Ho
un’età in cui nella rubrica del telefono sono presenti nomi di
persone scomparse. Potrei cancellarli ma non lo faccio. Alcuni fanno
più male di altri. Quello di Paola
Staccioli
è uno di questi.
Nel
2007, proprio per il 25 aprile, avevo collaborato a una sua
iniziativa. La
rossa primavera
uscì in
allegato con Liberazione e L’Unità (successivamente per Edizioni
Clandestine). Si trattava di una raccolta di racconti, inserita nel
progetto lanciato con In
ordine pubblico e
Piazza bella piazza
(anch’esse curate da Paola).
Un lavoro a più mani di ricostruzione di storie e memoria attraverso
la narrativa.
La
rossa primavera
era imperniata su figure dell’antifascismo “a 360 gradi”. Si
parlava della resistenza partigiana, del ventennio, delle barricate a
Parma, della guerra di Spagna…
C'era
anche un mio racconto: Prenderemo
un caffè a Huesca,
imperniato sulla figura di Emilio
Canzi.
Ci
siamo sentiti ancora, io e Paola. Collaborammo ancora, nel 2011, per ricordare Carlo Giuliani in Per sempre ragazzo. Poi ci siamo persi un po': la
malattia sua, la mia... I mille casini in cui si incaglia la vita,
insomma. Qualche messaggio, poi il tempo è stato ingiusto e crudele.
Paola
è scomparsa il 31 luglio 2021.
Oggi
pubblico quel mio vecchio racconto, anche stavolta per un 25 aprile.
È il mio modo di ricordare Paola con affetto sincero. Lo stesso con
cui dedico alla sua memoria queste righe.
*******
Prenderemo
un caffè a Huesca
Carmen
gliel’ha detto diverse volte: “Dottore, scusi se mi permetto, ma
dovrebbe mettere ordine fra le sue carte: su scrittoio e libreria ho
rinunciato a fare la polvere.”
Fernando
Rinaldi entra nel suo studio con quel rimprovero nelle orecchie. A 85
anni non è bello sentirsi riprendere dalla donna delle pulizie, e a
sua discolpa pensa che a una certa età il concetto di utile diventa
vago, ma guardando quella stanza deve ammettere che Carmen ha
ragione: sembra il negozio di un rigattiere. Prova a farsi forza,
cercando dentro di sé il pragmatismo e l’orgoglio del medico, e
decide che le emozioni non gli impediranno di rintuzzare la critica e
di mettere ordine fra pile di cartacce, libri, ricordi.
Quando
è il turno delle foto procede con metodo, separando persone care da
volti ormai sconosciuti, per poi guardare meglio le immagini
dell’ultima pila e scegliere quali buttare davvero. In poche si
salveranno dalla distruzione, ma sarà proprio una di queste a
colpirlo nell’anima. È scivolata dalle pagine di Omaggio
alla Catalogna di
Orwell. L’uomo a sinistra non sa neppure chi sia. Quello sulla
destra – basco scuro, fucile a tracolla, pistola alla cintura –
come dice la scritta dietro la fotografia è Il comandante partigiano
Emilio Canzi, anarchico libertario.
Piacenza,
inizio ottobre 1945.
Fernando Rinaldi cammina
tranquillo lungo il corridoio dell’ospedale e spera che nessuna
richiesta arrivi da quella stanza. Troppe responsabilità per le sue
spalle, che sente ancora fragili. Per questo il sangue gli si gela
nelle vene quando sente una voce femminile chiamarlo.
«Dottor Rinaldi… Mi
perdoni, le chiedo un minuto…».
Conosce solo di vista
quella ragazza. “Come, non sai chi è?”, lo aveva apostrofato un
collega due giorni prima. “È Bruna, la figlia di Canzi. Poveretta,
il padre l’ha conosciuto poco, ma deve amarlo molto. È qui tutto
il giorno.”
«Dottore, vorrei sapere
qualcosa su mio padre.»
Con Bruna ci sono due
giovani. Il medico si avvicina, e nota che uno è armato, nonostante
ai partigiani sia stata già imposta la restituzione delle armi, e
questo lo mette a disagio: «Guardate che potete andare. Non c’è
nulla che…».
Uno di quei ragazzi lo
interrompe con cortese fermezza: «È il nostro colonnello. E noi
stiamo qui con lui.»
