venerdì 21 aprile 2023

Prenderemo un caffè a Huesca

Ho un’età in cui nella rubrica del telefono sono presenti nomi di persone scomparse. Potrei cancellarli ma non lo faccio. Alcuni fanno più male di altri. Quello di Paola Staccioli è uno di questi.

Nel 2007, proprio per il 25 aprile, avevo collaborato a una sua iniziativa. La rossa primavera uscì in allegato con Liberazione e L’Unità (successivamente per Edizioni Clandestine). Si trattava di una raccolta di racconti, inserita nel progetto lanciato con In ordine pubblico e Piazza bella piazza (anch’esse curate da Paola). Un lavoro a più mani di ricostruzione di storie e memoria attraverso la narrativa.
La rossa primavera era imperniata su figure dell’antifascismo “a 360 gradi”. Si parlava della resistenza partigiana, del ventennio, delle barricate a Parma, della guerra di Spagna…
C'era anche un mio racconto: Prenderemo un caffè a Huesca, imperniato sulla figura di Emilio Canzi.

Ci siamo sentiti ancora, io e Paola. Collaborammo ancora, nel 2011, per ricordare Carlo Giuliani in Per sempre ragazzo. Poi ci siamo persi un po': la malattia sua, la mia... I mille casini in cui si incaglia la vita, insomma. Qualche messaggio, poi il tempo è stato ingiusto e crudele.

Paola è scomparsa il 31 luglio 2021.

Oggi pubblico quel mio vecchio racconto, anche stavolta per un 25 aprile. È il mio modo di ricordare Paola con affetto sincero. Lo stesso con cui dedico alla sua memoria queste righe.

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Prenderemo un caffè a Huesca


Carmen gliel’ha detto diverse volte: “Dottore, scusi se mi permetto, ma dovrebbe mettere ordine fra le sue carte: su scrittoio e libreria ho rinunciato a fare la polvere.”

Fernando Rinaldi entra nel suo studio con quel rimprovero nelle orecchie. A 85 anni non è bello sentirsi riprendere dalla donna delle pulizie, e a sua discolpa pensa che a una certa età il concetto di utile diventa vago, ma guardando quella stanza deve ammettere che Carmen ha ragione: sembra il negozio di un rigattiere. Prova a farsi forza, cercando dentro di sé il pragmatismo e l’orgoglio del medico, e decide che le emozioni non gli impediranno di rintuzzare la critica e di mettere ordine fra pile di cartacce, libri, ricordi.

Quando è il turno delle foto procede con metodo, separando persone care da volti ormai sconosciuti, per poi guardare meglio le immagini dell’ultima pila e scegliere quali buttare davvero. In poche si salveranno dalla distruzione, ma sarà proprio una di queste a colpirlo nell’anima. È scivolata dalle pagine di Omaggio alla Catalogna di Orwell. L’uomo a sinistra non sa neppure chi sia. Quello sulla destra – basco scuro, fucile a tracolla, pistola alla cintura – come dice la scritta dietro la fotografia è Il comandante partigiano Emilio Canzi, anarchico libertario.


Piacenza, inizio ottobre 1945.

Fernando Rinaldi cammina tranquillo lungo il corridoio dell’ospedale e spera che nessuna richiesta arrivi da quella stanza. Troppe responsabilità per le sue spalle, che sente ancora fragili. Per questo il sangue gli si gela nelle vene quando sente una voce femminile chiamarlo.

«Dottor Rinaldi… Mi perdoni, le chiedo un minuto…».

Conosce solo di vista quella ragazza. “Come, non sai chi è?”, lo aveva apostrofato un collega due giorni prima. “È Bruna, la figlia di Canzi. Poveretta, il padre l’ha conosciuto poco, ma deve amarlo molto. È qui tutto il giorno.”

«Dottore, vorrei sapere qualcosa su mio padre.»

Con Bruna ci sono due giovani. Il medico si avvicina, e nota che uno è armato, nonostante ai partigiani sia stata già imposta la restituzione delle armi, e questo lo mette a disagio: «Guardate che potete andare. Non c’è nulla che…».

Uno di quei ragazzi lo interrompe con cortese fermezza: «È il nostro colonnello. E noi stiamo qui con lui.»

Più della sostanza lo colpisce il tono di quelle parole. Interviene l’altro: «È stato organizzatore degli Arditi del popolo qui a Piacenza, sa? Ha conosciuto i campi di concentramento nazifascisti, in Spagna è stato nominato comandante delle Brigate Internazionali, e qui da noi comandante di zona… Sono tutti riconoscimenti guadagnati grazie alla fiducia di uomini come noi, che ci affidavamo a lui. Ora è lui ad avere bisogno, non l’abbandoniamo di certo…»

Bruna sembra comprendere: «Dottore, la prego di capire. Le do la mia parola che si tratta solo di una precauzione. E vorrei fosse chiaro che noi, tutti noi, abbiamo la massima fiducia in voi.»

«Mi scusi lei, non intendevo certo insinuare… È che le armi non le vorrei più nemmeno vedere. Specie qui.»

«La capisco. Lei è medico per salvare delle vite. Immagino non ami le armi… Mi creda: anche mio padre non le ha mai amate, e così pure questi ragazzi. Ciò nonostante, sono state necessarie.»

Rinaldi si sente in colpa. L’ultima frase gli ricorda la distanza tra il suo tiepido antifascismo e quello di chi ha rischiato la vita per lui, per tutti. In un impeto di coraggio aggiunge: «Ha la mia parola che qui dentro nessuno farà problemi per la vostra presenza. E, per qualsiasi evenienza, chiamatemi. Più tardi arriva il primario e gli ricorderò di passare da lei, glielo prometto. Posso assicurarle che stiamo facendo tutto il possibile per…»

Bruna lo interrompe: «La ringrazio. Davvero, di tutto.»

Fernando la vede entrare nella stanza del padre. Resta pochi secondi a osservarla. Canzi si è assopito, la figlia gli prende dolcemente la mano, devastata nella battaglia di Huesca, e la mette sotto la coperta. Certi piccoli gesti, pensa il medico, denotano tanto amore quanto minore è il loro apparire.


Il dottor Rinaldi è seduto al suo scrittoio, quella foto fra le mani. Gli è difficile pensare a una vita così distante, che lui seppe ricostruire imitando la fatica dei salmoni, nuotando controcorrente nel tempo, riunendo e accostando i vari tasselli raccolti: le poche parole di Canzi, i racconti dei compagni e della figlia, l’aneddotica un po’ confusa e un po’ epica di ogni figura che dopo la morte diventa leggenda.

Emilio Canzi, nato piacentino e anarchico, forse neppure in quest’ordine. A ventisette anni ha già combattuto una guerra, ma l’avvento dello squadrismo lo porta a militare negli Arditi del popolo e a diventare un fuorilegge. Nel 1922 fugge a Parigi per evitare l’arresto. Una parentesi di tranquillità, l’amore… ma il destino si diverte a scrivere con i toni del romanzo anche questa pagina della sua vita. S’innamora della figlia dell’amico Vito Parmeggiani, scontrandosi con lui perché Vittorina ha solo quindici anni. Stavolta la fuga, in Costa Azzurra, è per amore. Il nuovo traguardo, la nuova battaglia, è un amico da riconquistare: ci riuscirà solo nel 1930, l’anno in cui si sposa e nasce Pietro. Bruna, la prima figlia, era arrivata nel ‘24.

