli assassini poterono prima agire e poi godere di ampie protezioni. E forse far passare l’assassinio come una semplice vendetta di “squadristi incattiviti” dalle “provocazioni” di Matteotti fu persino una buona scusa per il fascismo, che riuscì così a occultare moventi più complessi e persino più compromettenti.

Alcune affermazioni di Petacco

PETACCO (DALLA SUA INTERVISTA APPARSA SUL BLOG DI GRILLO):
… alla fine uno dei 4 con una mano trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide. … voi pensate che, 10 giorni prima che aveva stravinto le elezioni politiche, il capo del governo, non ancora dittatore, per fare uccidere il capo dell’opposizione manda 4 manigoldi con una lima arrugginita?


La tesi della spedizione punitiva fatta da quattro scalmanati con qualche bastonata, finita in tragedia per pura fatalità, non è nuova. Non si offenda Petacco se sottolineo che, in fondo, è la tesi difensiva che l’avvocato difensore di Dumini propose al processo di Chieti. E, guarda caso, il ruolo di difensore di Dumini a quel processo fu assunto da Farinacci mentre era segretario del partito fascista, a dimostrazione dell’attenzione che il regime rivolse ai carnefici e non alla vittima, semmai ce ne fosse bisogno.
Secondo la perizia medico-legale Matteotti fu ucciso “con uno o più colpi di arma da taglio inferti nella parte superiore del torace”. Presumibilmente a sferrare i colpi mortali fu Volpi.
Prima di disfarsi del cadavere, seppellito sommariamente in un boscaglia nei pressi di Roma, gli assassini gettarono sul cadavere la lima arrugginita a cui fa riferimento Petacco: un pezzo di ferro che, malgrado le perizie, per anni sarà ritenuto – sbagliando – l’arma del delitto, mentre in realtà servì, assieme ad altri attrezzi, a scavare quella fossa improvvisata.

DOMANDA BLOG GRILLO:
- Nel libro “La storia ci ha mentito” lei fa riferimento a testimonianze di Edda Ciano, figlia di Mussolini, che farebbero pensare alla volontà del Duce di un riavvicinamento al Partito socialista di allora per un governo di pacificazione nazionale, è una tesi plausibile?
RISPOSTA PETACCO:
- Non c’è dubbio, ma anche lo stesso De Felice lo riconosce, solo che c’è stata tutta questa retorica antifascista che ha confuso le idee a tutti, Mussolini in quel periodo lì voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti.
E sono i due estremisti che cercavano di staccare Mussolini dalla sinistra, a destra avevano paura che Mussolini aprisse ai socialisti e gli estremisti fascisti avevano la stessa paura, quindi ci fu praticamente una specie di accordo virtuale tra gli estremisti di destra e di sinistra per impedire l’incontro tra socialisti e fascisti moderati. … questo cadavere servì moltissimo a alla destra reazionaria, quella per intenderci di Farinacci e altri che voleva impedire i Mussolini di avvicinarsi a socialisti, tanto è vero che dopo poco nacque la dittatura.


La questione è molto più complessa. E’ sicuramente vero che Matteotti, quale segretario del PSU, a quell’epoca doveva tenere a bada spinte collaborazioniste fra i suoi deputati e il fascismo. La cosa oggi può apparire paradossale, ma molte fonti accennano a queste tensioni interne e alla fermezza usata da Matteotti verso i “collaborazionisti”. Anche il noto film “Il delitto Matteotti” del 1973 (realizzato in periodi non certo revisionisti, assai duro col fascismo e peraltro coerente con la convinzione di allora che il delitto fosse dovuto esclusivamente alla reazione dopo l’intervento alla camera del 30 maggio) accenna al fatto, seppure in una sola battuta: quando Turati si sta complimentando dopo il suo discorso, Matteotti risponde: “Voi guardavate i fascisti, io guardavo qualche nostro compagno: credete che abbia convinto anche loro a non calarsi le braghe davanti a Mussolini?”.
E’ dunque pacifico che Matteotti il 30 maggio 1924, oltre che opporsi al governo, volesse lanciare un monito verso “l’ala morbida” del suo partito. E non occorre essere revisionisti per riconoscere che Mussolini a sua volta doveva tenere a freno l’ala più estremista del suo partito (Farinacci in testa, ma non solo). Sempre nel già citato film viene rappresentato con efficacia il serrato confronto avvenuto a fine dicembre 1924 fra il duce e alcuni “consoli”, che addirittura contestano la sua autorità e gli chiedono una “prova di forza”. Qui si crea, perlomeno sul piano della “retorica del linguaggio” un curioso parallelismo fra i due celebri interventi parlamentari dei protagonisti: pure il discorso del 3 gennaio di Mussolini, più che rivolto alle opposizioni, è una “concessione di credito” di Mussolini alla frazione più violenta del fascismo.
In ogni caso, il 3 gennaio 1925 fu uno spartiacque nella storia del ventennio. Dopo la marcia su Roma e dopo aver presieduto un governo di coalizione, Mussolini aveva pianificato con scrupolo la piena presa del potere con le elezioni del 1924. Come già accennato, al netto della sacrosanta denuncia di Matteotti sul clima in cui si svolse la tornata elettorale, il consenso di cui godeva il fascismo era ampio, ma forme di resistenza e manifestazioni di dissenso organizzato erano ancora possibili.
I sei mesi successivi all’omicidio del segretario socialista furono, per il regime, i peggiori durante tutta la tragica esperienza che il ventennio ha rappresentato per l’Italia. Il ceto medio, a suo tempo schieratosi a favore del fascismo favorendone l’ascesa, durante quei mesi oscillò tra sincera indignazione morale e più ipocriti dubbi di opportunità. Anche giornali non schierati a sinistra, come il Corriere della Sera, furono molto critici verso il governo.
Il matrimonio tra il fascismo e le altre strutture di potere (più o meno palesi: mondo imprenditoriale, gerarchie ecclesiastiche, monarchia) merita altre e diverse considerazioni. Come ogni matrimonio d’interesse non vacillò certo per tensioni etiche e si rinsaldò presto. Proprio quando Mussolini ebbe la certezza di aver ricucito questi rapporti, tenne il celebre discorso del 3 gennaio, a cui fecero seguito quelle “norme eccezionali” (le cosiddette legge fascistissime) che trasformarono un regime già illiberale in una feroce dittatura. A tale proposito non si può non menzionare l’atteggiamento di casa Savoia: spesso accusata di semplice ignavia, il ruolo della monarchia fu qualcosa di diverso, non solo sul piano della semplice responsabilità morale.

Una postilla personale…

Nell’ultimo articolo sul mio blog (“Parlando di Lucca, di fumetti, del nostro passato e di ciò che ci aspetta…”) raccontavo di avere incontrato Guido Ostanel di BeccoGiallo, con cui ho lavorato e lavorerò. Spiegavo di aver parlato con lui di “un progetto futuro che non voglio anticipare, per scaramanzia e per correttezza nei confronti dell’editore”. Raccontavo anche dei dubbi sull’interesse che i lettori più giovani dimostrano verso tematiche cronologicamente datate, e che comunque “quel progetto” avrebbe visto la luce nel 2015. Non occorre particolare acume per capire, ora, di cosa si trattasse: i casi della vita, e soprattutto la stupefacente (per me) intervista di Petacco sul blog di Grillo, mi hanno costretto ad uscire allo scoperto…

Francesco “baro” Barilli

lunedì 10 novembre 2014

Parlando di Lucca, di fumetti, del nostro passato e di ciò che ci aspetta…

Sono stato a Lucca Comics, quest’anno. Per la prima volta ero con mia figlia, e questo ha reso l’appuntamento speciale, per me.
Ma non sono qui per parlare di sensazioni personali, né di Lucca o di fumetti, se non lateralmente.

A Lucca ho incontrato Guido Ostanel: un amico, oltre che anima del BeccoGiallo con cui ho lavorato e lavorerò. Abbiamo parlato di un progetto futuro che non voglio anticipare, per scaramanzia e per correttezza nei confronti dell’editore. Guido con franchezza mi ha confidato alcuni dubbi: soprattutto sull’interesse che i lettori più giovani dimostrano verso tematiche cronologicamente datate (ripeto: datate SOLO cronologicamente, perché a ben guardare l’attualità ci sarebbe…).

Facciamo un passo indietro. Sono stato diverse volte a Lucca, da semplice visitatore. La mia “prima volta da autore” è del 2009 (per Piazza Fontana). Da quel giorno partecipo o assisto all’evento con occhi diversi, mi sembra naturale. Che Lucca sia cambiata è persino banale dirlo; ed è altrettanto banale interrogarsi se ciò sia un bene o un male: è cambiata, punto, e la mutazione, prima che positiva o negativa, va definita come inevitabile segno dei tempi. Ma non m’interessa parlare di segmenti del mercato in ascesa o in calo: ciò che ho notato, e m’importa, sono un paio di cambiamenti che altri potrebbero valutare – legittimamente – marginali. In pochi anni, ho visto innesti “generazionali” massicci e repentini di nuovi autori. E quel calo d’interesse rispetto ad alcune tematiche, storiche e datate, è stato verticale.

Sia chiaro: io scrivo con lo stesso impegno se vendo 1000 o 4000 copie. E sarebbe uguale se scrivessi per 20mila lettori, tanto per dire. Scrivo quello in cui credo, affronto temi che m’appassionano e che ritengo possano interessare un dato pubblico: se vasto o di nicchia è secondario, almeno per il mio approccio creativo. E, preciso subito, il progetto che ho proposto a Guido con ogni probabilità vedrà la luce il prossimo anno. Non scrivo, dunque, per una lamentela personale: oltre a non averne l’intenzione non ne avrei motivi.

Quello su cui mi interessa riflettere è altro.

Per anni una certa vulgata “di destra” ha sostenuto l’esistenza, nel passato, della famosa “egemonia culturale della sinistra”. L’ha fatto strumentalmente e in malafede, ma non senza ragioni. Nel senso che obbiettivamente va riconosciuto che la sinistra aveva una sua massiccia presenza non solo nella vita politica, ma pure nella cultura italiana. E questo, accanto a buoni frutti in ogni campo, ha sicuramente avuto riflessi negativi, non lo nego.
Ma, oggi, un ventennio in cui il comunismo (tanto per semplificare) è stato presentato come il male assoluto ci ha portato a un panorama specularmente opposto e tragico: il “pensiero di sinistra” è qualcosa di cui vergognarsi, anacronistico, dannoso…

(Anche la “sorpresa” con cui vengono accolte certe prese di posizioni dell’attuale Papa è significativo. Si tratta spesso di posizioni figlie di un semplice e moderato – certamente rispettabile – “cristianesimo sociale”, “rivoluzionarie” solo nella misura in cui le si mette a confronto con il clericalismo retrogrado e ferocemente conservatore a cui siamo abituati dall’ultimo ventennio. Ma tanto basta a creare clamore e imbarazzo nel “pensiero unico” imperante: quello della destra iper liberista – sul piano economico – e iper conservatrice – sul piano sociale e dei diritti. Non è questo il momento o il luogo per affrontare la complessa figura dell’attuale pontefice, ma la riflessione mi sembrava pertinente).

Tornando a noi, il “pensiero di sinistra” oggi è commentato, nella migliore delle ipotesi, come un insieme di utopie belle quanto irrealizzabili e prive di concretezza, perché “il mondo è cambiato”. Diverse spie linguistiche del renzismo lo dimostrano, in campo politico e sociale, ma ciò che mi ferisce (e, soprattutto, mi preoccupa) è il riflesso di un tale clima nel campo culturale. Per fare un esempio (sicuramente secondario, ma ha il pregio d’essere recente e quindi fresco nella mente di tutti), molti si scandalizzano per la volgarità sessista di un gelato succhiato da Madia, ma sono gli stessi che pensano si debba abolire il finanziamento pubblico all'editoria perché “è il mercato a stabilire quali testate sopravvivono”. Giustamente Carlo Gubitosa ha commentato: “scandalizzatevi pure di fronte alla cattiva stampa, ma ricordatevi che la subcultura trash non e' soltanto una causa di degrado, ma e' anche l'effetto di un pubblico degradato, e' uno specchio di cio' che siamo collettivamente in grado di esprimere come popolo”.
Il calo di interesse su tematiche “datate” (che fino a ieri facevano parte della nostra storia, facendoci vibrare d’indignazione al ricordo) è figlio anche di questo clima? Certamente sì.