Più della sostanza lo
colpisce il tono di quelle parole. Interviene l’altro: «È stato
organizzatore degli Arditi del popolo qui a Piacenza, sa? Ha
conosciuto i campi di concentramento nazifascisti, in Spagna è stato
nominato comandante delle Brigate Internazionali, e qui da noi
comandante di zona… Sono tutti riconoscimenti guadagnati grazie
alla fiducia di uomini come noi, che ci affidavamo a lui. Ora è lui
ad avere bisogno, non l’abbandoniamo di certo…»
Bruna sembra
comprendere: «Dottore, la prego di capire. Le do la mia parola che
si tratta solo di una precauzione. E vorrei fosse chiaro che noi,
tutti noi, abbiamo la massima fiducia in voi.»
«Mi scusi lei, non
intendevo certo insinuare… È che le armi non le vorrei più
nemmeno vedere. Specie qui.»
«La capisco. Lei è
medico per salvare delle vite. Immagino non ami le armi… Mi creda:
anche mio padre non le ha mai amate, e così pure questi ragazzi. Ciò
nonostante, sono state necessarie.»
Rinaldi si sente in
colpa. L’ultima frase gli ricorda la distanza tra il suo tiepido
antifascismo e quello di chi ha rischiato la vita per lui, per tutti.
In un impeto di coraggio aggiunge: «Ha la mia parola che qui dentro
nessuno farà problemi per la vostra presenza. E, per qualsiasi
evenienza, chiamatemi. Più tardi arriva il primario e gli ricorderò
di passare da lei, glielo prometto. Posso assicurarle che stiamo
facendo tutto il possibile per…»
Bruna lo interrompe: «La
ringrazio. Davvero, di tutto.»
Fernando la vede entrare
nella stanza del padre. Resta pochi secondi a osservarla. Canzi si è
assopito, la figlia gli prende dolcemente la mano, devastata nella
battaglia di Huesca, e la mette sotto la coperta. Certi piccoli
gesti, pensa il medico, denotano tanto amore quanto minore è il loro
apparire.
Il
dottor Rinaldi è seduto al suo scrittoio, quella foto fra le mani.
Gli è difficile pensare a una vita così distante, che lui seppe
ricostruire imitando la fatica dei salmoni, nuotando controcorrente
nel tempo, riunendo e accostando i vari tasselli raccolti: le poche
parole di Canzi, i racconti dei compagni e della figlia, l’aneddotica
un po’ confusa e un po’ epica di ogni figura che dopo la morte
diventa leggenda.
Emilio
Canzi, nato piacentino e anarchico, forse neppure in quest’ordine.
A ventisette anni ha già combattuto una guerra, ma l’avvento dello
squadrismo lo porta a militare negli Arditi del popolo e a diventare
un fuorilegge. Nel 1922 fugge a Parigi per evitare l’arresto. Una
parentesi di tranquillità, l’amore… ma il destino si diverte a
scrivere con i toni del romanzo anche questa pagina della sua vita.
S’innamora della figlia dell’amico Vito Parmeggiani, scontrandosi
con lui perché Vittorina ha solo quindici anni. Stavolta la fuga, in
Costa Azzurra, è per amore. Il nuovo traguardo, la nuova battaglia,
è un amico da riconquistare: ci riuscirà solo nel 1930, l’anno in
cui si sposa e nasce Pietro. Bruna, la prima figlia, era arrivata nel
‘24.
Quel
periodo è un’oasi di pace in una vita tormentata che sta per
essere scompaginata nuovamente, perché con il 1936 arriva la Spagna.
Un Paese diviso in due, una parte controllata dai golpisti del
generale Franco, appoggiati da Hitler e Mussolini, l’altra
schierata col governo repubblicano. I repubblicani guardano alla
Francia e alla Russia, inutilmente. Stalin darà un aiuto, ma più
che alla sconfitta dei golpisti sembrerà interessato a
ridimensionare gli eretici per ristabilire il primato della
“ortodossia comunista”.
Emilio
si troverà stretto fra l’affetto della famiglia e la coscienza che
lo attira verso la Spagna, dove il fascismo, suo eterno nemico, lo
attende. Sarà tra i primi, nel settembre del ‘36, a precipitarsi
in Aragona.
Spagna,
fine maggio 1937.
Emilio Canzi ricorda. La
moglie e i figli, certo, ma anche la Spagna dei primi mesi. L’Aragona
gli era sembrata un sogno. Ha visto vecchi braccianti piangere di
gioia, non più sfruttati e umiliati, ma protagonisti delle Comuni
agricole. Ha visto i muri di Barcellona, i manifesti del Fronte
Popolare attaccati su ogni casa, i tram dipinti di rosso e nero, i
camerieri che non ti chiamano più “señor” ma “camarada”…
Ricorda un sogno che sembrava essersi fatto realtà, il sogno
dell’anarchia.