Quel periodo è un’oasi di pace in una vita tormentata che sta per essere scompaginata nuovamente, perché con il 1936 arriva la Spagna. Un Paese diviso in due, una parte controllata dai golpisti del generale Franco, appoggiati da Hitler e Mussolini, l’altra schierata col governo repubblicano. I repubblicani guardano alla Francia e alla Russia, inutilmente. Stalin darà un aiuto, ma più che alla sconfitta dei golpisti sembrerà interessato a ridimensionare gli eretici per ristabilire il primato della “ortodossia comunista”.

Emilio si troverà stretto fra l’affetto della famiglia e la coscienza che lo attira verso la Spagna, dove il fascismo, suo eterno nemico, lo attende. Sarà tra i primi, nel settembre del ‘36, a precipitarsi in Aragona.


Spagna, fine maggio 1937.

Emilio Canzi ricorda. La moglie e i figli, certo, ma anche la Spagna dei primi mesi. L’Aragona gli era sembrata un sogno. Ha visto vecchi braccianti piangere di gioia, non più sfruttati e umiliati, ma protagonisti delle Comuni agricole. Ha visto i muri di Barcellona, i manifesti del Fronte Popolare attaccati su ogni casa, i tram dipinti di rosso e nero, i camerieri che non ti chiamano più “señor” ma “camarada”… Ricorda un sogno che sembrava essersi fatto realtà, il sogno dell’anarchia.

Ma Canzi sa che la malinconia è un avversario infido. Per uomini come lui il ricordo e i sogni sono un lusso pericoloso. Non ha mai pensato che sarebbe stato facile, sa che non è mai stato facile, né mai lo sarà.

La voce di un compagno lo distoglie dai pensieri: «Ti vedo cupo. Qualcosa ti preoccupa?»

«Tutto. E niente… Ferruccio, m’aveva solo preso un po’ di nostalgia.»

L’amico sbotta a ridere: «Pensavo che a uno come te non capitasse!»

«Capita, capita… Sai, ieri notte stavo facendo un giro d’ispezione delle trincee. Ho trovato un compagno spagnolo. Parlava con uno di là, un fascista: era il fratello, sai?»

Ferruccio s’incupisce: «Che gli diceva?»

«No, cosa vai a pensare! Si raccontavano di come stanno. Si aggiornavano sui lutti… E l’uno chiedeva all’altro di venire dalla propria parte.»

«E tu non gli hai detto nulla? Emilio, non mi sembra il caso di…»

«No, non gli ho detto nulla. Con che coraggio potevo dirgli qualcosa?»

Dopo un lungo silenzio Ferruccio riesce a sputare la frase che stava rimuginando: «Emilio, io dopo Barcellona non so più che fare…»

Canzi si stropiccia la faccia e i capelli: «Lo so. Ti capisco, e rispetterò qualsiasi tua decisione. Anch’io ci sto male.»

«Sapevo che una guerra civile non è una guerra normale. Se possibile è ancora più sporca e dolorosa, si piange lo stesso sangue coperto da una bandiera diversa… Ma questa è ancora più bastarda…»

«Lo so, ma i fascisti…»

Ferruccio alza la voce: «Il problema non sono più solo i fascisti, Emilio! Dopo Barcellona non possiamo non vederlo. La volontà di Stalin di normalizzare le milizie è arrivata troppo oltre… Questa guerra ormai è un regolamento di conti tra noi, non possiamo fare finta di…»

Canzi non alza la voce. Non lo fa quasi mai, men che meno con i compagni, ma taglia l’aria con un cenno della mano, come a non ammettere repliche: «Lo so. Cosa credi, che io non pensi a Camillo, a Francesco? Agli altri? Lo sai cos’era Camillo, per me…»

Ferruccio si siede a terra. Si accende una sigaretta, la testa bassa. Poi guarda in faccia l’amico: «Tu che farai? L’Alto Comando insiste per tornare all’assalto di Huesca…»

Emilio resta a lungo in silenzio. «Capisco tutte le contraddizioni, Ferruccio. Ma io vado. Semplicemente perché quello è il mio posto, e il fascismo il mio nemico. E soprattutto perché lo devo proprio a Camillo e agli altri. Anche ora, anche con tutto quel che è successo a Barcellona.»

Ferruccio si fa ancor più pensieroso: «Emilio, dici che durerà ancora tanto?»

«Tanto? Una vita, Ferruccio. La nostra lotta durerà tutta la vita, questo lo so per certo.»


Fernando pensa a quel dialogo. Come lo conosce? Chi glielo ha raccontato? Con quali dettagli la sua memoria lo sta ingannando?

Tormenta una sigaretta fra le mani. Carmen l’ha rimproverato anche per quelle. Sa che ha ragione, ma se ne frega e l’accende. Il fumo sembra fare ordine nei suoi ricordi e nella storia.

La battaglia di Huesca è una dura sconfitta per i repubblicani. Emilio viene ferito e ricoverato per due mesi a Barcellona. Sicuramente è terribile per lui, abituato a vivere in prima linea, essere relegato ad ascoltare impotente le notizie sempre peggiori che giungono dalla Spagna. A fine agosto viene dimesso e torna a Parigi. La Spagna repubblicana trascinerà la propria primavera ancora per un anno o poco più. Nel ‘39 cade anche Barcellona, a marzo i franchisti entrano a Madrid. Una guerra si è conclusa amaramente, una ancora più sanguinosa sta per iniziare.

Viene nuovamente arrestato e deportato. Fuggirà dal campo di detenzione dopo l’8 settembre. Torna a Piacenza, ha cinquant’anni e potrebbe scegliersi un ruolo più defilato, invece prende la via della montagna. Stavolta il suo eterno nemico viene sconfitto, ma proprio ora che può assaporare la vittoria, dedicarsi alla famiglia e al sogno libertario, vede compiersi il suo destino. Il 30 settembre del ‘45 viene investito a Piacenza da un camion militare alleato, mentre sta viaggiando in motocicletta sul sellino del passeggero.


Piacenza, fine ottobre 1945.

Emilio Canzi respira a fatica. Fernando entra nella stanza: nonostante la sua scarsa esperienza, ormai gli è chiaro che il vero pericolo viene da quella pleuropolmonite, non più dalle fratture o dall’amputazione della gamba effettuata subito dopo l’incidente. Forse proprio per questo quando lo sente ansimare si avvicina al suo letto e prova a distogliere l’attenzione da quel respiro affannoso: «E la mano? Come se l’è conciata così, se posso chiedere?»