Preciso: non ho soluzioni, né immediate né a lungo termine. Quel che posso fare, nel mio piccolo “orticello culturale”, è continuare a coltivare un seme di resistenza, nella consapevolezza che non ne vedrò i frutti e nella speranza che generazioni future possano invece beneficiarne. Tanto mi basta. E a voi?

Francesco “baro” Barilli

giovedì 2 ottobre 2014

Un commento alla prima stagione di Orfani (scritto da Roberto Recchioni – ed. Bonelli)

Un anno fa mi trovai a parlare con un mio amico del primo numero di Orfani (serie Bonelli scritta da Roberto Recchioni). Lui mi disse - cito a braccio: “non m’è piaciuto. E ho trovato pericolosamente fascista il suo messaggio”. Io sospesi il giudizio; e, pensai, avrei scritto un commento dopo la fine del primo ciclo narrativo (recentemente arrivata col n. 12). Per casini di tempo avevo poi rinunciato all’idea, successivamente la bella recensione di Matteo Stefanelli mi ha stimolato altre riflessioni facendomi tornare sui miei passi. Ed eccomi qui…

(una precisazione: quando dico “la bella recensione di Stefanelli” intendo dire che leggendola emergono competenza, professionalità e onestà intellettuale di chi l’ha scritta; non significa che io sia completamente d’accordo)

Dunque: m’è piaciuto Orfani? Ho trovato il suo messaggio “pericolosamente fascista”?

Alla prima domanda: sì, m’è piaciuto. In un modo “visceralmente strano”. In quest’anno è stato forse l’unico fumetto di cui attendevo con ansia l’uscita e che leggevo non appena in mio possesso (gli altri generalmente si accumulano su scrivania e comodino, arrivando alla lettura solo quando una delle due pile minaccia il crollo…). Considerando il poco tempo che ho a disposizione, questo è un gran complimento verso il lavoro di Recchioni (e pure verso i disegnatori, s’intende).
In Orfani ho trovato un fumetto avvincente, dalla lettura scorrevole, graficamente riuscitissimo, innovativo rispetto ai canoni bonelliani. Il tempo di lettura veloce, su cui si sofferma ampiamente Stefanelli, non m’è sembrato un difetto: è una scelta stilistica che Recchioni ha volutamente adottato e coerentemente perseguito.
Peraltro, mi sembra si possa dire che il fumetto seriale da tempo sia segnato dalla ricerca di un ritmo sempre più veloce e incalzante. E pure l’osservazione di Stefanelli circa la periodicità mensile (se ho correttamente interpretato il suo pensiero, questa sarebbe inadatta a una fruizione veloce da parte del lettore, che dovrebbe essere stimolato da uscite più ravvicinate) non mi trova concorde: si veda lo standard di molte pubblicazioni Marvel, analogamente mensili e analogamente segnate da tempi di lettura assai veloci rispetto a quanto la “casa delle idee” ci aveva abituati anni fa.

(sarebbe interessante approfondire la questione sul tempo di lettura. O, meglio, sarebbe interessante riflettere su quanto sia il nostro linguaggio – e di conseguenza il “linguaggio narrativo” in ogni mezzo espressivo – ad essersi fatto sempre più veloce e incalzante. Probabilmente è la vita stessa ad essersi fatta più frenetica, e anche il nostro “raccontare storie” si adegua di conseguenza, in un cambiamento che è antropologico prima che stilistico… Sarebbe interessante, ripeto, ma dispersivo in questo che vuole essere solo un commento ai primi 12 numeri di Orfani. Lasciamo quindi la riflessione nel cassetto e procediamo oltre)

Veniamo al secondo quesito, sul “messaggio” di Orfani.
La maggior parte di chi sta leggendo questa recensione credo conosca già la prima stagione della serie, per cui mi limito a una sintesi, brutale e certamente lacunosa, per gli altri.
Nel primo numero un attacco terroristico di origine aliena provoca migliaia di vittime in tutto il mondo. Alcuni ragazzini sopravvissuti vengono quindi addestrati come “forza speciale”. Devono diventare soldati spietati, un corpo d’élite fisicamente e strategicamente ineccepibile (e, soprattutto, ciecamente obbediente).
Una volta diventati adulti,  il loro compito sarà rispondere all’apocalisse scatenata anni prima, annientando il nemico.
Ogni numero di Orfani si basa su due linee temporali, che si sviluppano progressivamente: nel passato assistiamo alla formazione degli “orfani” e alla mutazione dei rapporti interpersonali, fra loro e rispetto ai superiori; nel presente/futuro vediamo le loro azioni come soldati in guerra contro gli alieni. Una scansione della narrazione che Recchioni gestisce con bravura, facendo “crescere la storia” su entrambi i piani temporali e mantenendo alto l’interesse del lettore.
A circa metà serie il lettore scopre la verità dietro la tragedia del primo episodio: gli alieni non sono mai esistiti; la strage è stata solo una cinica macchinazione di chi gestisce il potere, interessato a un’operazione di manipolazione sociale di massa attraverso la creazione di un nemico comune; gli orfani sono utili al potere non tanto per la loro efficienza quanto per la loro totale (e in fondo ottusa) obbedienza; le loro stesse battaglie condotte contro gli alieni non sono mai avvenute, non esiste “il nemico”, ma solo il prodotto di allucinazioni scientificamente indotte.
Da qui si apre un dilemma nel gruppo di soldati, che si scopre manipolato da anni. Reagire e svelare a tutti la dura realtà? Oppure tacere per non compromettere quella stabilità sociale che, seppure basata su menzogne, è sorta dalle macerie post attentati? Tutto questo a sua volta porterà a una drammatica spaccatura negli Orfani: non ne rivelo gli sviluppi per non rovinare la lettura a chi volesse recuperare l’epilogo della saga.

E’ persino banale sottolineare che la sottotrama politica di Orfani ha tristi agganci con la realtà. La creazione di un nemico globale o l’amplificazione della “percezione del nemico”; la paura come strumento di controllo sociale, che produce l’accettazione della compressione dei diritti civili in nome di una maggiore sensazione di sicurezza; il fallimento della democrazia, che diventa un imbroglio semantico dietro cui si celano giochi di potere fatti all’oscuro dei cittadini che subiscono quei processi decisionali ai quali si illudono di partecipare… Questioni ampiamente presenti nella società attuale. Non so se Recchioni le abbia volutamente esplorate o se per lui siano semplicemente un pretesto narrativo: opzioni entrambe legittime e, soprattutto, l’una non esclude l’altra.
Sta di fatto che il “messaggio” di Orfani non è per nulla “fascista”. Probabilmente il lavoro di Recchioni non ha né intende avere “un messaggio”, e semmai risulta permeato da una sorta di disilluso nichilismo. Anche qui non voglio rovinare la sorpresa a chi volesse leggere la serie. Basti dire che l’epilogo sembra dire: “il potere mente ai cittadini, trattati come un gregge di cui manipolare il consenso; l’alternativa è una ribellione violenta che distrugga l’ordine costituito, anche in assenza di una prospettiva certa”.
Persino i rapporti umani più profondi non sfuggono a questa logica priva di speranze: anche due amanti come Ringo e Sam si scontrano più volte e alla fine l’uomo spezza il collo della ragazza proprio dopo un ultimo bacio. Una scena che Stefanelli ricorda nel suo pezzo come una fra le più emblematiche della serie: l’amore è importante, ma nemmeno il sentimento più profondo e sincero è una speranza sufficiente, in un mondo privo di speranze come quello degli Orfani. Il bacio di Ringo non è falso e neppure “un tradimento” (visto il successivo omicidio dell’amata): è solo l’estremo sigillo a una situazione priva di vie d’uscita.

Tutto bene e nessun difetto, dunque? In realtà anch’io, come Stefanelli, qualche perplessità ce l’ho. Una scarsa attenzione alle emozioni dei personaggi, dialoghi troppo caricati che a lungo andare diventano stereotipati. Condivido pure l’osservazione sulla scarsa empatia che si crea fra protagonisti e lettore, ma questa mi sembra un’altra scelta stilistica tipica di altri personaggi creati da Recchioni. Uno su tutti John Doe, la cui serie ho apprezzato specie nella prima stagione, che alternava slanci d’umanità ad atteggiamenti a dir poco scostanti, solo per fare un esempio.

Una nota a parte la merita l’attenzione che i media – specialmente su internet – hanno dedicato a Orfani, come spesso accade alle serie scritte da Roberto: alcuni detrattori sostengono che il dibattito che si solleva attorno ai suoi lavori sia dovuto, più che allo spessore degli stessi, all’abilità con cui lo sceneggiatore romano utilizza i social.
Che Recchioni utilizzi con abilità internet e i social network - come vetrina e “megafono” dei propri fumetti e progetti - è innegabile. E’ una normale strategia a livello commerciale e di comunicazione: se è bravo in questo mi sembra un pregio, più che un difetto.
Ma, credo, al di là che si possa provare simpatia o antipatia verso Roberto, gli si farebbe un torto pensando che “il rumore” sollevato dai suoi lavori sia solo l’eco del “personaggio” che lo sceneggiatore è diventato (o ha saputo diventare). Recchioni è, semplicemente, uno scrittore capace di progetti nuovi e in grado di gestire queste novità anche all’interno del cosiddetto “fumetto popolare”. Sa condurre la propria “autorialità” all’interno di standard narrativi consolidati come quelli della Bonelli o in generale del “fumetto classico d'avventura”. E’, insomma, uno scrittore che ha “qualcosa da dire”: che questo generi dibattito mi sembra normale e, soprattutto, un suo merito.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 25 agosto 2014

Il veleno su Baldoni scorre ancora

Tanti anni fa ho scritto un articolo. Ho spulciato tra le mie cose per cercare la data corretta: era il 6 settembre 2004.
Ho l’abitudine di ripubblicare vecchi pezzi miei solo raramente. Lo faccio poche volte, quando mi sembra utile.
Non so se questa sia una di quelle volte. Non so quanto sia utile/necessario/attuale ripubblicare oggi “Il veleno di Libero su Enzo Baldoni”, a dieci anni dalla sua pubblicazione e dall’uccisione di Baldoni.
Però all’epoca non avevo il piacere di conoscere Guido, uno dei figli di Enzo.
E vedere che quel veleno scorre ancora m’ha dato da pensare.
E poi è il mio personale “regalo” a Guido. A dieci anni di distanza. Per fargli sentire la mia solidarietà: non è un gran modo, forse, ma è quanto so e posso fare.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 14 agosto 2014

Il partigiano "Gion"



Tempo fa ho scritto questo racconto. Parlavo di mio padre, della sua esperienza di giovane partigiano e di altre cose… Chi l’ha letto, o lo leggerà ora, può facilmente immaginare quanto e perché sia importante, per me…

La vità spesso inciampa in imprevisti, che a volte possono essere positivi. Questo è uno di quei casi: senza annoiarvi coi dettagli, sono arrivato a questo link: fatelo scorrere fino a “Gion”: non avete idea dell’emozione che mi ha dato trovare la sua “fototessera” di partigiano...



Sapevo del suo pseudonimo: avevo sempre pensato a “John”: ho scoperto che invece era “italianizzato”: m’ha intenerito e fatto sorridere…

sabato 12 luglio 2014

Bertinotti, la sinistra non è finita

Il caso ha voluto che proprio dopo una serata passata con due amici, in cui abbiamo parlato anche dello stato della sinistra in Italia, abbia letto l’intervista a Fausto Bertinotti realizzata da Antonello Caporale per Il Fatto.
L’ex segretario di Rifondazione afferma varie cose. Ne cito solo alcune:

- fra gli errori commessi ne menziona solo uno (“uno più di tutti mi brucia: non essermi reso conto che alcuni miei comportamenti potessero essere scambiati per commistione con un ceto somigliante a una casta”).

