Con ritardo ho letto questa intervista di Stefania Limiti a Francesco Delfino.
Preciso subito che questo mio articolo è rivolto a chi già conosce, almeno per sommi capi, l’intricata vicenda giudiziaria della strage di Brescia, impossibile da riassumere qui e da me già più volte affrontata.
L’articolo di Limiti è datato 18 febbraio. E’ dunque precedente la sentenza di Cassazione del 21 febbraio, che ha annullato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte e comporterà un nuovo processo d’appello a carico dei due imputati. Una decisione importante che, come ho scritto in altro intervento, sembra sottolineare (si devono attendere le motivazioni e l’esito del nuovo processo) le responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo nel Veneto, di cui Maggi era capo indiscusso, e pure di apparati dello stato (Tramonte era la “fonte Tritone” del Sid).
Ma parliamo dell’intervista a Delfino, capitano dei carabinieri all’epoca dei fatti, protagonista delle prime indagini, imputato e assolto nell’ultimo processo. L’ex ufficiale dice in sostanza di credere ancora alla “pista Buzzi” (ossia alle indagini da lui condotte, che portarono alla prima istruttoria per la strage). Ma soprattutto afferma che già all’epoca delle proprie ricerche sospettò che dietro al “gruppo Buzzi” potesse celarsi l’eversione neofascista organizzata, in particolar modo veneta. Stefania Limiti ricorda che l’ex ufficiale fece affermazioni di analogo contenuto già nella sua audizione alla Commissione parlamentare sulle stragi nel 1997.
Mi permetto dunque di aggiungere alcune domande che potevano essere poste all’interessato. Il quale, se vorrà, potrà rispondere. I miei quesiti sono assai articolati, ma in una storia complessa come quella della strage di Brescia rinunciare alla sintesi giornalistica mi sembra necessario.
Spero che qualcuno possa fare arrivare le domande all’ex generale. E’ possibile che scelga (legittimamente, s’intende) di non rispondere. In ogni caso, a volte il senso di una narrazione può essere reso tanto dalle risposte date quanto da quelle sottaciute.
Domanda 1:
Generale Delfino, nell’intervista afferma che la “pista veneta” fu intuita già all’epoca delle indagini da lei condotte. Dice che a questa pista foste portati dall’allora principale imputato Ermanno Buzzi e ricorda che già ai funerali di Silvio Ferrari erano presenti molti neofascisti veronesi. In realtà la sua indagine portò ad addebitare la strage a soggetti che con la stessa nulla avevano a che fare, con la possibile eccezione di Buzzi. Un impalcato accusatorio complessivo, dall’ideazione all’esecuzione della strage, stridente con le sue attuali affermazioni. Perché dunque insistette nelle indagini a carico del solo “gruppo Buzzi”?
Domanda 2:
Nell’articolo di Stefania Limiti l’autrice la descrive “soddisfatto per la definitiva assoluzione sancita dalla Corte d’appello di Brescia nell’aprile del 2012”. In realtà i giudici d’appello, pur confermando l’assoluzione di primo grado, pronunciano nei suoi confronti dure critiche. Accennano a una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)”, ma quella “spregiudicata attività investigativa … che ha poi finito per inquinarne le risultanze probatorie” sarebbe addebitabile, oltre che a lei, ai primi magistrati. Emblematico, questo passaggio: “quelle dichiarazioni accusatorie e autoaccusatorie pronunciate da Angiolino Papa non furono frutto dell’esclusivo intervento abusivamente esercitato dal cap. Delfino … Era stato il giudice istruttore che, violando la legge, aveva ordinato l’isolamento in carcere di Angelo Papa, il quale, invece, per la strage non era ancora stato inquisito”. Come risponde a queste critiche? Inoltre, alla luce delle sue recenti affermazioni su una sua “intuizione” della “pista veneta”, sorge spontanea un’altra domanda: lei, all’epoca di quelle prime indagini, condivise con i magistrati i suoi sospetti circa le (sintetizzo dalla sua audizione in comm. stragi) “due diverse configurazioni nell'attentato, quella di chi voleva lo scherzo ai rossi … e quella di chi invece … ha voluto la strage”?
Domanda 3:
La sentenza del 14 aprile 2012 attesta le responsabilità di Ordine Nuovo del Veneto, o perlomeno di schegge residue di quel gruppo (ricordiamo che lo scioglimento di ON fu disposto il 23 novembre 1973 dal ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani), indicando in particolare responsabilità di Carlo Digilio e Marcello Soffiati (entrambi deceduti). Responsabilità specifiche che potrebbero essere arricchite nella “gerarchia” ordinovista dal futuro processo a carico di Maggi e Tramonte. Ma pure riguardo i depistaggi il dibattimento bresciano ha lasciato elementi su cui riflettere. Ne affrontiamo solo quello relativo al fondamentale appunto informativo del SID di Padova, redatto in base a dichiarazioni fornite da Tramonte e confluito nella velina n. 4873 dell’8 luglio 1974. In questo documento Tramonte parla, fra le altre cose, di una riunione tenutasi il 25 maggio a casa di Giangastone Romani. Ebbene, nel Rapporto Investigativo Speciale sottoscritto dal Ten. Col. Manlio del Gaudio il 7 giugno si riporta: “gli sbandati di Ordine Nuovo, secondo una indiscrezione trapelata localmente, stanno dando vita ad una nuova organizzazione dalle due facce: una palese, sotto forma di circoli culturali l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dar vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”. Un testo che rispecchia quasi letteralmente il contenuto del monologo tenuto da Maggi il 25 maggio 1974, così come riferito da Tramonte nella citata velina. Sembrerebbe dunque che quanto raccontato dalla “fonte Tritone”, indipendentemente dalla sua fondatezza, fosse noto al centro di controspionaggio di Padova sin dai giorni immediatamente successivi all’attentato. Lei, generale Delfino, sarebbe stato territorialmente competente a svolgere gli approfondimenti suggeriti dall’appunto. Nessuna indagine risulta però compiuta da lei in questa direzione: fu mai informato (da Del Gaudio o da altri) di tali circostanze?
Domanda 4:
Dopo le sentenze lei ha rilasciato dichiarazioni alla stampa, mentre durante il processo ha scelto di non deporre in aula. Una legittima scelta di qualsiasi imputato, ma che desta perplessità quando adottata da chi, come lei, è stato “uomo delle istituzioni” e pertanto dovrebbe sentire il dovere di collaborare con la magistratura. Perplessità che aumentano pensando proprio alle sue valutazioni che accrediterebbero la “pista veneta”, che come già detto lei sostiene di avere intuito in tempi lontani. Come spiega la sua scelta – ripeto: formalmente legittima – di non testimoniare in aula?
Francesco “baro” Barilli
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