«Questa ferita è della Spagna…» Poi prosegue con difficoltà: «Huesca, i fascisti…»

«Non si sforzi. Ora non deve più pensare ai fascisti. Li abbiamo battuti, grazie a quelli come lei…»

«Qui sì. Ma in Spagna…»

«Ora deve pensare a stare tranquillo, perché la polmonite…»

Canzi lo interrompe con l’unico sorriso che sa donargli: «Anche questa… un regalo dei fascisti. Nella neve per settimane, durante il grande rastrellamento…»

Il suo ansimare gli arriva dentro, nel cuore, e parla a quel senso di colpa che Fernando ha già sentito incontrando Bruna. Impotente come medico, è l’uomo a parlare: «Tutti noi le dobbiamo un grosso grazie per quel che ha fatto. Tutti, per primi quelli come me, che non hanno mai preso le armi e forse, grazie a quelli come lei, non le prenderanno mai.»

Canzi fa un cenno con la mano, come a dire che non c’è bisogno di ringraziare.

«Sono io, invece…» prova a dire, ma il respiro si fa ancora più greve. Stavolta in Fernando è il medico ad avere il sopravvento: «Lasci stare. Immagino che lei non sia abituato a prendere ordini, ma in questo caso faccia un’eccezione e ne accetti uno: riposi e non cerchi di parlare. Ne discuteremo un’altra volta.»


Si sbagliava, non avrebbero avuto altre occasioni, e pochi giorni dopo la sua morte seppe che Emilio Canzi aveva lasciato tutti gli averi in denaro agli infermieri dell’ospedale. Davvero troppi i motivi per dirgli grazie, e non gliene aveva detti abbastanza.

Colpisce lo scrittoio con un pugno. La sigaretta è finita e già ne vorrebbe un’altra, ma resiste. Guarda la mano: sanguina, fa male. Si sente stupido, ma anche piacevolmente vivo, perché quella è la rabbia dei vent’anni, di quando era un medico sbarbatello, in servizio proprio il giorno dell’incidente.

Prova ancora vergogna al pensiero che sulle prime l’evento non gli procurò partecipazione: era sul finire del turno, e imprecò per il prolungamento forzato del servizio. La condivisione venne in seguito, ma non bastò. E neppure riuscì a conoscere Canzi quanto avrebbe voluto. Fernando sentiva il suo fascino, ma quel carisma aveva anche il sapore di un peso troppo grave per la sua competenza di medico, non ancora pienamente maturata, e il precipitare della situazione non favorì certo l’approfondirsi dei contatti.

Vedeva quell’uomo alto e robusto, ora debole e indifeso… Sentiva le aspettative di amici e parenti affievolirsi, e i medici, fragili custodi di quelle speranze, stavano fallendo nel loro compito. Dopo quella mattina di fine ottobre, la salute del colonnello anarchico peggiorò rapidamente. Morirà il 17 novembre.


Piacenza, novembre 1945.

Così come nel giorno dell’incidente, il caso ha voluto che Rinaldi sia in servizio anche il giorno della morte. L’infermiere di turno ha consegnato a lui quella foto, unica cosa dimenticata dai familiari e dai compagni che hanno liberato la stanza.

Al funerale c’è tantissima gente, proprio come il 28 aprile, quando Canzi è stato accolto come un eroe in piazza Cavalli. Due occasioni distanti pochi mesi, in cui Piacenza ha saputo dimostrargli la sua riconoscenza: sarà così anche per la sua memoria, si domanda?

Tutta quella folla lo intimorisce. Resta nel fiume di persone inebetito e un po’ fuori posto, vergognandosi per la sua eccessiva discrezione, che gli impedisce di avvicinarsi a Bruna per restituire la foto che tiene in tasca. Nei giorni successivi continuerà a rimandare, fino a rinunciare definitivamente.

Mette l’immagine fra le sue. Decide di riporla nella copia di Omaggio alla Catalogna, in una delle prime pagine dove Orwell accenna a Huesca. Gli piace mettere quella foto proprio lì. Ha conosciuto Canzi debole e ferito, ma vuole ricordarlo così: in posa col fucile a tracolla, con quell’aria austera e ottimista che sembra esorcizzare la sconfitta più dolorosa.

Ha messo due cerotti sulle nocche della mano. Non si è gonfiata, sembra a posto. Alcune gocce di sangue, sulla scrivania. Le pulisce col fazzoletto, che poi butta nella spazzatura: se Carmen lo trova sporco di sangue, chissà cosa va a pensare, e poi potrebbe preoccuparsi.

Con la memoria torna ai primi giorni della degenza di Canzi, quando si temevano più le conseguenze dell’amputazione che il riacutizzarsi della polmonite. Fernando pensa ancora a quel colloquio con Bruna e con quel giovane che per primo gli raccontò chi era il colonnello anarchico. Quel ragazzo si chiamava Gino Bergnia, conobbe proprio lì all’ospedale la figlia di Canzi, se ne innamorò e la sposò pochi mesi dopo, condividendo con lei tutta la vita.

Gli scappa un sorriso: su Bruna un pensierino l’aveva fatto, ma la timidezza… L’avrebbe rivista solo un’altra volta, da lontano.


Peli, aprile 1975.

Fernando litiga con la moglie: «Non capisco perché, con tutto quel che abbiamo da fare durante la settimana, butti via una domenica per andartene a Peli. Vorrei sapere cosa vuoi cercare.»

Neppure lui lo sa. Lungo le tortuose stradine che da Piacenza si inerpicano fino a Bobbio e poi a Peli non immagina quali sensazioni proverà, perché le sensazioni si vivono, difficilmente si possono spiegare.

Fernando Rinaldi è cambiato: non più un giovane medico, ma un affermato professionista, e il suo impegno è maturato piano piano, dal tiepido antifascismo dell’osservatore fino alla militanza nel Pci. Ma non è solo la coscienza politica a portarlo a quella festa partigiana, lì a Peli, dove la Resistenza piacentina è nata e dove Emilio Canzi ha voluto essere seppellito.

Sul palco proprio Bruna. Ora è cinquantenne, ma ancora si vedono i segni della donna giovane e forte che è stata. Attorno, fisarmoniche e canti popolari… Proprio come il 28 aprile ‘45, quando i partigiani erano entrati a Piacenza. Oltre quattromila uomini convergevano verso piazza Cavalli, mentre i nazifascisti in fuga passavano il Po.

Allora come oggi, chi cantava Bella Ciao e Fischia il vento. Allora come oggi, una gioia incontenibile, accanto al dolore di chi piange qualcuno fra quel migliaio di morti che il piacentino ha dovuto pagare come prezzo della Liberazione. Allora come oggi, sventolii di drappi tricolori. Solo l’odore è diverso: nel ‘45 si respirava ancora l’odore aspro delle rovine lasciate dai bombardamenti, oggi si respira l’aria di primavera.

Allora, era calato il silenzio quando dal balcone del Palazzo del Governatore si affacciò Emilio Canzi. Proprio come oggi il silenzio cala quando la figlia Bruna ricorda il padre.

O tu che qui pietoso t’aggiri, ascolta la voce che ammonitrice e implacata s’alza da questa tomba”, sta scritto sulla lapide.

Fernando torna a casa stanco e felice. È tardi, la moglie è a letto.