- La sinistra è morta; il comunismo (sempre secondo Bertinotti) lo è da un pezzo.

- Spende poche parole per il M5S, ma sembrano un apprezzamento, o almeno un riconoscimento del Movimento come “meno peggio” nel panorama attuale (“E meno male. [che molti voti vanno a Grillo n.d.r.] In Francia votano Le Pen”).

Insomma: l’Italia è forse l’unico Paese europeo in cui la sinistra – elettoralmente – è priva di peso, ma l’ex segretario di Rifondazione non ne indica i motivi (sinceramente quel passaggio sulle “feste” a cui ha partecipato mi sembra risibile: fra i tanti errori commessi, Bertinotti indica il più veniale, il dito anziché la luna…), con dichiarazioni che sembrano essere sostanzialmente autoassolutorie e autoconsolatorie. Sul “che fare”, tace o quasi. E, ad onor del vero, forse in questo non sbaglia…

Faccio ora un lungo inciso, credo e spero utile, sui numeri delle ultime elezioni.
Preciso da subito: so bene che è difficile comparare politiche ed europeee (“mischio pere con pomi”), e pure che se parliamo di numeri elettorali non sempre (anzi, quasi mai) il risultato di una data coalizione è la somma matematica delle potenzialità dei singoli partiti che la compongono; in altre parole: se X vale 10 voti e Y ne vale 20, non è detto che alla consultazione successiva X eY presentandosi assieme prendano 30 voti. So anche che le numerosi divisioni-scissioni-frammentazioni rendono ancora più difficile un’analisi completa. Però in questo momento non m’interessa un’indagine raffinata dei flussi elettorali negli ultimi 10 anni: voglio solo ragionare a livello di “grandi numeri”.

elezioni politiche del 2006 (solo Camera dei Deputati)
Rifondazione: 2.229.604 voti, pari al 5,8%
Comunisti Italiani: 884.912 voti, pari al 2,3%
Verdi: 783.944 voti, pari al 2,1%
(ho intenzionalmente escluso l’IdV, che per la cronaca prese 877.159 voti)

*****

politiche del 2008 (anche qui: Camera dei Deputati):
Sinistra Arcobaleno: 1.124.298 voti, pari al 3,08%
PCdL: 208.296 voti, pari al 0,57%
Sinistra Critica: 168.916 voti, pari al 0,46%

*****

politiche del 2013 (sempre: Camera dei Deputati):
Sel: 1.089.442 voti, pari al 3,2%
Rivoluzione Civile (lista Ingroia): 765.172 voti, pari al 2,25%
PCdL: 89.995voti, pari al 0,26%
Alternativa Comunista: 89.995 voti, pari al 0,26%

*****

europee del 2014:
L'altra Europa con Tsipras: 1.103.203 voti, pari al 4,03%
Verdi: 245.443 voti, pari al 0,89%

*****

In altre parole: nel 2006 la cosiddetta sinistra radicale contava su un bacino di quasi 4 milioni di voti (10,2 % complessivo, peraltro con un numero di votanti assai superiore a quello mediamente attuale).
In otto anni (ripeto: otto anni…) il bacino della sinistra radicale si è ridotto fino a 1 milione o poco più.
Nello stesso periodo, i gruppi dirigenti di altre parti politiche si sono rinnovati parecchio (alcuni radicalmente, altri meno). La sinistra ha attraversato fortissimi processi di frammentazione, in molti casi sfidando il ridicolo, e tentativi di riaggregazione (malriusciti e sempre dettati da pressanti scadenze elettorali). I gruppi dirigenti si sono atomizzati, ma mantenendo pressochè le stesse figure di riferimento.

Bene: so che “noi” dovremmo essere “diversi”. Per noi dovrebbero essere importanti le idee, non i leader. E so pure che abbiamo un grosso problema di comunicazione; in parte dovuto alla riduzione degli spazi sui grandi media, in parte per l’incapacità a rinnovare le modalità comunicative rispetto a un mondo profondamente cambiato (se leggo ancora “una nuova fase si è aperta” mi viene l’orticaria…).
So tutto questo. Però resta il dato, macroscopico, di un’area politica che ha avuto una paurosa emorragia di consensi elettorali e in cui praticamente nessuno dei dirigenti ha saputo o voluto fare un vero passo indietro.

Mi si potrebbe obbiettare che la Lista Tsipras alle ultime europee ha cercato dinamiche diverse nella scelta dei candidati. E’ vero, ma anche tralasciando la pessima gestione del “vado o non vado” di Barbara Spinelli, il problema non è quello. Un progetto di sinistra che sia davvero alternativo solido e credibile non lo si improvvisa, e farlo frettolosamente per una campagna elettorale è impossibile. Certo, la sinistra ormai si trova stretta in una tenaglia (tra “voto utile” e la sirena del 5 stelle) ma il vero problema e che da tempo non sa rappresentare il cambiamento, un’idea alternativa “di mondo”. Già tempo fa (dopo il fallimento di Rivoluzione Civile) scrissi che se la crisi ha prodotto Syriza in Grecia e da noi il Movimento 5 Stelle qualcosa vorrà dire… E questo porta pesanti accuse all’intero gruppo dirigente delle formazioni di sinistra. Che non hanno rinnovato i propri quadri o il proprio linguaggio, e che quando (costretti…) hanno dovuto affrontare l’amaro calice di un’autocritica si sono rifugiati nel consueto, e molto “politichese”, dare la colpa ad altri del proprio fallimento. Se in 8 anni si sono persi per strada 3 milioni di voti vuol dire che 3 milioni di cittadini non si sentono più rappresentati da chi, a sinistra, si presenta alle elezioni. E se contemporaneamente i gruppi dirigenti mettono la testa nella sabbia abbiamo un grosso problema. Che non sono le “feste” a cui ha partecipato Bertinotti.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 3 luglio 2014

Appuntamenti e novità

Si parla ancora di Piazza della Loggia vol. 2: qui e qui.

Poi, per chi volesse venire a sentirci, l'appuntamento è a Torre Pellice, per "Una Torre di libri", il 18 luglio. Con me e Matteo Fenoglio ci saranno anche Benedetta Tobagi e Alessio Lega. Per i dettagli leggete qui (ma consiglio di dare un'occhiata in generale a tutto il programma).

Dopo Torre Pellice sarò come sempre a Genova: mi sa che chi mi conosce l'immaginava... Però spero vi interessi il convegno a cui parteciperò: La Fortezza Europa, repressione e criminalizzazione delle lotte sociali: che fare?

(e se anche non interessasse, ricordo che di motivi per esserci a Genova, ogni anno a luglio, ce n'è sempre... Se proprio non ce la fate il 19, fate di tutto per esserci almeno domenica 20, dalle ore 14.30, in Piazza Alimonda. Per non dimentiCARLO).

domenica 1 giugno 2014

Piazza della Loggia vol. 2: interviste e recensioni

Una bella recensione di Valeria Gandus (brava e puntuale come sempre: la ringrazio di cuore!!!) su Il Fatto Quotidiano

A questo link potete ascoltare o scaricare l'intervista che mi hanno fatto il 26 maggio all'interno di Flatlandia (Radio Onda D'Urto: Grazie Sancho!!)

Il mio amico Checchino Antonini recensisce su popoff "Piazza della Loggia vol. 2. In nome del popolo italiano"

Qui invece potete vedere "Buongiorno Regione" (trasmissione del TG3 regionale della Lombardia). Al  minuto 23 e 32'' c'è l'intervista fatta a me e Matteo Fenoglio da Alessandra Farina.

Piazza Della Loggia, 40 anni dopo, viene ricordata anche su Fahrenheit (Radio Rai 3). Ospite, assieme a me, Benedetta Tobagi. Potete ascoltare la trasmissione qui

domenica 18 maggio 2014

Alcune considerazioni sull’incontro pubblico con Rita Borsellino

Poche sere fa ho assistito a Codogno all’incontro pubblico con Rita Borsellino. Un incontro da cui tutti, me compreso, siamo usciti arricchiti e rincuorati. Arricchiti per la competenza e lo spessore umano di Rita; rincuorati un po’ ancora per merito della protagonista, capace di trasmettere “voglia di fare” e la propria carica di positività, ma anche per l’inaspettata (almeno per me) risposta della città: la platea era davvero numerosa, così come numerosi e per nulla banali sono stati gli interventi del pubblico. L’unica cosa che non ho condiviso, però, è stata proprio l’invidiabile positività verso il futuro. E lo dico, sia chiaro, con enorme rispetto nei riguardi della signora Borsellino.
Nell’incontro è emerso che la mafia è un fenomeno ormai non circoscritto alle regioni del sud (e questo purtroppo lo sapevamo già) e proprio Rita ha sottolineato trattarsi di una presenza percepibile anche fuori dai confini nazionali. Già considerando questo dato sull’espansione territoriale della mafia (da intendersi qui in un’ampia accezione di criminalità organizzata operante su macro interessi economici) c’è poco da essere ottimisti nel valutare l’evoluzione dei fatti dal 92, quando furono assassinati Falcone e Borsellino, a oggi. Ma è proprio sul perché di questa espansione che si dovrebbe ragionare…
Cominciamo col dire che, come efficacemente sottolineato da Rita l’altra sera, quanto interessa davvero alla mafia è il denaro; la politica le interessa solo nella misura in cui è il vettore che la conduce verso i grandi interessi economici. E aggiungiamo che il panorama globale in questi vent’anni si è caratterizzato per l’affermazione definitiva di un capitalismo globalizzato e finanziarizzato, che ha come scopo principale proprio il veicolare grandi affari a latitudini fino a ieri difficili da raggiungere (tutto questo per sommi capi: un’analisi più articolata sarebbe interessante ma risulterebbe ora dispersiva).
A questo punto può essere utile una sottolineaura: non è mia intenzione dare un’impronta politica a queste riflessioni. Potrei cioè aggiungere che il capitalismo, specie nella forma feroce in cui si è sviluppato su scala globale, crea ingiustizie sociali ed è per propria natura insofferente a controlli “etici”. Ma voglio invece essere più asettico nelle valutazioni; prendiamo dunque per buona la presentazione che il capitalismo dà di se stesso: l’unico modello economico capace di creare benessere e richezza (“il migliore dei mondi possibili”, direbbe il Candido di Voltaire). Ebbene, anche in questa lettura bonaria è comunque la sua natura ad attirare la criminalità organizzata: si tratta di un modello economico che costituisce il perfetto habitat in cui può prosperare l’oscuro intreccio fra economia, politica e malavita organizzata. Credo dunque che il sacrosanto invito di Rita Borsellino ad impegnarci tutti nella lotta alla mafia non possa prescindere da questa considerazione: se non si riesce a rompere il tabù secondo cui al capitalismo non c’è alternativa, sarà impossibile spezzare quell’intreccio, e il nostro impegno resterà lodevole quanto privo di effetti.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 7 maggio 2014

Lettera aperta a Paola Bacchiddu

Cara Paola,
i fatti li conosci: li riassumo per chi non ne avesse sentito parlare, e che comunque potrà trovare molti riferimenti sul web. Tu, responsabile della comunicazione della lista Tsipras, hai pubblicato una tua foto in bikini, accompagnandola con un breve messaggio (“è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate L’altra Europa con Tsipras”). Un escamotage per tentare di far sì che i media finalmente si occupassero della lista (che pure io voterò; ma su questo tornerò più avanti).
La tua scelta/provocazione ha originato molti commenti, pro e contro, dal tono e dal contenuto diversissimi. Ho notato una cosa: tutti hanno parlato di te, della tua avvenenza, della tua scelta; pochi della lista in sé (e questo mi sembra certificare un parziale fallimento della tua strategia); nessuno si è rivolto direttamente a te, con l’eccezione di chi, suppongo, ti avrà mandato messaggi via facebook. Provo a colmare io la lacuna: penso tu possa apprezzare la decisione di riflettere “con te” e non “su di te”. In fondo anche quest’ultimo approccio non è forse la spia di un atteggiamento mentale che vuole il corpo femminile come un oggetto da trattare?

Il mio parere sulla questione è assai articolato.