«Non sono solo. In tanti lo ricordano ancora» prova a sussurrare, ma lei dorme già. E il dottor Rinaldi sente nelle ossa, assieme alla stanchezza, l’inspiegabile sensazione che qualcosa sta cambiando.


L’ha letto sul giornale: al Parlamento si discuterà una legge per equiparare a combattenti d’un esercito regolare quegli sciagurati che, nei venti mesi dell’occupazione nazista, vestirono la divisa della Repubblica di Salò… Che direbbe Emilio Canzi? Chi si ricorda di lui? E soprattutto: c’è qualcuno che almeno prova un po’ di imbarazzo per tutto questo?

Forse solo ora capisce perché ha tenuto quella foto e perché tiene ad assicurarsi che non vada persa. Ma non gli vengono in mente mani sicure cui affidarla.

Il figlio? No, Fabrizio è lontano, impegnato… A casa, al telefono, non lo trova mai. Risponde Paola, a volte i piccoli: lui è sempre chiuso nello studio a lavorare. Potrebbe scrivergli una lettera affidandosi alla speranza che la vita di un altro a Fabrizio risulti più interessante di quella del padre, ma non vuole diventare patetico.

Allora prende dallo scrittoio una grossa busta. Ci infila dentro quella foto e il libro di Orwell, assieme a una lettera.


Cara Carmen,

come vede ho dato retta al suo consiglio, e ho sistemato lo studio.

Le faccio solo una raccomandazione: le affido il libro e la foto che trova in questa busta. Specie alla foto tengo molto, e voglio saperla al sicuro.

Lei viene da un grande paese, il Cile. Da un grande popolo, che ha sofferto per la dittatura in tempi più recenti rispetto a noi. A volte ne abbiamo parlato e so che è sensibile a questi argomenti: forse la vostra memoria è un po’ meno distratta della nostra, non è stata ancora anestetizzata e travolta…

Chi è l’uomo della foto lo trova scritto sul retro. Emilio Canzi ha lottato per la libertà tutta la vita, In Italia, in Francia, in Spagna. Non scriverò la sua storia, forse un giorno lo farà qualcuno più bravo di me. E poi ora non voglio annoiarla troppo: le basti sapere che per me è importante. E non riesco a pensare a nessuno più affidabile di lei cui dare questo mio “tesoro”.

M’accorgo che le lascio un libro usato e una foto vecchia di settant’anni: come regalo non è certo molto, ma perlomeno è un dono che ha il pregio dell’originalità. Quando sfoglierà il libro, quando darà un’occhiata a quella foto, le chiedo di pensare a Emilio Canzi, a quanto è importante lottare per la libertà. E, magari, di pensare un po’ anche a me.

Fernando Rinaldi


Sente lo stomaco in subbuglio, la testa confusa e pesante. Pensa che un bagno lo potrebbe aiutare. Apre l’acqua calda e miscela la fredda. Ecco, così… Sì, quella sensazione sulla mano lo fa sentire meglio. Non scotta più, va bene…

Torna nella camera da letto, per cercare la biancheria di ricambio. Sente la schiena percorsa da brividi, brividi di malattia. Pensa di stendersi sul letto un attimo, mentre la vasca si riempie. I brividi aumentano, si rannicchia tirando verso di sé le ginocchia e raccogliendo il capo. La febbre sta salendo.


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NOTE:

Figura romantica e carismatica, Emilio Canzi fu presente nell’intero arco temporale in cui si dispiegò la resistenza antifascista.

Le informazioni sul personaggio sono tratte da Il colonnello anarchico. Emilio Canzi e la guerra civile spagnola, di Ivano Tagliaferri (Piacenza 2005), storico appassionato dell’antifascismo piacentino. 

La figura del vecchio medico è opera di fantasia.

Nel dialogo (anch’esso di fantasia) ambientato sul fronte spagnolo ho immaginato che Canzi si rivolga a Ferruccio Tantini, anarchico bolognese che condivise con Canzi quell’esperienza. È una supposizione, non so se Tantini fosse ancora sul fronte spagnolo, dopo i fatti del maggio 1937 a Barcellona e l’esplosione dei contrasti fra gli stalinisti e i militanti libertari. Sempre in questo dialogo Canzi accenna a Camillo e Francesco, due vittime della repressione stalinista: si tratta di Camillo Berneri e Francesco Barbieri. Specie al primo era molto legato, e sarà proprio la vedova di Berneri a leggere una toccante orazione funebre in memoria di Canzi.

La frase che dà titolo al racconto è tratta da Omaggio alla Catalogna di George Orwell, che riporta il motto “Domani prenderemo un caffè a Huesca”, detto ottimisticamente da un generale repubblicano a proposito di uno dei numerosi tentativi falliti di attacco alla città.


sabato 4 settembre 2021

"E non fummo più ragazzi”. La Prefazione di Lorenzo Guadagnucci



Da qualche parte l’ho già detto, ma è ora di farlo pure qui. Ho scritto un romanzo, “E non fummo più ragazzi”, pubblicato da Red Star Press. Qualche informazione potete leggerla a questo link.

Voglio ringraziare Lucio Villani per il titolo, tratto da un verso contenuto nel suo “20 anni dopo. Una ballata del G8” (2021, anche questo uscito per Red Star Press):

L’avventura di cui parlo,

qual per molti fu da pazzi,

ci scavò come un tarlo

e non fummo più ragazzi.


La prefazione è firmata da Lorenzo Guadagnucci. Lorenzo, per chi non lo sapesse, è giornalista ed era presente alla scuola Diaz la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, dove ha subito sulla propria pelle la violenta “perquisizione” delle forze dell’ordine che ha drammaticamente concluso le giornate del G8 genovese. Membro del Comitato Verità e Giustizia per Genova, fra i suoi libri ricordo “Noi della Diaz” (2008, Terre di mezzo editore/Altreconomia) e soprattutto “L’eclisse della democrazia” (2021, Feltrinelli) scritto con Vittorio Agnoletto


Anche a Lorenzo va un enorme grazie!!! Ecco il suo testo, che apre il romanzo.


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Greta Thunberg è nata in Svezia nel 2003 e chissà che i suoi genitori, lei cantante d’opera lui attore, non abbiano vissuto insieme la stagione dei movimenti, prima ancora che la primogenita nascesse. Il 2001 è stato un anno fatale. L’anno di Porto Alegre e di Genova, eventi che hanno lasciato un segno nella storia e anche un grande rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato permesso che fosse. Il 2001 è l’anno degli abusi di polizia, l’anno dei manganelli e dei lacrimogeni, l’anno degli agenti che sparano in piazza e a volte uccidono.  Violenze che non risparmiarono nemmeno la Svezia dei Thunberg. A Göteborg il 15 giugno un ragazzo di 19 anni, Hannes Westberg, colpito all’addome da un proiettile sparato da un agente durante le contestazioni a un vertice fra Unione europea e Stati uniti, restò per giorni fra la vita e la morte. Se la cavò. Non fu lui, ma Carlo Giuliani a Genova il 20 luglio dello stesso anno, la prima vittima della scelta compiuta dalle democrazie europee di criminalizzare il “movimento dei movimenti”, nato nelle lotte globali per la giustizia sociale, i beni comuni, la sopravvivenza del pianeta. Sono passati vent’anni e il mondo è ingiusto quanto prima, ma più insano, più soffocante, più caldo, infine atterrito dalla pandemia da coronavirus. Greta, nel frattempo, è diventata un’icona mondiale del diritto delle prossime generazioni a una vita libera e sana, il volto mediatico di una generazione che ha capito di avere un futuro ben più ristretto di quello percepito in gioventù dai propri genitori e nonni. 

Stiamo attraversando, in questi mesi di segregazione, di angoscia e di morte, un nuovo spartiacque. Da una parte il “business as usal”, magari abbellito da una pennellata di verde e qualche aggettivo grazioso (sostenibile, circolare, ecologico); dall’altra parte un sogno, un progetto, un impegno: un mondo diverso, cioè un’altra economia, una società equa e fraterna, e nuove parole chiave, per esempio cura, dignità, diritti, solidarietà.

Un giorno, magari nel 2051, il 2020 e il 2021 saranno ricordati come gli anni della (prima?) pandemia, del confinamento, del virus che si fa messaggero di verità per conto di un pianeta esausto, troppo sfruttato, troppo inquinato per sopportare ancora gli abusi cui è sottoposto. Ricorderemo il 2020 e il 2021 e penseremo subito al 2001, l’anno di Cassandra, l’anno di un altro bivio, più o meno lo stesso che abbiamo di fronte oggi, ma con altre forze in campo e un’energia di lotta e di consapevolezza di questi tempi sconosciuta (o forse non ancora emersa con la dovuta forza).

Il 2001 è l’anno del G8 a Genova, del movimento dei movimenti che mostra tutta la sua capacità di aggregazione e la straordinaria forza dei suoi argomenti; l’anno in cui il futuro fu cancellato con la violenza dall’orizzonte di migliaia anzi milioni di persone, condannando tutti all’insipienza e alla prepotenza di un sistema di potere retto da un’ideologia distruttiva, qual è il neoliberismo. Le calde e tragiche giornate del luglio genovese di vent’anni fa sono un pezzo di storia politica del nostro paese (e non solo). E c’è di più: hanno segnato la vita di una moltitudine di persone.  

Le violenze delle forze di polizia, così plateali e così indiscriminate, scioccarono tutti: chi c’era e si trovava costretto a impensabili - spesso impossibili - fughe da manganelli e lacrimogeni, e anche chi non c’era e da casa seguiva i fatti, magari parlando al cellulare con un amico, un parente, un conoscente, oppure via  radio o magari in tv, in quei giorni generosa di collegamenti in diretta, condotti da cronisti a loro volta scioccati e stralunati. 

Chi si era trovato a Genova il 20 e 21 luglio, nei cortei brutalizzati dalle forze dell’ordine (e dovremmo chiederci: di quale ordine?), rientrò a casa con un’idea profondamente cambiata sul proprio paese, le sue istituzioni, la sua democrazia. Per tutti è stato impossibile tornare “come prima”. Impossibile, perché la sensazione che si prova a sentirsi in balìa di un potere incontrollabile e sfrenato, è indimenticabile. E tanto più lo è se i facinorosi, i violenti, i sadici indossano divise e agiscono in nome della collettività, pagati dallo stato. 

Se Genova G8 ha scioccato tanto è perché in quell’occasione il potere ha colpito i “nuovi” contestatori, per mandare un messaggio a tutti i cittadini, ai tanti, tantissimi che simpatizzavano per quel movimento e per le sue ragioni, rintracciandovi ideali positivi e una lettura convincente della realtà; a tutti loro il potere diceva: fermi lì, non alimentate ulteriormente questa vena di protesta sociale, non mescolatevi a questo grumo di violenza. I manganelli di Genova hanno bastonato l’idealismo, le buone intenzioni, la voglia di cambiare di milioni di persone in Italia e nel mondo; hanno mortificato il senso civico di cittadini che si mettevano in ascolto di voci nuove, trovandovi sintonie insperate. 

Nei mesi che precedettero il G8 c'era un clima di entusiasmo, di curiosità, di apertura che oggi tocca rimpiangere; l’Italia, l’Europa, una fetta grande di mondo erano percorse da un fremito di mobilitazione, da una connessione di intelligenze, di saperi, di esperienze che attraversava le lingue e le culture e proponeva una nuova via da seguire, un percorso assai diverso da quello indicato dai poteri stabiliti, dal sistema ufficiale della comunicazione. Il trauma è stato grande per tutti. La comune percezione del mondo si è trasformata: concetti come democrazia, libertà, diritti, hanno perduto, agli occhi di milioni di persone, il significato cogente che dovrebbero avere. Il potere ha mostrato il suo volto maligno. 

Nonostante tutto questo, o forse proprio per tutto questo, il vocabolo “Genova” evoca da allora per milioni di persone non tanto la città e i suoi monumenti, ma le giornate del G8, esaltanti e tragiche, una stagione di utopia e di brutale repressione. “Genova”, così intesa, è diventato un luogo dell’anima e del sogno universale di giustizia, uno spartiacque personale e politico: chiunque si sia sentito vicino a quel movimento, sa da che parte stare, conosce una verità che il sistema vorrebbe negare, non si piega alla diffusa mistificazione di quell’evento. 

Francesco Barilli, con questo suo libro, prende la giusta distanza - ambientando gli scambi epistolari quarant’anni dopo i fatti - che gli consente di restituire quel clima umano e politico che ha fatto di Genova un evento memorabile, un punto di svolta emotivo e sociale. I protagonisti del romanzo tornano a quei giorni, rievocano fatti e sensazioni, discutono i risvolti di ogni episodio, a volte si contrappongono: ne esce un ritratto ricco e sfaccettato, e per questo convincente, di un movimento sociale che si era messo in marcia per cambiare il mondo e si sentiva in sintonia con la storia. 

Oggi sappiamo che le ragioni erano giuste, che il “movimento dei movimenti” anticipava la storia, perché conosceva il mondo meglio dei potenti. Non è stato ascoltato e anzi è stato zittito. Eppure, nonostante tutto, c’è ancora un filo rosso che corre invisibile dietro le quinte della storia e lega epoche diverse, consente un passaggio di testimone, agevola la trasmissione di esperienze e conoscenze. Greta Thunberg è il volto mediatico delle speranze, ma anche della rabbia, di una generazione che rischia d’essere perduta: si muove anche lei, che lo sappia o meno, lungo quel filo che da Genova arriva fino a noi attraverso cortei e sit-in, lotte sociali e contestazioni dei potenti. Il libro di Barilli è un libro generazionale, parla di quelli di Genova, ma è anche un libro-ponte fra generazioni: mostra e racconta un momento di rivolta politica, culturale e anche morale che rimane uno dei punti più alti toccati nella storia dalla società civile globale. Dice di una vicenda che merita d’essere studiata, capita, elaborata e calata nei tempi nuovi. All’epoca di Genova si diceva: un altro mondo è possibile. Oggi sappiamo che un altro mondo è necessario. Arriverà, quel mondo, solo attraverso la lotta politica e sociale e lo sviluppo di un’intelligenza collettiva che sale dal basso, cresce, si afferma e infine rinuncia a salire troppo in alto, perché l’arroganza del potere è così rovinosa da poter distruggere anche il futuro. 