Da un lato, la tua iniziativa è spiritosa e legittima. La foto non ha nulla di volgare ed è chiaramente frutto della frustrazione di chi sta impegnandosi in una campagna elettorale che cozza contro il silenzio che i media hanno, scientemente e scientificamente, adottato.

Da un altro lato, se è vero che l’uso del corpo (maschile o femminile che sia) deve essere totalmente libero e nella piena e assoluta disponibilità dell’individuo, è anche vero che nel momento in cui tu sei responsabile della comunicazione di una lista non rispondi solo a te stessa delle strategie che utilizzi. Su questo, sia chiaro, il femminismo e le sacrosante lotte per la liberazione della donna non c’entrano nulla.

Da un altro lato ancora (e questo, credimi, c’entra ancor meno con l’autodeterminazione) non ho mai sopportato la commercializzazione e la personalizzazione della politica. Intendo dire che la politica dovrebbe essere fatta di contenuti, non di “strategie commerciali”; accostare “il tuo corpo” e “Lista Tsipras” è proprio questo: si accosta un prodotto a un testimonial, contando che il consumatore (o l’elettore) venga convinto da una data immagine.

Sull’effetto della tua campagna, L’Espresso scrive: “Paola è riuscita a ottenere molto più spazio di quanto aveva conquistato pubblicando centinaia di notizie, analisi, video, infografiche e interviste sull’austerità, sul fiscal compact, sull’aumento della forbice sociale, sul programma della lista Tsipras e sulle idee di Barbara Spinelli. Nei media italiani, ancora nel 2014 e dopo tutto quello che si è detto e fatto per andare un po’ avanti, continua a essere infinitamente più potente un culo”. Triste e solo in parte vero: la critica ai media la condivido, ma non mi sembra che la tua foto abbia aperto praterie di discussioni sul precariato, sulle diseguaglianze sociali o sul fiscal compact. Al massimo, si è rinvigorita la discussione sull’uso del corpo femminile: certo, interessante, attuale e fondamentale. Ma nel dibattito non è entrato altro, la tua foto non ha rotto alcun tabù. Semplicemente hai usato una strategia comunicativa già usata (da altri e per altri scopi) cercando di capitalizzare un vantaggio di visibilità per la Lista. La tua scelta non scombussola le regole: è l’involontaria e forse persino dolorosa rinuncia a poterle sovvertire.

Ora è il momento dell’argomento più spinoso (per me) e che meno riguarda te.
Ti confesso: non t’invidio. Perché ti tocca gestire la comunicazione della Lista Tsipras dopo disastri con cui non c’entri (sinistra arcobaleno e rivoluzione civile, per dirne due). Ti tocca farlo quando molti soggetti, fra i partiti che sostengono la lista europea, sono percepiti da una parte del potenziale elettorato come incapaci, traditori, “poltronisti”… Quel vecchio slogan, “una risata vi sepellirà “, non pensavo sarebbe stato utilizzabile contro di noi (né che la risata fosse quella di Vendola con Archinà…). Non ci fosse stato tutto questo il tuo lavoro sarebbe più semplice…

Paola, davvero pensi che “il messaggio” de L’altra Europa non arrivi alle masse (solo) per l’ostruzionismo dei media? Guarda che è ormai straripante l’insofferenza verso l’informazione tradizionale, sempre più sciatta, omologata, servile… Insomma, un tempo poteva esserci rabbia al pensiero che Porta a Porta ospiti solo il plastico di Cogne; oggi c’è la consapevolezza che esiste un pubblico, diverso da quello di Porta a Porta, interessato a parlare di lavoro, diritti, migranti, beni pubblici… Di “un altro mondo possibile”, consentimi di dire in un rigurgito nostalgico. La campagna referendaria sull’acqua pubblica ha dimostrato che anche in un feroce black out informativo dei media si può vincere, tentando strategie comunicative che ormai solo parzialmente possono definirsi “innovative” o “di nicchia”. Forse è davvero il momento di uscire da schemi preconfezionati, anche nell’informazione e nelle strategie di comunicazione: l’attenzione su certi argomenti c’è, anche se sottotraccia.

Io sono anarchico. Ma spesso ho votato. Non “per il meno peggio”, no: questa in fondo sarebbe una deformazione da sinistra del “voto utile” che tanti danni ha già procurato.
Verso il voto ho un approccio pragmatico. Non m’interessa “prendere il palazzo”, non avendo mai sentito attrazione verso il palazzo o il potere in sé (che ritengo concettualmente nemico mio e dell’essere umano), ma preferirei avere qualcuno, nel palazzo, con cui posso interloquire. E se questo qualcuno è un operaio cassintegrato, un precario eccetera, penso che perlomeno una forma di resistenza culturale verso questo mondo (che non crea ingiustizie e abusi ma che SI BASA su ingiustizie e abusi) la si possa costruire.
Ma, ricordati, è proprio nei grandi media che il liberismo ha vinto, culturalmente e antropologicamente prima che politicamente. Solleticarli usando le loro tecniche (come in fondo hai fatto tu, pur se in buonafede e con sicura ironia) rischia di dare solo l’idea che la nostra sconfitta sia definitiva.

Ti saluto e ti auguro buon lavoro.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 16 aprile 2014

Gipi e il premio Strega: perché sì, perché no

Di quanto stimo Gipi ho parlato poche volte, e ho solo accennato a quanto m’è piaciuto il suo ultimo libro, “unastoria” (vedi qui e qui). Provo a parlarne ancora a seguito del dibattito nato dopo la sua candidatura al Premio Strega.
Un dibattito valido, ben argomentato da entrambe le parti. In coda al mio intervento trovate i links più interessanti, pressochè tutti caratterizzati da un’alta considerazione dell’ultimo lavoro di Gianni e più in generale della sua produzione artistica (segnalo in particolare l’articolo di Matteo Stefanelli).

Si possono trovare elementi condivisibili in entrambi i lati delle “barricate”, pro e contro la candidatura allo Strega del fumetto di Gipi. Da un lato la questione viene posta a livello di pertinenza, come correttamente sintetizza Stefanelli: non si tratta di stabilire se il fumetto sia “più alto o più basso” della letteratura (o di altro mezzo espressivo artistico, aggiungo - e mi sono già trovato in passato a difendere la dignità del mezzo-fumetto), ma più semplicemente di essere consapevoli che il fumetto ha peculiarità artistiche “altre” – né superiori né inferiori, appunto – rispetto a letteratura, teatro, cinema e via di seguito. Dall’altro lato, si sottolinea che un riconoscimento così autorevole può fare bene all'ambiente nostrano della nona arte (e alla sua percezione diffusa) e che accostare “unastoria” a un romanzo non è certo azzardato.

Come accennavo, è difficile dire che solo una delle due opinioni sia valida. E per dirla tutta non credo neppure sia così importante: ancora una volta mi trovo d’accordo con l’analisi più articolata fra quelle formulate, quella già citata di Stefanelli.
Mi permetto dunque di aggiungere solo alcuni elementi di riflessione.

1. A memoria ricordo alcuni casi in cui il fumetto era già entrato nel “salotto buono della cultura”. Il premio Pulitzer a Spiegelman per Maus, i riconoscimenti giornalistici a Sacco, la menzione di Watchmen fra i 100 migliori romanzi in lingua inglese nella lista di Time, tanto per citarne tre. Non ho trovato però, tra i molti articoli spulciati sul dibattito “Gipi-Strega”, menzioni su quale sia la prassi in altri paesi. In Francia (per fare l’esempio di un Paese assai più avanti del nostro a livello di considerazione riservata al fumetto) come si comportano? Sarebbe possibile che un racconto a fumetti entrasse fra i candidati di un premio letterario? La domanda, preciso, non ha intenti polemici, è una “domanda pura” (non ne conosco cioè la risposta) che ha una sua relazione coi punti seguenti.

2. Chi mi conosce sa che nei miei interventi cito spesso De Andrè: per me, un maestro di vita prima che un grande artista. Scusatemi, sarà mania o deformazione mentale, ma ne parlo pure oggi. Perché la discussione nata (Strega o non Strega? Un fumetto può essere considerato romanzo?) m’ha fatto venire in mente quanto si è detto sovente dell’opera di De Andrè: canzone o poesia?
Il cantautore genovese spesso liquidava la questione con una battuta/citazione (“Benedetto Croce diceva che fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”). Se però si ha la pazienza di ripercorrere quanto da lui raccontato a proposito del proprio lavoro (consiglio: De Andrè talk, a cura di Claudio Sassi e Walter Pistarini, Coniglio Editore) noteremo che De Andrè era consapevole della complessità compositiva della sua opera. Che si basava su un mix straordinario di capacità poetica, conoscenza della tecnica musicale (per nulla statica: fu costante la sua ricerca di nuove sonorità, la sua alternanza di arrangiamenti semplici con altri più elaborati e ”raffinati”), consapevolezza delle sue doti vocali (una voce di non grande estensione ma calda ed evocativa, come lui stesso la definiva, che sapeva far cadere o “scivolare” a seconda dell’intensità che intendeva imprimere in un dato momento a ogni canzone). Insomma, è vero che molte sue canzoni possono essere tranquillamente lette come poesie, ma per lui la musica non era semplice ornamento del testo. Versi e musica si fondevano nelle sue creazioni bilanciandosi e valorizzandosi gli uni con l’altra, creando qualcosa che non era poesia e non pretendeva di essere nulla di “più alto” o “più basso” della poesia, ma semplicemente il SUO modo di esprimersi, di fare vibrare delle coscienze. Esattamente come fanno i testi e i disegni di Gipi…

3. Ho già scritto in altre occasioni che non sono tanto preoccupato dalla scarsa considerazione riservata al fumetto in Italia, quanto dalla scarsa considerazione riservata in generale alla cultura, qui da noi. Se fosse migliore la seconda, anche la prima ne gioverebbe.

4. Se la più importante manifestazione fumettistica italiana assomiglia sempre di più a una sagra di paese, va da sé che i premi fumettistici nostrani risentiranno dell’effetto citato dai creatori di Don Zauker (“cazzatelle per ragazzini o per adulti rincoglioniti”). Forse, più che discutere di Gipi allo Strega, si dovrebbe ragionare su come conferire importanza culturale ai riconoscimenti che già esistono nel campo fumettistico, cercando di mutarne una percezione che, quella sì, al fumetto non fa certo bene…

Francesco “baro” Barilli

Leggi anche:
Gipi, lo Strega, e i paradossi del fumetto impertinente
Una graphic novel al premio Strega ha senso? Forse no
Gipi contro la Strega
Gipi al premio Strega: sì o no?

mercoledì 9 aprile 2014

Piazza della Loggia: le domande non fatte al generale Delfino

Con ritardo ho letto questa intervista di Stefania Limiti a Francesco Delfino.
Preciso subito che questo mio articolo è rivolto a chi già conosce, almeno per sommi capi, l’intricata vicenda giudiziaria della strage di Brescia, impossibile da riassumere qui e da me già più volte affrontata.
L’articolo di Limiti è datato 18 febbraio. E’ dunque precedente la sentenza di Cassazione del 21 febbraio, che ha annullato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte e comporterà un nuovo processo d’appello a carico dei due imputati. Una decisione importante che, come ho scritto in altro intervento, sembra sottolineare (si devono attendere le motivazioni e l’esito del nuovo processo) le responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo nel Veneto, di cui Maggi era capo indiscusso, e pure di apparati dello stato (Tramonte era la “fonte Tritone” del Sid).
Ma parliamo dell’intervista a Delfino, capitano dei carabinieri all’epoca dei fatti, protagonista delle prime indagini, imputato e assolto nell’ultimo processo. L’ex ufficiale dice in sostanza di credere ancora alla “pista Buzzi” (ossia alle indagini da lui condotte, che portarono alla prima istruttoria per la strage). Ma soprattutto afferma che già all’epoca delle proprie ricerche sospettò che dietro al “gruppo Buzzi” potesse celarsi l’eversione neofascista organizzata, in particolar modo veneta. Stefania Limiti ricorda che l’ex ufficiale fece affermazioni di analogo contenuto già nella sua audizione alla Commissione parlamentare sulle stragi nel 1997.