LORENZO GUADAGNUCCI


martedì 29 giugno 2021

Genova, vent'anni dopo...

Rivitalizzo un po' il blog. 
(Oddio, in realtà se siete curiosi di leggere qualcosa di mio scritto recentemente potete cliccare su Quasi, rivista on line con cui collaboro regolarmente e a cui vi consiglio di dare un'occhiata.)
Lo rivitalizzo, dicevo, perchè presto saranno vent'anni dai fatti di Genova.  
E così è il caso di farvi sapere che è appena uscita la nuova edizione di "Carlo Giuliani, il ribelle di Genova", testi miei e disegni di Manuel De Carli, che ha anche realizzato la nuova cover. Eccola:


Aggiungo il programma degli appuntamenti di Genova 2021 promossi dal Comitato Piazza Carlo Giuliani:


Per quelli interessati al programma completo delle giornate, se non ho visto male questo è il primo articolo che lo riporta. E, in ogni caso, potete consultare tutto sul sito del Comitato.

Sempre in merito al ventesimo anniversario di quelle tremende giornate ci sarebbero molte, molte altre cose da dire e fatti/iniziative da segnalare. Per ora mi limito a due uscite.

La prima è "20 anni dopo. Una ballata del G8" di Lucio Villani. (qui potete anche leggerne un'anteprima). Il libro di Lucio, in termini di pura originalità, è forse il meglio che potrete trovare fra le testimonianze in ricordo del G8 2001.

La seconda è "L'eclisse della democrazia. Dal G8 di Genova a oggi: un altro mondo è necessario", nuova e ampliata edizione (sempre per Feltrinelli) del libro scritto da Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci dieci anni fa. Io ne ho la vecchia edizione, e già allora era un libro fondamentale sui fatti di Genova.










lunedì 7 dicembre 2020

Ricordo di Lidia Menapace: Intervista del 2005

Dopo una vita piena, di impegno civile e passioni e valori, Lidia Menapace ci ha lasciati.

L'avevo intervistata tra la fine del 2004 e il 4 gennaio 2005 (data chiusura dell’intervista, realizzata via mail il 23 dicembre 2004 e affinata successivamente, sempre via mail), per Ecomancina.com.

L'intervista, a rileggerla oggi, è datata (specie le mie domande, "ancorate" a quel periodo), ma la figura di Lidia si staglia pulita. Segnalo, in particolare, l'ultima risposta, condita da un gustoso aneddoto... Ma non vi rubo altro tempo: leggete, dai...

(Ti sia lieve la terra Lidia. E pure tutti i petali rossi che la ricoprono...)

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Intervista con LIDIA MENAPACE

di Francesco Barilli

Lidia Menapace: un percorso umano e politico ricco di grandi svolte, che si intrecciano con quelle della sinistra italiana da ormai cinquant’anni.

Nata a Novara nel 1924, prende parte alla Resistenza come staffetta partigiana, con una scelta non violenta che rispetterà in seguito e contrassegnerà la sua vita e la sua attività politica. Impegnata inizialmente nel movimento cattolico di base, è tra i fondatori de “Il Manifesto” ed è tuttora una voce significativa della cultura di sinistra e più in generale dei movimenti di solidarietà. Nel luglio 2004 è stata lanciata la campagna di raccolta firme per la sua nomina a senatrice a vita.


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Francesco Barilli:

Nell’introduzione, presentandoti ho parlato di “un percorso ricco di svolte”; in una vecchia intervista ho letto che tu stessa dicevi “solo chi ha idee può anche cambiarle”. Questo mi porta ad una riflessione: oggi viviamo un momento di grande fermento (ma anche di grande confusione…) nella sinistra, e abbiamo dovuto constatare diversi episodi che testimoniano una certa insofferenza da parte dell’ala più “movimentista” rispetto alla parte più “istituzionale” (e a dire il vero neppure negli anni 60/70 il rapporto fra il PCI ed i movimenti era “facile”…). Forse anche oggi è il momento di “una svolta”: a tuo avviso è possibile trovare una forma di dialogo che unisca le diverse “anime” della sinistra? E cosa vuol dire, oggi, “essere di sinistra”?


Lidia Menapace:

Confermo che solo chi ha idee può cambiarle, ovviamente… Tuttavia non come si cambiano gli abiti al variar delle stagioni, bensì quando eventi significativi modificano i punti di riferimento: ad esempio una guerra, una attività politica volta a far rinascere forme di razzismo, una politica economica che mette in discussione tutto ciò che era stato ottenuto ecc. ecc. In questi casi non solo è necessario resistere alle pressioni, ma anche vedere che cosa di sbagliato inadeguato non convincente c'era negli atteggiamenti precedenti, che non hanno retto e lasciato che avvenisse la svolta. Oggi - ad esempio - dopo il crollo dell'URSS e la cattiva salute dei vari, una volta grandi, partiti socialdemocratici dell'Europa occidentale, non è possibile non sottoporre a critica serrata un patrimonio di idee pratiche forme organizzative che non ha retto, è stato sconfitto. E ciò non per assumere le idee di chi ci ha battuto, ma per prepararsi a rispondere su un terreno più efficace. Essere di sinistra oggi, accanto alla sempre presente e sempre più necessaria ispirazione egualitaria e a favore delle persone, genere, culture e popoli e classi oppresse sfruttate ecc., significa scegliere, fare una opzione senza residui (senza se e senza ma) a favore della pace, come forma della politica, e della nonviolenza come suo metodo. Abbiamo votato a Firenze al primo Social Forum europeo: "Non c'è pace senza giustizia ottenuta con mezzi pacifici".


F. B.:

Una domanda che si collega, in parte, alla precedente: come giudichi le recenti azioni di “disobbedienza civile”, sulle quali negli ultimi tempi sono sorte molte polemiche, anche a sinistra?


L. M.:

La disobbedienza civile (cioè dei e delle cittadine, per distinguerla dall'insubordinazione militare, che ha altre forme e altri rischi) è uno dei modi dell'azione nonviolenta. Essa comporta spesso anche affrontare, a certe condizioni, azioni illegali, perchè non sempre le leggi vigenti sono giuste e spesso l'unico modo per rendere visibile la loro ingiustizia è di violarle senza agire in modo violento proprio per far capire l'intima giustezza delle richieste e della lotta. Quando ad esempio le costituzioni liberali europee riconoscevano il diritto di associazione, ma lo negavano agli operai, costruire il sindacato era illegale ed "eversivo", ma giusto anche se disobbediente. Quando il primo maggio era fuori legge, organizzare un corteo era una azione illegale nonviolenta di disobbedienza civile. Lo sciopero fu a lungo vietato e organizzare scioperi una azione illegale nonviolenta. Quando l'aborto era un reato organizzavamo viaggi clandestini nei paesi in cui si poteva fare e molte tra noi si autodenunciarono per aborto anche falsamente, per far constatare attraverso i processi la palese ingiustizia della legge vigente. Una forma molto dura di disobbedienza civile prossima all'insubordinazione militare fu l'obiezione di coscienza, che ha ottenuto il risultato di far abolire la leva e di contare quanti giovani fossero contrari al militare. L'azione diretta nonviolenta contro il carovita è oggi una delle forme illegali ma giuste per far constatare che è in corso una politica economica che produce ingiustizia sociale e ineguaglianza crescente.