Mi permetto dunque di aggiungere alcune domande che potevano essere poste all’interessato. Il quale, se vorrà, potrà rispondere. I miei quesiti sono assai articolati, ma in una storia complessa come quella della strage di Brescia rinunciare alla sintesi giornalistica mi sembra necessario.
Spero che qualcuno possa fare arrivare le domande all’ex generale. E’ possibile che scelga (legittimamente, s’intende) di non rispondere. In ogni caso, a volte il senso di una narrazione può essere reso tanto dalle risposte date quanto da quelle sottaciute.

Domanda 1:
Generale Delfino, nell’intervista afferma che la “pista veneta” fu intuita già all’epoca delle indagini da lei condotte. Dice che a questa pista foste portati dall’allora principale imputato Ermanno Buzzi e ricorda che già ai funerali di Silvio Ferrari erano presenti molti neofascisti veronesi. In realtà la sua indagine portò ad addebitare la strage a soggetti che con la stessa nulla avevano a che fare, con la possibile eccezione di Buzzi. Un impalcato accusatorio complessivo, dall’ideazione all’esecuzione della strage, stridente con le sue attuali affermazioni. Perché dunque insistette nelle indagini a carico del solo “gruppo Buzzi”?

Domanda 2:
Nell’articolo di Stefania Limiti l’autrice la descrive “soddisfatto per la definitiva assoluzione sancita dalla Corte d’appello di Brescia nell’aprile del 2012”. In realtà i giudici d’appello, pur confermando l’assoluzione di primo grado, pronunciano nei suoi confronti dure critiche. Accennano a una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)”, ma quella “spregiudicata attività investigativa … che ha poi finito per inquinarne le risultanze probatorie” sarebbe addebitabile, oltre che a lei, ai primi magistrati. Emblematico, questo passaggio: “quelle dichiarazioni accusatorie e autoaccusatorie pronunciate da Angiolino Papa non furono frutto dell’esclusivo intervento abusivamente esercitato dal cap. Delfino … Era stato il giudice istruttore che, violando la legge, aveva ordinato l’isolamento in carcere di Angelo Papa, il quale, invece, per la strage non era ancora stato inquisito”. Come risponde a queste critiche? Inoltre, alla luce delle sue recenti affermazioni su una sua “intuizione” della “pista veneta”, sorge spontanea un’altra domanda: lei, all’epoca di quelle prime indagini, condivise con i magistrati i suoi sospetti circa le (sintetizzo dalla sua audizione in comm. stragi) “due diverse configurazioni nell'attentato, quella di chi voleva lo scherzo ai rossi …  e quella di chi invece … ha voluto la strage”?

Domanda 3:
La sentenza del 14 aprile 2012 attesta le responsabilità di Ordine Nuovo del Veneto, o perlomeno di schegge residue di quel gruppo (ricordiamo che lo scioglimento di ON fu disposto il 23 novembre 1973 dal ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani), indicando in particolare responsabilità di Carlo Digilio e Marcello Soffiati (entrambi deceduti). Responsabilità specifiche che potrebbero essere arricchite nella “gerarchia” ordinovista dal futuro processo a carico di Maggi e Tramonte. Ma pure riguardo i depistaggi il dibattimento bresciano ha lasciato elementi su cui riflettere. Ne affrontiamo solo quello relativo al fondamentale appunto informativo del SID di Padova, redatto in base a dichiarazioni fornite da Tramonte e confluito nella velina n. 4873 dell’8 luglio 1974. In questo documento Tramonte parla, fra le altre cose, di una riunione tenutasi il 25 maggio a casa di Giangastone Romani. Ebbene, nel Rapporto Investigativo Speciale sottoscritto dal Ten. Col. Manlio del Gaudio il 7 giugno si riporta: “gli sbandati di Ordine Nuovo, secondo una indiscrezione trapelata localmente, stanno dando vita ad una nuova organizzazione dalle due facce: una palese, sotto forma di circoli culturali l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dar vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”. Un testo che rispecchia quasi letteralmente il contenuto del monologo tenuto da Maggi il 25 maggio 1974, così come riferito da Tramonte nella citata velina. Sembrerebbe dunque che quanto raccontato dalla “fonte Tritone”, indipendentemente dalla sua fondatezza, fosse noto al centro di controspionaggio di Padova sin dai giorni immediatamente successivi all’attentato. Lei, generale Delfino, sarebbe stato territorialmente competente a svolgere gli approfondimenti suggeriti dall’appunto. Nessuna indagine risulta però compiuta da lei in questa direzione: fu mai informato (da Del Gaudio o da altri) di tali circostanze?

Domanda 4:
Dopo le sentenze lei ha rilasciato dichiarazioni alla stampa, mentre durante il processo ha scelto di non deporre in aula. Una legittima scelta di qualsiasi imputato, ma che desta perplessità quando adottata da chi, come lei, è stato “uomo delle istituzioni” e pertanto dovrebbe sentire il dovere di collaborare con la magistratura. Perplessità che aumentano pensando proprio alle sue valutazioni che accrediterebbero la “pista veneta”, che come già detto lei sostiene di avere intuito in tempi lontani. Come spiega la sua scelta – ripeto: formalmente legittima – di non testimoniare in aula?

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 26 febbraio 2014

Strage di Brescia, la ricerca della verità è anche una lotta contro il tempo

La sentenza della Cassazione del 21 febbraio sulla strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 è un raggio di sole, per certi versi inaspettato. Lo sintetizza Beppe Montanti, uno dei curatori del gruppo facebook che ha seguito l’ultimo processo. Subito dopo la sentenza, che ha annullato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte (a carico dei due imputati dovrà essere celebrato un nuovo processo d’appello) Beppe ha scritto sulla pagina facebook: “A Brescia, stamane c’è il sole; lo conferma la Corte di Cassazione”.
Il commento esprime la soddisfazione di tutti quelli che da ormai quarant’anni attendono giustizia per la strage, “indiscutibilmente quella a più alto tasso di politicità” come scrisse il 23 maggio 1993 il Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi (semplice omonimia con uno degli imputati del procedimento appena concluso in Cassazione).

In effetti la decisione è importante, pur con tutti i limiti che vedremo poi: valorizza le indagini dei PM Di Martino e Piantoni, svilite dai due precedenti gradi di giudizio, e sembra sottolineare (si devono attendere le motivazioni e soprattutto l’esito del nuovo processo) le responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo nel Veneto, di cui Maggi era capo indiscusso, e pure di apparati dello stato (Tramonte era la “fonte Tritone” del Sid).

Ad onor del vero, già la sentenza di appello del 14 aprile 2012, a differenza di quella di primo grado, aveva affermato la responsabilità di Ordine Nuovo, o perlomeno di schegge residue di quel gruppo sciolto ufficialmente il 23 novembre 1973 dal ministro degli Interni Taviani: tale sentenza, infatti, conteneva pesanti considerazioni verso soggetti ormai defunti (e quindi non condannabili): innanzitutto l’esperto di armi ed esplosivi Carlo Digilio e l’altro ordinovista veneto Marcello Soffiati. Ma “era illogico che Digilio, l'artificiere della bomba, avesse fatto tutto a insaputa di Maggi, che decideva tutte le operazioni di Ordine nuovo nel Nordest. E il rinvio di Tramonte certifica il depistaggio del generale Maletti (ex capo del controspionaggio, ndr) e di chi tenne le carte nei cassetti", come correttamente dichiarato a Repubblica da Manlio Milani, da quarant’anni vera e propria “anima” dei familiari delle vittime.

Proprio riguardo i depistaggi il dibattimento bresciano, pur nel suo fin qui discutibile epilogo, aveva lasciato alcuni elementi su cui riflettere. Innanzitutto proprio la vicenda di quel Gianadelio Maletti, nel 1974 capo del reparto D del Sid, citato da Milani, vicenda che s’intreccia con le informative fornite all’epoca da Tramonte al Sid.
Nato nel 1952, nell’autunno 1972 Tramonte viene attivato come fonte del SID, col criptonimo di Tritone. Collabora in questa veste con il Centro Controspionaggio di Padova, a cui fornisce per mesi informazioni sul mondo della destra eversiva. La sua collaborazione produce un’imponente mole di “veline”. Alcune sono relative a incontri che si sarebbero tenuti nella casa di un dirigente missino, Giangastone Romani, direttore di un albergo ad Abano Terme. In uno di questi documenti si accenna esplicitamente alla “… creazione di una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino … Opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta. L’altro palese, il quale si appoggerà a circoli culturali … avrà il compito di sfruttare politicamente le ripercussioni degli attentati operati dal gruppo clandestino”. Inoltre, sono presenti accenni espliciti proprio alla strage di Piazza della Loggia: “Nel commentare i fatti di Brescia Maggi ha affermato che quell’attentato non deve rimanere un fatto isolato, perché il sistema va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi … L’obiettivo è di aprire un conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato… Lo stesso Maggi e Romani avevano espresso l’intenzione - qualche giorno dopo la strage - di stilare un comunicato da far pervenire alla stampa … Maggi e Romani si proponevano in un primo tempo di accentuare lo sgomento diffusosi nel paese dopo l’attentato di Brescia…”.
Pur essendo stato informato per tempo delle notizie provenienti da “Tritone” , il 29 agosto 1974 Maletti affermò davanti al Giudice istruttore di non avere notizie circa la strage. L’ex generale, dunque, ebbe la possibilità di consegnare alla magistratura quel materiale informativo, emerso successivamente solo nei primi anni ’90, che avrebbe potuto indirizzare le indagini da subito sulla “pista veneta”. Anche la sentenza d’appello rileva che “nessuna chiarificazione sulle vicende sin qui esposte è emersa dall’esame del Gen. Maletti che si è trincerato dietro non ricordo né ha fornito adeguate spiegazioni al perché, allorchè fu sentito dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Brescia il 29.8.1974, nessuna notizia fornì in relazione agli appunti della fonte Tritone nonostante avesse già ordinato di comunicare all’autorità giudiziaria le notizie apprese dalle fonti”.
Un altro elemento interessante sui depistaggi lo si ottiene ragionando sulla datazione della velina n. 4873 dell’8 luglio 1974, centrale nelle indagini dei PM. Ebbene, a grandi linee almeno la parte della velina in cui Tramonte parla della riunione del 25 maggio a casa di Romani (in cui, secondo l’accusa, vennero decisi i dettagli della strage) era già precedentemente nota ai Carabinieri di Padova. Se ne trovano tracce nel Rapporto Investigativo Speciale sottoscritto dal ten. Col. Manlio del Gaudio il 7 giugno 1974: “gli sbandati di Ordine Nuovo, secondo una indiscrezione trapelata localmente, stanno dando vita ad una nuova organizzazione dalle due facce: una palese, sotto forma di circoli culturali l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dar vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”. Un testo che rispecchia quasi letteralmente il contenuto del monologo tenuto da Maggi il 25 maggio 1974, così come riferito da Tramonte nella succitata velina dell’8 luglio. Sembrerebbe dunque che quanto raccontato da Tritone fosse, almeno in parte, noto al centro di controspionaggio di Padova sin dai giorni immediatamente successivi al 28 maggio.

I pubblici ministeri avevano scandagliato anche i rapporti fra il discusso generale dei carabinieri Delfino (capitano all’epoca dei fatti) e Gianni Maifredi (una sorta di “pentito” che consegnò nelle mani di Delfino “l’operazione basilico” favorendo lo smantellamento del MAR di Fumagalli). Clara Tonoli, all’epoca compagna di Maifredi, ha parlato di un rapporto assiduo fra i due, sostenendo che il proprio convivente, anche poco prima della strage, custodiva ordigni esplosivi e armi. Secondo la donna, subito dopo il mattino del 28 maggio Maifredi le disse che Delfino aveva deciso che la famiglia si dovesse allontanare da Brescia per ragioni di sicurezza. In quei giorni l’uomo le avrebbe confidato che l’attentato aveva avuto effetti più devastanti di quelli programmati.
Su Delfino i giudici d’appello, pur confermando l’assoluzione, hanno pronunciato dure critiche, parlando di una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)” e di una “spregiudicata attività investigativa … che ha poi finito per inquinarne le risultanze probatorie”.