F. B.:

Una domanda sulla tua esperienza di partigiana: sempre in una tua intervista tu hai detto: “Feci la staffetta, rifiutandomi di portare armi”. Poche parole, che mi sembrano racchiudere una scelta di grande spessore morale: in che modo quella tua scelta ha segnato la tua vita, in seguito? 


L. M.:

La decisione di non portare armi in un movimento che era anche armato (ma non militare) fu fatta in modo spontaneo, dapprima solo perchè avevo paura di farmi male da sola, per una scelta antieroica. La Resistenza era antieroica: ti dicevano - se scoperta - di cercar di resistere un giorno anche alle torture e poi di dire tutto, dato che in un giorno quelli che erano stati in contatto con te potevano mettersi al sicuro: non vi era traccia di una cultura del "gesto" eroico, del "martirio", consideravamo ciò dannunziano e addirittura anche un  po' fascista. Quando poi mi fu detto che però potevo esercitarmi ad usare le armi dissi di no consapevolmente, perchè non volevo addestrarmi a sparare addosso a una qualsiasi altra persona. Ero disposta a organizzare evasioni, nascondere perseguitati politici e razziali, ospitare renitenti e fuggiaschi, rifornire le formazioni di vettovaglie medicine  ecc., distribuire stampa  clandestina, portare messaggi e ordini, deviare treni per impedire il passaggio di truppe, portare plastico per attentati ecc. ecc. Queste scelte erano  riconosciute, dato che una resistenza è un movimento anche armato, ma non militare, bensì politico e nessuno può ordinarti di fare una cosa che non vuoi fare per ragioni di coscienza. Questo è uno dei grandi meriti della Resistenza italiana cui non si fa un grande servizio presentandola solo come una specie di guerra "minore".


F. B.:

Da mediattivista, sono di solito piuttosto critico verso il mondo dell’informazione “ufficiale” (e vedremo più avanti di approfondire questo aspetto), preferendo il mondo dell’informazione alternativa via internet. Il Manifesto però ha sempre rappresentato una voce libera ed indipendente, a volte “scomoda” anche per la sinistra. Vorrei sapere qualcosa su come nacque il Manifesto e cosa ricordi di quell’esperienza. 


L. M.:

Il manifesto fu una specie di straordinaria sfida insieme razionale appassionata ironica, insomma una di quelle cose che non si incontrano di frequente. Quando Pintor con altri la pensò, ci parve una specie di rodomontata che però, per quanto mi riguarda, mi prese subito. Una delle cose migliori del Sessantotto era che sembrava non ci fossero limiti alla fantasia e all'ardimento: la prima fase del Sessantotto fu così e il manifesto ne fu una delle prove più significative. Poi arrivarono nel movimento le tentazioni partitistiche (ciascun pezzetto tentò di trasformarsi in partito con tutte le ristrettezze che si aggravano nelle piccole organizzazioni) e poi fu sconfitto dal ricorso alla violenza. Il manifesto ha poi avuto varie vicende che non ho sempre del tutto condiviso, ma resta una delle più belle stagioni della mia vita, che di cose importanti non è stata povera. Pensare un quotidiano oggi può venire in mente a molti e le nuove tecnologie comunicative rendono tale pensiero fattibile; ma  noi agivamo ancora con il gravame della vecchia carta stampata con tutte le difficoltà pesi ecc. Insomma, che i proponenti ce l'abbiano fatta è ancora oggi una cosa che stupisce persino noi che c'eravamo.


F. B.:

Restando al “tema informazione”: ultimamente la censura in Italia ha colpito anche la satira. Non trovi per certi versi paradossale che il potere abbia tanta paura dell’elemento comico/satirico? O forse non è il segno che la stampa (che il potere dovrebbe temere maggiormente) è ormai per la maggior parte “addomesticata”, e per la rimanente parte confinata in una nicchia talmente limitata da non destare più timori?


L. M.:

Come sai la satira ha sempre irritato il potere, anche se tra gli antichi era accettata in quanto sembrava ricordare anche ai potenti una comune sorte: sicchè il generale vittorioso e trionfante riceveva gli sberleffi e le frecciate dei suoi soldati  ("Viva  il seduttore calvo!" ci dicono che gridassero a Cesare); così come i buffoni di corte richiamavano anche i re a convincersi di essere mortali e fallibili. Insomma per gli antichi la satira "castigat ridendo mores" e dunque funge da ridente richiamo a una pubblica moralità. I potenti di oggi sembrano meno disposti a sentirsi dire che sono come gli altri: temono  una diffusione più ampia e incontrollabile della loro immagine che i mezzi di oggi (specialmente cinema e tv) possono mostrare in posizioni non piacevoli non autorevoli ridicole: tutti ricordano una foto della principessa d'Inghilterra che si cavava una scarpa troppo stretta sotto un tavolino durante una solenne cerimonia. Spesso i ritratti dei grandi personaggi antichi ci appaiono in una maestà dovuta al fatto che posavano nelle loro vesti e posture migliori per grandi pittori, che tuttavia si rifacevano mettendo sul volto di papa Giulio II magari una espressione volpina e crudele. Credo che oggi il fastidio per la satira dipenda dal fatto che non sono in grado di rispondere tenendo botta, tranne forse Andreotti. La stampa non è in Italia al meglio della possibile indipendenza, data la proprietà della stessa: é più disposta a punzecchiare il potere, a denunciarlo, a chiamarlo a rispondere la stampa inglese o nordamericana, capita…


F. B.:

La censura ha molto a che vedere con un modo distorto di intendere l’informazione… In questi ultimi anni la cosiddetta “controinformazione”, o “informazione alternativa”, ha assunto una certa importanza, e non solo in Italia. I media tradizionali però parlano con imbarazzo e fastidio dei media alternativi, e quando lo fanno è per rivolgere accuse tanto pesanti quanto assurde (vedi ad esempio gli attacchi portati ad Indymedia, e non sto parlando solo del recente sequestro dei server). Tu segui l’informazione su internet? Che cosa pensi di quel mondo e delle accuse che gli vengono rivolte?