L’impianto accusatorio dell’ultimo processo avrebbe dunque probabilmente portato alla sbarra pure altri imputati, se questi non fossero precedentemente scomparsi (i già citati Digilio e Soffiati, l’ordinovista Melioli e Romani, per citarne alcuni), indipendentemente da quello che sarebbe stato, in ipotesi, il verdetto su questi soggetti. Inoltre, proprio due dei sei imputati dell’ultima istruttoria sono deceduti in questi mesi: Giovanni Maifredi il 3 luglio 2009, durante il primo grado; Pino Rauti il 2 novembre 2012, dopo l’appello: la ricerca della verità su Piazza della Loggia è anche una lotta contro il tempo…

Certo, il raggio di sole che, per citare ancora Beppe Montanti, è uscito dalla Cassazione non può e non deve fare dimenticare altre cose. Che in quella strage che colpì una manifestazione antifascista hanno perso la vita 8 persone; che quattro istruttorie e una dozzina di gradi di giudizio non hanno consegnato, per ora, nessun colpevole con sentenze passate in giudicato; che questa “impotenza” della giustizia ha avuto già troppi precedenti in casi analoghi di stragi storicamente ascrivibili alla destra neofascista e con “aderenze” negli apparati dello Stato; che queste “falle” della giustizia dei tribunali hanno già abbondantemente alimentato un revisionismo storico che ha cercato persino di rimettere in discussione la matrice fascista di certi attentati…

Tutto vero.

Ma ora si apre un’altra storia. E gli ultimi imputati su cui dovrà pronunciarsi una Corte sono Maggi e Tramonte: soggetti significativi anche simbolicamente (come detto l’uno rappresenta il vertice ordinovista nel Veneto; l’altro rappresenta le ambigue connessioni fra la destra eversiva e gli apparati di sicurezza statali).
Sì, la ricerca della verità su Piazza della Loggia è anche una lotta contro il tempo… Ma è una lotta estremamente attuale, nonostante i decenni passati, se si vogliono dare risposte anche giudiziarie su ciò che è stata l’Italia negli anni della strategia della tensione.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 14 febbraio 2014

Riflessione sul web: una risposta a Diego Cajelli

Diego Cajelli ha recentemente scritto una interessante e ben argomentata riflessione (“si stava meglio con il 56k?”) sul suo blog. Non la riassumo, vi invito a leggerla: è lunga ma va letta tutta.
Peraltro, essendo anch’io notoriamente prolisso, condivido innanzitutto l’incipit di Diego, in cui sottolinea il malvezzo (ormai assai diffuso, e non solo in internet…) di leggere solo post brevissimi o l’inizio di post più lunghi. Aggiungerei a questo malvezzo quello, a mio avviso intellettualmente ancora più pericoloso nonché paradigmatico dei tristi tempi in cui viviamo, di scrivere su qualsiasi argomento NON delle riflessioni, ma brevi “sentenze”, come se si potesse racchiudere ogni esperienza in 140 caratteri… Come se le infinite possibilità di internet concretizzassero NON l’aspirazione a riflettere su un dato argomento, ma bensì il poterlo sintetizzare con aforismi da Baci Perugina (nella migliore delle ipotesi) oppure con frasi di feroce sarcasmo (nella peggiore). Insomma: si è passati dalla banalità del male alla malvagità del banale…

Quindi, ripeto: leggete il pezzo di Diego. E pure il mio non sarà breve.

Eccoci dunque alla riflessione di Cajelli. Che, in sostanza, lamenta la vera e fattuale ricaduta di internet nelle nostre vite, ben lontana da quella che poteva e doveva essere in teoria e potenzialità. Ossia: internet è un mezzo che poteva cambiare il mondo, non tanto per i soli e oggettivi “orizzonti tecnologici” che dischiudeva, ma perché aveva in sé le potenzialità per favorire una socializzazione diversa e globalizzata (diffondendo sapere e cultura, tanto per semplificare). Alla prova dei fatti (e, preciso, per quanto è possibile vedere oggi) Diego si sofferma in particolare sulle “bufale via web” e dice: “la nostra esistenza reticolare nel mondo è fatta di bufale, di minorati mentali che girano video con migliaia di visualizzazioni, di scie chimiche, di complottisti geotaggati e di like che se vuoi puoi anche comprarli. Tim Berners-Lee e Robert Cailliau si sono dimenticati un pezzetto fondamentale della loro equazione: non hanno considerato come gli utenti avrebbero usato il web.”

Tutto sicuramente triste. E vero.
E l’analisi di Diego è condivisibile (in parte: vedremo poi perché) mentre la soluzione che propone (forse solo provocatoriamente: una censura/chiusura di certi siti) mi sembra un rimedio peggiore del male.

Allora: ho già detto d’essere prolisso (come Diego). Probabilmente con lui condivido anche una naturale tendenza alla nostalgia. Lo dico “a naso”, non conoscendolo se non “virtualmente”, ma sta di fatto che pure io ricordo con nostalgia i “bei tempi” di un web più ristretto e meno diffuso, in cui si poteva commentare il mondo e – persino – sembrava di poterlo cambiare. E non starò a ripetere quanto ho già detto troppe volte in passato sull’importanza del web nel far venire alla luce i fatti di Genova 2001. Quelli che, chi mi conosce lo sa, mi hanno spinto a scrivere. Ma questa, come dice Lucarelli, è un’altra storia…
Sì, è vero, quell’internet fatto di “pochi eletti” era un salotto in cui scambiare opinioni arricchendosi vicendevolmente, non la bolgia sguaiata di oggi. Ma la “gggente” (come dice Diego) che ha sconvolto quella sorta di Eden sul web di prima generazione non è nata dopo. Era sulla soglia, in attesa di poter entrare nel salotto che credevamo nostro. Per essere più brutale: la “gggente” era già in agguato. La semplificazione tecnologica che ha portato a far sì che la “vita on line” sia accessibile a tutti è solo il mezzo che ha prodotto gli attuali effetti. Non la causa.

Io non credo si possa disgiungere un dibattito su “cos’è diventato il web” dal tema, a mio avviso più interessante e importante per quanto sottaciuto, su cos’è diventata la società (almeno quella italiana) dopo almeno trent’anni di pessima politica, cattiva ed asservita informazione, progressiva deconsiderazione di tutto ciò che è cultura. Almeno qui in Italia l’effetto è stato devastante e riverbera sul web. Non ho abbastanza conoscenze e competenza per esprimermi su altri Paesi, ma penso stiano un pizzico meglio: ad altre latitudini il web è temuto perché costruisce opposizione sociale (o addirittura rivoluzioni), produce pensiero “critico”; da noi serve per esprimersi su Sanremo o X Factor.

Tornando alla riflessione di Diego: una chiusura o censura del web (o di certi siti) potrebbe essere davvero la soluzione (al di là della mia idiosincrasia verso ogni forma di limitazione della libertà)? Ma, soprattutto: televisioni, giornali, editoria... stanno davvero meglio del web???

Diego ricorda che “L’omino nella foto che apre questo post una volta ha detto: Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità.”
“L’omino” era Joseph Goebbels, gerarca nazista. Può essere dunque utile ricordare cosa diceva un altro gerarca nazista (Goering) dei pacifisti: “Naturalmente la gente comune non vuole la guerra … Ma, dopotutto, sono i governanti del paese che determinano la politica, ed è sempre facile trascinare con sè il popolo, sia che si tratti di una democrazia, o di una dittatura … Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. E’ facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e in quanto espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi.”

E’ tragico, più che triste, citare due gerarchi nazisti per rilevare quale sia la logica del potere (e di chi lo gestisce) e notare quanto poco sia cambiata. Sono cambiati i mezzi, certo, non la prospettiva. E non è mutata l’antipatia innata del potere verso il libero pensiero e tutto ciò che può produrlo. Se una volta questa innata antipatia creava censura, oggi genera (anche) lo svilimento di quei mezzi, tra cui internet, dove il libero pensiero potrebbe circolare.
Un web dove prosperano bufale e castronerie è assai utile, per questi fini. Ma chiuderlo o censurarlo non sarebbe la soluzione, quanto il segno di una sconfitta.

Francesco “baro” Barilli

martedì 21 gennaio 2014

Ricordiamo Roberto Franceschi…

Il revisionismo storico è sempre in agguato. E, abbiamo visto recentemente, si presenta anche sotto la forma di fiction televisive… Quindi (visto che è meglio prevenire…) dopo aver parlato del caso Pinelli, torno a “saccheggiare” “La Piuma e la Montagna” (Manifestolibri, 2008), libro curato da me e Sergio Sinigaglia. Lo faccio nell’imminenza di un altro anniversario: quello dell’uccisione di Roberto Franceschi, colpito da un proiettile sparato dalla polizia il 23 gennaio 1973 e morto pochi giorni dopo in ospedale.

Così facendo, dopo Licia Pinelli vi presento un’altra donna eccezionale: Lydia Franceschi, madre di Roberto.

La mia intervista a Lydia è del novembre 2007: come già accennato, è apparsa su “La piuma e la montagna”.

Su Roberto Franceschi segnalo anche l’ottimo “Roberto Franceschi, processo di polizia”, di Daniele Biacchessi.

*****

Intervista a Lydia Franceschi

Francesco:
Volevo innanzitutto chiederti qualcosa sui primi tempi, sugli anni in cui nasce Roberto.

Lydia:
Era il periodo in cui fascismo e nazismo erano crollati, e con loro se n’era andata la paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti, delle deportazioni… Credevamo che mai più avremmo sofferto a causa della guerra e, in particolare, di una dittatura che ci aveva impedito di realizzarci in una società libera e democratica. Questo dava alla nostra giovinezza una prospettiva ed una positività tutta particolare anche perché ci sembrava che la società libera e democratica, che avevamo sognato, fosse a portata di mano.
Roberto e Cristina sono nati in questo contesto. Non erano solo figli voluti e amati, rappresentavano pure la continuità delle nostre speranze e delle nostre lotte. Già dalla loro infanzia avevano sviluppato sensibilità nei confronti dei problemi sociali, anche perché in casa se ne parlava tranquillamente.
Il lavoro di mio marito ci portò a Gela, dove ci confrontammo con una mentalità ancora arretrata, con condizioni di vita di una buona parte della popolazione assolutamente inadeguate, in contrasto con quelle della borghesia, un divario economico e sociale spaventoso fra i ceti benestanti e quelli poveri. Credo che anche questo impatto determinò la formazione culturale e, in futuro, l’impegno sociale dei nostri figli. Tornammo a Milano nel 1967. A quel tempo Roberto frequentava il secondo anno del liceo scientifico. Erano anni di fermenti che avrebbero portato alle lotte studentesche.

Francesco:
L’ambiente che gravitava attorno alla scuola com’era? Ricettivo, rispetto alle domande degli studenti? E volevo chiederti anche come tu seguivi le attività di Roberto: ci furono magari contrasti, anche solo circoscrivibili alla “normalità generazionale”, fra di voi?

Lydia:
Sulla tua prima domanda, ricordo un episodio al termine di un'occupazione. Il preside aveva convocato un'assemblea dei genitori: un’esperienza terribile. Gigi, uno studente che aveva cercato di spiegare le ragioni dell'occupazione, fu aggredito verbalmente, ed io, che avevo preso la parola a sostegno degli studenti, fui sommersa da un coro d'insulti anche molto volgari. Non sono mai riuscita a capire il motivo di una rabbia così cieca e irrazionale nei confronti di ragazzi, per di più propri figli, anche se quei genitori potevano non ritenere giuste le proteste e le richieste di rinnovamento che essi andavano esprimendo. Io ho lavorato nella scuola, per cui ho vissuto quegli anni sotto molti punti di vista, come docente e come madre: era una scuola selettiva, arcaica e inadeguata, impermeabile ai nuovi bisogni e alle nuove culture che la società stava esprimendo. E la situazione della scuola rifletteva quella in cui versava lo Stato in generale: la Repubblica e la Costituzione non avevano cambiato la mentalità fascista, né una certa concezione dell’uso del potere. Mancava un rinnovamento, sia nelle persone sia nella mentalità dominante.
Per quanto riguarda i rapporti fra me e Roberto, no, non ci furono contrasti. Molto rapporto dialettico a volte anche duro, ma affetto e stima erano sempre immensi e reciproci. Forse perché io non ero più così reattiva come un tempo, e poi vivevo la paura tipica di una madre: quella che Roberto si esponesse troppo, che la polizia lo potesse fermare e incolpare per fatti a lui non attinenti, che fosse vittima delle spedizioni fasciste.
Ma quando lui mi chiese di costituire il Comitato genitori democratici del Vittorio Veneto (il suo liceo) accettai senza alcuna perplessità, anzi, felice della sua richiesta.

Francesco:
Furono anni difficili?

Lydia:
Gli anni davvero difficili vennero dopo... Il 12 dicembre del 1970, il primo anniversario della strage di piazza Fontana, Roberto tornò sconvolto dalla manifestazione che gli studenti avevano organizzato... I poliziotti avevano sparato candelotti lacrimogeni ad altezza d'uomo, e uno di questi aveva ucciso uno studente, Saverio Saltarelli. Un suo amico e compagno di liceo, colpito, s'era salvato solo fortuitamente. Fu il primo impatto di Roberto con la violenza dello stato. Non poteva credere che la polizia potesse sparare per uccidere, soprattutto in una manifestazione che voleva ricordare le vittime di piazza Fontana e la morte di Giuseppe Pinelli. Ne uscì traumatizzato, e ricordo che ne parlammo per tutta la notte.
Un’altra volta, nel giugno 72, la polizia entrò armata nell'Università Statale, durante un'assemblea del Movimento studentesco. Roberto riuscì a scappare saltando il muro di cinta dell'università, mentre altri studenti venivano circondati in un cortile dell'università dagli agenti armati. Furono fatti uscire fra due ali di polizia e caricati sui cellulari. Molti furono percossi...
Ricordo anche il 12 dicembre 1972, terzo anniversario della strage di piazza Fontana. Roberto mi informò che, anche se  il questore di Milano Allitto Bonanno aveva proibito la manifestazione degli studenti, il Movimento studentesco non avrebbe rinunciato ad andare in piazza: avrebbero fatto contemporaneamente tante manifestazioni in ciascuna delle venti zone di Milano. Quella mattina ero angosciata: l'insofferenza verso gli studenti, soprattutto da parte delle gerarchie delle forze dell’ordine ma anche dell'università, era senza freni. C’era l’aria dello scontro, per “dare una lezione” al Movimento, agli studenti.
Mentre Roberto stava per uscire gli dissi: "Stai attento, ti raccomando, non esporti".
"Perché, è sbagliato quello che faccio?..." mi domandò.
"No, anzi, è giusto", risposi, "ma io non sopravviverei se ti capitasse qualche incidente."
Alle mie parole, lui tornò indietro e mi disse: "Se mi dovesse capitare qualcosa, tu devi continuare nella mia lotta...". Questa frase è oggi incisa sulla porta della cappella nel cimitero di Dorga, dove è sepolto.

Francesco:
Purtroppo sono arrivato a chiederti di quella sera, 23 gennaio 1973…

Lydia:
Quella sera Roberto decise all’ultimo momento di andare all’assemblea studentesca alla Bocconi: in teoria saremmo dovuti andare tutti a teatro, assieme anche alla sua ragazza.
Non ero preoccupata: non sembrava esserci una tensione maggiore rispetto a quella “consueta”. Non sapevamo e neppure gli studenti della Bocconi lo sapevano, che, in quell’occasione, il rettore Giordano Dell'Amore aveva imposto un divieto destinato a non rimanere solo teorico: a quell’assemblea potevano accedere solo studenti della Bocconi, e quindi NON studenti di altre facoltà, lavoratori eccetera. Per di più, a sorvegliare il rispetto di quell’ordine, c’era un massiccio schieramento del III reparto Celere, al comando del tenente Addante.
Seppi qualcosa di quanto successo solo al nostro rientro dal teatro, quando squillò il telefono. Era il suo amico Francesco Fenghi, che ci diceva di andare subito al Policlinico perché Roberto non si era sentito bene. Al Policlinico ci indirizzarono al padiglione Beretta, che in quel momento non sapevo essere quello della rianimazione. Sulle prime non incontrammo nessuno... Non mi rimase che aprire le porte fino a quando lo intravidi, disteso su un lettino, con attorno alcuni medici; lo sentii tossire e mi venne spontaneo dire che in quei giorni aveva un po' di bronchite: immediatamente mi fecero uscire, assicurando che sarebbero venuti subito a darci tutte le informazioni.
Fu il professor Poli ad informarci… Ci disse subito che si trattava di un proiettile, ma non ci parlò della gravità della ferita forse perchè vide la disperazioni negli occhi di noi tre. Dichiarò solo che non era operabile, almeno per il momento, e che il mattino successivo avrebbe avuto un consulto con il direttore del reparto rianimazione.

Francesco:
Quando hai potuto vederlo?

Lydia:
Poco dopo, quando fu portato in reparto. Aveva il viso tumefatto e sfigurato.. Era stato raggiunto da una pallottola da dietro, alla nuca, ma aveva preso anche una botta sul marciapiede quando, colpito, era caduto col volto all'ingiù. I suoi occhi cercavano i nostri con una espressione che chiedeva: cosa è successo? Dove sono?…Pensai che avesse difficoltà a parlare e non gli feci domande… non sapevo che non avrei mai più riudito la sua voce.

Francesco:
Ci furono altri feriti, quella sera?

Lydia:
Sì: Ci furono feriti che non si rivolsero a strutture pubbliche mentre Roberto Piacentini, un operaio che stava vicino a Roberto, colpito alla schiena all'altezza della spalla destra, per la gravità della ferita, fu ricoverato al Policlinico. Furono tutti colpi sparati ad altezza d'uomo, con intento omicida, e per di più esplosi quando gli studenti voltavano già le spalle: Roberto quella sera indossava un maglione bianco a collo alto. La pallottola lo raggiunse proprio dove terminava il maglione. (quanto io affermo è confermato da una sentenza civile, dopo 26 anni di iter giudiziario, dalla corte d’appello di Milano: “…consente di affermare che in base alle emergenze penali può ritenersi pienamente provato che il proiettile estratto dalla nuca di R.F. fu esploso dalla pistola in dotazione all’agente di polizia Gallo Gianni, che la pistola fu impugnata e il colpo sparato da una persona appartenente alle forze dell’ordine e che l’uso dell’arma, lungi dall’essere un episodio isolato, si inquadrava in un ricorso generalizzato all’impiego delle armi da fuoco nei confronti di manifestanti che si stavano allontanando dal cordone costituito dagli agenti e, quindi, in assenza di presupposti che ne potessero far ritenere legittimo l’uso..”)

Francesco:
So che Roberto non morì subito…

Lydia:
Esatto, non riprese mai conoscenza. I medici dissero subito che era entrato in coma profondo. Morì dopo otto giorni terribili in cui pur non allontanandoci né di giorno né di notte dal reparto ci era concesso di vederlo solo per alcuni minuti. Seguii la sua agonia dal buco della serratura, che mi permetteva di vedere almeno i suoi piedi. Riuscii a stare con lui solo la domenica pomeriggio per circa un'ora, perché si era allentata la sorveglianza, quando lo chiamai aprì gli occhi e mi guardò, come a chiedere “perché ?”... Sembrava volesse dire tante cose... Poi mi allontanarono bruscamente. Fu il nostro ultimo silenzioso colloquio e l’ultima volta che lo abbracciai ancora vivo.

Francesco:
I medici, quindi, non ti diedero mai speranze di ripresa?

Lydia:
La speranza c’era solo dentro di me.… speravo che una mattina un medico mi dicesse: "C'è un piccolissimo miglioramento". In realtà i medici furono molto netti. Il professor Maspes, direttore del reparto rianimazione, mi diceva: "Se suo figlio dovesse uscire dal coma rimarrebbe paralizzato per tutta la vita. E anche la sua intelligenza sarebbe compromessa..."
"A me sta bene, ma lei deve fare l'impossibile perché sopravviva!", rispondevo. Ricordo che lui una volta mi rispose: "Non vede che stiamo cercando di mantenerlo in vita, al di là delle possibilità che oggi ha la medicina? Anche l'onorevole Rumor - il ministro degli Interni dell'epoca - mi telefona quasi quotidianamente per chiedermi la stessa cosa, e fosse solamente lui! Non ho più un momento di pace, un attimo per la mia vita familiare”.

Francesco:
Quindi tu, già in quel momento, sapevi che la vicenda di Roberto andava al di là della dimensione personale?

Lydia:
Diciamo che avrei dovuto capirlo, ma a dire il vero in quei giorni ogni mia energia era indirizzata solo su mio figlio. La consapevolezza venne dopo.

Francesco:
E, a proposito di consapevolezza e di “dimensione pubblica” del fatto, i giornali di quei giorni come parlarono dell’accaduto?

Lydia:
Nell’immediato ci furono delle versioni scandalose: Alcuni giornali sostenevano che Roberto era stato colpito da un sasso lanciato dai suoi stessi compagni! Una versione che, purtroppo, abbiamo sentito pure in altri casi seguenti, anche molto recenti (penso, per esempio, a Carlo Giuliani).
Ma la vicenda aveva assunto dimensioni troppo grosse: la storia di due giovani feriti, uno al capo e l'altro alla schiena, da colpi d'arma da fuoco, non puoi metterla a tacere così facilmente. Prima ti dicevo che il professor Maspes mi aveva parlato dell’interessamento di Rumor: il ministro degli Interni aveva dovuto rispondere al Parlamento di fronte a numerose interrogazioni sugli incidenti del 23 gennaio. Insomma, la cosa aveva assunto dimensioni che lasciavano poco spazio ad invenzioni: era stata la polizia a sparare!
In breve tempo tutti i giornali riportarono la notizia nelle prime pagine, ma la Questura fornì comunque versioni dei fatti molto diverse, nel giro di poco tempo.

Francesco:
Sulle versioni della Questura torneremo fra poco, parlando della vicenda processuale. Ora volevo fermarmi ad una considerazione più generale. Come tu sai, da tempo mi occupo di vicende come la tua, che hanno insanguinato il nostro Paese dal dopoguerra ad oggi: vittime delle stragi, ragazzi uccisi dalle forze dell'ordine o dallo squadrismo neofascista… Fatti diversi ma uniti da un'unica strategia: la negazione della verità da parte degli apparati dello Stato. Molti di voi, parenti o amici delle vittime, hanno scelto di cercare verità e giustizia non solo per i propri cari direttamente colpiti, ma per tutti. Volevo sentire da te come e perché è nata questa tensione ideale.

Lydia:
Per quanto mi riguarda, è nata per passione politica personale ed è legata anche alla storia della mia famiglia d’origine: avevo seguito i fatti di Portella delle Ginestre, di Modena, di Genova -Tambroni, di Reggio Emilia, di Avola, di Isola Liri… E poi i giovani: l'anarchico Franco Serantini, ucciso dalla Celere a Pisa, Giuseppe Pinelli e il suo strano volo dalla finestra della questura di Milano, Saverio Saltarelli entrambi caduti a Milano, le vittime di piazza Fontana… Erano tutti episodi di cui avevo parlato a lungo proprio con Roberto. Morti tragiche che si era sempre cercato di far passare rapidamente sotto silenzio, coprendole con depistaggi, omissioni, silenzi che hanno sempre impedito di arrivare alla verità e alla giustizia. E purtroppo quella lista non si è fermata con Roberto, anzi, si è allungata anche in tempi recenti per non dire recentissimi.
Per me era naturale che Roberto lo si dovesse ricordare non in modo isolato: era anche lui vittima “del sistema”, in particolare della polizia usata in senso antidemocratico e repressivo, a salvaguardia degli interessi dei potenti. Anche il monumento che hanno eretto dove fu ucciso si inserisce in questa logica.

Francesco
Come nacque l’idea del monumento?