L. M.:

Sono naturalmente contro tutte le censure. A proposito di informazione elettronica penso che non abbiamo ancora capito quanto può essere potente e utile. La mia impressione è che ogni qualvolta appare un nuovo modo di comunicare è indispensabile che la scuola lo insegni come un alfabeto. Tendo sempre a considerare i media come un alfabeto, quindi l'accesso ad essi deve essere considerato un diritto comune e la scuola, ovviamente pubblica, si deve attrezzare a insegnare qualsiasi alfabeto. A questo punto mi preme dire che per alfabeto non intendo la semplice “traccia di segni”, bensì un linguaggio. La Moratti dice che bisogna sapere informatica e inglese appunto nella forma di mattoncini per costruire la casetta del futuro: il simbolico che usa è arcaico e pericoloso. Non si tratta di imparare “a pappagallo” una certa tecnica, ma far capire le relazioni che attraverso i nuovi alfabeti si possono raggiungere costruire e far valere. Questo mi interessa e naturalmente, se parlo di un alfabeto al quale bisogna che tutti e tutte accedano per diritto, intendo media pubblici (non necessariamente statali) con regolamenti di accesso vasti e molteplici. La piccolissima idea della par condicio, invece di essere cancellata come Berlusconi si propone di fare, dovrebbe diventare una specie di norma di galateo costante, il che non significa che si debbono misurare col bilancino le apparizioni, bensì avere contenitori specifici e differenziati per grandi sistemi conoscitivi e forme comunicative che costituiscano i nessi tra i sistemi. Questo a me pare il problema dei problemi nella conoscenza oggi: le forme generaliste che ancora vigono, anche nella comunicazione, non tengono conto che la conoscenza oggi è sistemica e il principale lavoro per rendere intelleggibili i contenuti specifici è operare sui nessi sugli intrecci sugli scambi espressivi. 


F. B.:

Spesso il centrodestra lamenta una presunta egemonia culturale della sinistra in Italia. Eppure giornalisti, scrittori, attori di sinistra (oppure, se non di sinistra, comunque sgraditi all’attuale maggioranza parlamentare) da tempo non trovano spazio in televisione, ossia sul media più diffuso. E qui torniamo al discorso che facevamo in precedenza sulla censura: Marco Travaglio non viene invitato in TV a promuovere i suoi libri (che pure sono molto letti); Sabina Guzzanti è sparita dal piccolo schermo, e così pure Dario Fo e Franca Rame, Daniele Luttazzi, Santoro, Biagi, Beppe Grillo (salvo rare apparizioni) e così via… Quell’affermazione circa “l’egemonia culturale della sinistra” mi sembra quindi paradossale. Ma secondo te quell’affermazione quanto è figlia di semplice “ignoranza” e quanto lo è di un’idea distorta (per non dire fascista) della cultura, che sarebbe “buona” quando fa comodo e “cattiva” quando è di segno contrario?


L. M.:

Molti intellettuali erano di sinistra (anzi ce n'erano di quelli per i quali non eri mai abbastanza  di sinistra). Come Adornato: appena avevi finito di dire la cosa più di sinistra che ti veniva in mente esordivano "Ci vuol ben altro!" ed erano infatti detti "benaltristi"; oppure come un famoso sociologo che è stato preside della facoltà di Trento, capace di mandare alla follia gli studenti aggiungendo sempre un  famoso "più uno" alle loro richieste. Sono prontamente diventati di destra e non splendono più di prima. Vi sono aspetti diversi della questione: manca certamente un costume e addirittura si vogliono cancellare le poche embrionali norme che dovrebbero regolare una certa varietà di presenze e interlocuzioni specialmente nel  pubblico. E' un problema di ordinamento. E comunque niente può salvare due intellettuali di destra come Vergara e Masotti dall'insuccesso di pubblico. Trasmissioni stupide possono avere grande successo, trasmissioni politicamente orientate a destra cadono: l'Italia non  è ancora un paese vinto. C'è anche una  vecchiezza della "questione intellettuali"; mai definiti se non in modo ambiguo e incerto: o servi  del potere che scrivono "ad maiorem Dei gloriam" o secondo un qualsiasi "imprimatur" o "con licenza de'superiori" oppure disposti a "trasferire" la loro coscienza al servizio della classe operaia o di altre nobili cause, con la tendenza a sostituirsi alle cause stesse, non hanno mai assunto delle responsabilità. Oggi si potrebbe provare a ridiscutere la definizione di "intellettuale" come esperto e possessore dei mezzi della comunicazione, che è un vero potere: lo usino, dicano che lo conoscono, stabiliscano quali responsabilità si assumono. Comunque l'egemonia non si discute, o c'è o non c'è e a me pare che quella di sinistra sia piuttosto sfuggente e "copiativa" e  quella di destra imiti altri paesi.


F. B.:

Vorrei parlare di un altro argomento che ti sta a cuore: la condizione delle donne. In questo periodo si è parlato molto (anche se, a mio avviso, spesso in modo strumentale) sul rapporto fra Islam e condizione femminile. Come pensi si dovrebbe intervenire sulle culture altrui, in questi casi (ammesso che si “debba” intervenire)?


L. M.:

Secondo me la prima cosa è chiedere che ne discutiamo tra noi donne, prima: è invalsa da un po' di tempo l'abitudine da parte di importanti prelati delle varie religioni (tutte molto patriarcali) di "dimostrare" che a casa loro le donne sono trattate benissimo, esaltate, libere... Che nulla è meglio del Cristianesimo per riconoscere il ruolo delle donne, che nulla è meglio dell'Islam  per esaltare le virtù delle donne ecc. ecc. … Sarà meglio che sappiano che noi donne abbiamo uso di parola e di ragione, che non abbiamo delegato nessuno a parlare in nome nostro e che il ruolo di protettore non è mai stato molto glorioso. Voglio narrare un delizioso episodio che mi fu raccontato da una delegazione di donne vietnamite anni fa: Ho Chi Mihn era molto interessato all'emancipazione delle donne, secondo gli insegnamenti ricevuti e condivisi a sinistra. Andando nei villaggi non trovava mai donne ad ascoltarlo e avendo chiesto perchè non  ebbe risposta. Ma al prossimo giro trovò che in fondo alla sala le donne erano tutte lì ammassate e silenziose. Domandato perchè stessero in fondo, la prossima volta le trovò tutte sedute davanti e silenziose. Chiesto perchè non parlassero, la volta successiva erano nelle prime file con i loro foglietti pieni di domande. Finalmente soddisfatto, tornato in sede trovò un messaggio delle donne che diceva: "Caro Zio Ho, noi sappiamo che le tue sono buone intenzioni, ma non puoi liberarci tu, smetti dunque, perchè i nostri mariti per fare bella figura con te ci trascinano alle riunioni, ci sbattono in prima fila, ci obbligano a stare lì anche se ci annoiamo, ci costringono a parlare e se non facciamo tutto quello che ci chiedono, poi a casa ci picchiano. Grazie comunque". Ho Chi Mihn, che era uno tenace, fece sapere che le donne che avevano lamentele per il trattamento o per altro potevano scrivere direttamente a lui di nascosto e senza passare per le trafile gerarchiche. Sembra che più d'una promettente carriera di dirigente comunista si sia bruscamente interrotta e sembra che ciò sia talora avvenuto per le lamentele delle mogli cui Ho Chi Minh prestò il suo potere. Mi sembra un bell'esempio. Vorrei vedere qualcuno dei grandi paladini a favore delle donne raddrizzare un qualche torto. E poi ne parleremo…