Lydia:
E’ una storia molto lunga. Già solo due mesi dopo la morte di Roberto, i compagni del Movimento studentesco avevano posto, proprio dove Roberto era caduto (che poi è lo stesso posto dove oggi è collocato il maglio), una lapide.con la scritta: "Qui è caduto, il 23 gennaio 1973, di fronte alla sua università, Roberto Franceschi, mentre combatteva per la democrazia nella scuola e per il socialismo".
Era semplice, di marmo, posata direttamente sul terreno con un fazzoletto di prato attorno. Spesso fu oggetto di vandalismi: alcuni la infrangevano, altri toglievano i fiori che mani amiche posavano attorno, ma io non mi rassegnavo a sostituirla, ogni volta la facevo riaggiustare.
Oltre ai vandalismi, c’erano le lettere anonime, molto spiacevoli… Ma anche quelle non mi facevano arrendere. Anzi, mi dicevo che tutto questo significava che era giusto lasciare in quel posto un segno, qualcosa che colpisse e obbligasse a riflettere, soprattutto sull’uso politico e sociale della violenza.
Nel primo anniversario della morte di Roberto, gli studenti interpellarono lo scultore Alik Cavaliere affinché scolpisse qualcosa da mettere al posto della lapide. Un’idea che mi piacque da subito, ma devo dire che in quel momento non immaginavo gli sviluppi e l’impatto successivi.
Cavaliere decise di coinvolgere altri artisti. Ricordo di aver visto molti bozzetti (furono esposti al parco Ravizza in occasione di una festa del Movimento studentesco, nel 1974). Com’è ovvio, alcuni mi piacevano, altri meno, altri per niente, altri ancora mi lasciavano perplessa. Però pensavo che erano gli studenti a promuovere l’idea, per cui era giusto fossero loro a decidere e a portarla a termine.
Non ricordo esattamente quando (verso la fine del 1975 o all'inizio del 1976), fui contattata da Enzo Mari: lui e Alik Cavaliere mi convinsero a riprendere il progetto, cercando di portarlo a compimento. Ci dicevamo che non doveva essere solo un oggetto “consolatorio” ma tornare alla radice latina della parola monimento, ammonimento. Oggi ha perso questo significato perché spesso un monumento è quello strumento per “sistemarsi la coscienza”, per cercare di pagare debiti di sangue che non hanno prezzo. Per me il monumento doveva essere denuncia e ricordo, non “consolazione”, non qualcosa che vuole placare gli animi, non qualcosa che propone un’improbabile pacificazione fra vittime e carnefici.
Tra l’altro, nel frattempo, avevo maturato anche altri motivi che mi portavano all’idea di un oggetto che fosse un omaggio non solo a mio figlio, ma a tutti quelli che, dal ‘45 ad oggi, erano morti per colpa del potere. Avevo instaurato un rapporto umano e intellettuale con molti familiari di quelle vittime. I parenti dei morti di Modena del 1950, quelli di Reggio Emilia, quelli più vicini temporalmente a Roberto: Pinelli, Lupo, Brasili, Amoroso, Saltarelli, Varalli, Zibecchi… E poi alcuni parenti delle vittime della strage di piazza della Loggia a Brescia: Trebeschi, Bottardi, Pinto. Sono molte persone le cui storie in seguito hai conosciuto pure tu… Persone che non hanno abdicato alla rassegnazione, che raccontano vicende quasi sempre irrisolte dalla magistratura.

Francesco:
Alla fine fu scelto un maglio di ferro alto sette metri; su una lastra di bronzo sono impresse le parole “A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella nuova Resistenza dal ‘45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”.

Lydia:
Credo che alla fine sia stato centrato l’obbiettivo. Un oggetto che serve a ricordare, certo, ma che è impregnato di lotte, di dolore, di traguardi raggiunti e di sconfitte come la storia dell’umanità. Non è un monumento “generico”, che potrebbe avere altre collocazioni o altri scopi. Serve da ammonimento, come è per i forni crematori, le Fosse Ardeatine, altri luoghi di sterminio, di torture o di eccidi. Un’ammonizione per tutti: anch’io, quando passo davanti al maglio, penso non solo a Roberto, ma agli anni della dittatura e delle persecuzioni razziali, a quelli successivi alla teoria degli opposti estremismi, alle vittime della “legge Reale”. Spero che altri, passando lì davanti, siano presi dalla stessa emozione per tanti giovani morti innocenti.

Francesco:
Hai qualche episodio da raccontare, riguardo al monumento?

Lydia:
Mi piace ricordare che il progetto fu presentato anche in altre città, a Pavia, Bergamo, e a Brescia, per il legame che mi univa ai parenti delle vittime di piazza della Loggia. Mi soffermo in particolare su Brescia: quell'anno il Comune aveva posto una stele nel luogo dell'esplosione, senza però aprire preventivamente una discussione con la cittadinanza e con i diretti interessati. Ricordo l’intervento di Manlio Milani. Manlio non è solo il presidente della Associazione dei caduti di Piazza della Loggia, ma pure marito di una delle vittime, Livia Bottardi, che quel giorno gli morì fra le braccia… Quel giorno disse: "Questa stele non rappresenta assolutamente lo spirito e la partecipazione costante di Brescia. Vorrei rivolgere un appello a tutte le forze democratiche e sociali della città per aprire un dibattito, come è stato fatto per Franceschi, sul monumento in piazza della Loggia, che veda i compagni caduti il 28 maggio 1974 uniti, in una continuità ideale, ai compagni caduti durante la Resistenza. Se ciò non avvenisse, la responsabilità storica ricadrebbe su quelle forze che, per interessi di parte, pretendono di far cadere il silenzio su questa strage”. Quelle parole mi convinsero che il progetto che avevamo portato avanti a Milano era quello più corretto.
Mi piace ricordare il 23 gennaio 1983 quando il Siulp milanese (sindacato dei poliziotti democratici) ha deposto sul monumento una corona con la scritta: "A Roberto Franceschi i poliziotti democratici”. Un segno che mi fece sperare moltissimo. Devo aggiungere, con dolore, di aver constatato negli ultimi anni come i sindacati di polizia abbiano fatto parecchi passi indietro rispetto a quei tempi. Il percorso faticoso che si stava compiendo sembra essersi interrotto: basta pensare ai fatti di Genova, a Federico Aldrovandi a Gabriele Sandri…

Francesco:
Volevo che tu mi parlassi ora della vicenda processuale, delle versioni della Questura, cui accennavamo prima.

Lydia:
La questura si distinse per un balletto di versioni. In un primo momento la tesi era questa: l'agente Gallo aveva sparato due colpi (e solo quelli…) che avevano raggiunto Roberto e Piacentini. Poi si corressero parzialmente: lo stesso agente aveva esploso quattro colpi, due in aria e due che avevano colpito i bersagli. La terza versione “divideva” i 4 spari: due colpi li aveva sparati l'agente Gallo e altri due il vicebrigadiere Puglisi. Secondo la quarta versione avevano sparato l'agente Gallo, il vicebrigadiere Puglisi e un altro agente.
Oltre a questo balletto di versioni, ci furono alcuni avvicendamenti nelle indagini. Il primo sostituto procuratore era Antonio Pivotti: aveva raccolto alcune testimonianze che voleva approfondire, non accettava supinamente la versione della polizia, ma le indagini, dopo solo otto giorni, furono affidate al nuovo sostituto, Elio Vaccari. Anche a Vaccari fu tolta l’inchiesta, proprio quando stava per accusare alcuni alti funzionari di polizia e data al giudice istruttore. La versione ufficiale e, diciamo così, “definitiva” della Questura fu alla fine questa: a sparare era stato solamente l'agente Gallo in un momento di raptus. Una versione banale, che non teneva conto di diverse circostanze già emerse: la pistola di Gallo e quelle di altri agenti risultavano manomesse, alcuni rapporti redatti da responsabili del III reparto Celere erano falsi, i bossoli di pistola ritrovati sul luogo del delitto erano più di dieci (altri bossoli sparirono dopo essere stati raccolti dalle guardie e consegnati ai superiori), il numero degli sparatori era almeno di cinque soggetti (ed alcuni avrebbero usato armi non in loro dotazione). E potrei andare avanti con elementi sempre più inquietanti: pensa che la versione della polizia fu successivamente smentita da alcuni testimoni, tra i quali un avvocato di Stato, che parlarono di numerosissimi colpi di pistola e notarono un uomo in abito grigio, vicino alle prime macchine della colonna della Celere, che sparava verso gli studenti a braccio teso.
In generale la versione ufficiale tentava di diminuire il numero dei colpi esplosi e contemporaneamente di aumentare l’entità della "minaccia" portata dai ragazzi. Poi, si cercò di scaricare l’omicidio sul solo Gianni Gallo, invocando il suo presunto stato di panico… L’inchiesta dovette superare un muro di omertà, reticenze e prove sottratte o falsificate, ma comunque arrivò a stabilire che erano almeno 5 gli agenti o funzionari che avevano sparato: con un’analisi del genere mi sembra sia difficile parlare di una decisione di singoli di fare uso delle armi, ed altrettanto improbabile mi sembra l’affermazione che un solo agente avrebbe esploso due soli colpi, e nonostante il suo presunto stato di panico avrebbe centrato i bersagli con precisione da cecchino…
Si arrivò ai processi, con qualche risultato “clamoroso”: oggi si può dire con certezza che Gallo, l’agente titolare della Beretta da cui erano stati esplosi i proiettili che avevano ucciso Roberto e ferito Piacentini, personalmente non aveva sparato neppure un colpo. Venne allora incriminato il vicequestore Paolella, che sosteneva di non essere stato armato e di non aver sparato. Risultò invece, da altre analisi di tipo chimico, che anche lui aveva sparato, quella sera; forse proprio con la pistola di Gallo, perché agli atti del processo restò una frase sibillina, che Gallo avrebbe detto ad un collega parlando della pistola: "Che cosa avresti fatto se un superiore te l'avesse chiesta... tu non l'avresti consegnata?". Ma anche Paolella fu assolto. Il brigadiere Puglisi e il capitano Savarese furono condannati per "falso ideologico" (ossia per avere contraffatto le prove e redatto verbali falsi per coprire le responsabilità) ma restarono gli unici condannati… Insomma, i colpi (mortale quello per Roberto, grave quello per Piacentini) erano partiti dalla pistola di Gallo, impugnata da qualcun altro, ma ufficialmente nessuno sa quello che accadde la notte del 23 gennaio. Chi sapeva ha preferito tacere, ed è terribile pensare che questo percorso di mancata giustizia è comune a molte altre vicende, che abbiamo ricordato prima, e che sembra prospettarsi anche per fatti molto recenti.

Francesco:
Perché poi ti occupasti del movimento dei poliziotti?

Lydia:
Probabilmente per una deformazione professionale. Nella scuola la mia attenzione è stata sempre rivolta verso gli studenti in difficoltà per motivi diversi, che cercavo di capire per aiutarli. Poiché non si nasce poliziotti mi interessava capire come si costruisce un poliziotto; su quali valori viene rieducata la sua mente al punto di vedere in una persona solo una sagoma da bersaglio? Incontrai in quegli anni alcuni poliziotti che facevano parte di quel movimento che cercava di prendere coscienza del loro ruolo di cittadini e di lavoratori rifiutando quello di sbirro imposto da coloro che per governare hanno bisogno di una polizia al servizio del potere. Ne ebbi la conferma durante il primo processo in Corte d’Assise quando il capo della polizia, il questore di Milano assieme a tre vicequestori, al colonnello comandante del III Celere, al cappellano militare, hanno continuato a mentire in maniera spudorata. Come può maturare negli agenti di polizia una coscienza civile avendo come maestri e comandanti questi tipi di superiori la cui mentalità si è perpetuata anche in quelli che oggi ricoprono  cariche.simili?
Una cosa vorrei ricordare, la memoria non è semplice ricordo del passato se vogliamo trasmettere il filo della democrazia, che con fatica abbiamo forgiato. Per questo, come famiglia di Roberto, abbiamo costituito la Fondazione Roberto Franceschi non solo per ricordare uno studente democratico ma soprattutto per continuare sulla scia dei valori e dei progetti di Roberto quando affermava che, come membri della comunità umana, abbiamo il dovere di ricercare strade nuove capaci di far rispettare i diritti universali in qualsiasi latitudine del nostro pianeta.