Ma Canzi sa che la
malinconia è un avversario infido. Per uomini come lui il ricordo e
i sogni sono un lusso pericoloso. Non ha mai pensato che sarebbe
stato facile, sa che non è mai stato facile, né mai lo sarà.
La voce di un compagno
lo distoglie dai pensieri: «Ti vedo cupo. Qualcosa ti preoccupa?»
«Tutto. E niente…
Ferruccio, m’aveva solo preso un po’ di nostalgia.»
L’amico sbotta a
ridere: «Pensavo che a uno come te non capitasse!»
«Capita, capita… Sai,
ieri notte stavo facendo un giro d’ispezione delle trincee. Ho
trovato un compagno spagnolo. Parlava con uno di là, un fascista:
era il fratello, sai?»
Ferruccio s’incupisce:
«Che gli diceva?»
«No, cosa vai a
pensare! Si raccontavano di come stanno. Si aggiornavano sui lutti…
E l’uno chiedeva all’altro di venire dalla propria parte.»
«E tu non gli hai detto
nulla? Emilio, non mi sembra il caso di…»
«No, non gli ho detto
nulla. Con che coraggio potevo dirgli qualcosa?»
Dopo un lungo silenzio
Ferruccio riesce a sputare la frase che stava rimuginando: «Emilio,
io dopo Barcellona non so più che fare…»
Canzi si stropiccia la
faccia e i capelli: «Lo so. Ti capisco, e rispetterò qualsiasi tua
decisione. Anch’io ci sto male.»
«Sapevo che una guerra
civile non è una guerra normale. Se possibile è ancora più sporca
e dolorosa, si piange lo stesso sangue coperto da una bandiera
diversa… Ma questa è ancora più bastarda…»
«Lo so, ma i fascisti…»
Ferruccio alza la voce:
«Il problema non sono più solo i fascisti, Emilio! Dopo Barcellona
non possiamo non vederlo. La volontà di Stalin di normalizzare le
milizie è arrivata troppo oltre… Questa guerra ormai è un
regolamento di conti tra noi, non possiamo fare finta di…»
Canzi non alza la voce.
Non lo fa quasi mai, men che meno con i compagni, ma taglia l’aria
con un cenno della mano, come a non ammettere repliche: «Lo so. Cosa
credi, che io non pensi a Camillo, a Francesco? Agli altri? Lo sai
cos’era Camillo, per me…»
Ferruccio si siede a
terra. Si accende una sigaretta, la testa bassa. Poi guarda in faccia
l’amico: «Tu che farai? L’Alto Comando insiste per tornare
all’assalto di Huesca…»
Emilio resta a lungo in
silenzio. «Capisco tutte le contraddizioni, Ferruccio. Ma io vado.
Semplicemente perché quello è il mio posto, e il fascismo il mio
nemico. E soprattutto perché lo devo proprio a Camillo e agli altri.
Anche ora, anche con tutto quel che è successo a Barcellona.»
Ferruccio si fa ancor
più pensieroso: «Emilio, dici che durerà ancora tanto?»
«Tanto? Una vita,
Ferruccio. La nostra lotta durerà tutta la vita, questo lo so per
certo.»
Fernando
pensa a quel dialogo. Come lo conosce? Chi glielo ha raccontato? Con
quali dettagli la sua memoria lo sta ingannando?
Tormenta
una sigaretta fra le mani. Carmen l’ha rimproverato anche per
quelle. Sa che ha ragione, ma se ne frega e l’accende. Il fumo
sembra fare ordine nei suoi ricordi e nella storia.
La
battaglia di Huesca è una dura sconfitta per i repubblicani. Emilio
viene ferito e ricoverato per due mesi a Barcellona. Sicuramente è
terribile per lui, abituato a vivere in prima linea, essere relegato
ad ascoltare impotente le notizie sempre peggiori che giungono dalla
Spagna. A fine agosto viene dimesso e torna a Parigi. La Spagna
repubblicana trascinerà la propria primavera ancora per un anno o
poco più. Nel ‘39 cade anche Barcellona, a marzo i franchisti
entrano a Madrid. Una guerra si è conclusa amaramente, una ancora
più sanguinosa sta per iniziare.
Viene
nuovamente arrestato e deportato. Fuggirà dal campo di detenzione
dopo l’8 settembre. Torna a Piacenza, ha cinquant’anni e potrebbe
scegliersi un ruolo più defilato, invece prende la via della
montagna. Stavolta il suo eterno nemico viene sconfitto, ma proprio
ora che può assaporare la vittoria, dedicarsi alla famiglia e al
sogno libertario, vede compiersi il suo destino. Il 30 settembre del
‘45 viene investito a Piacenza da un camion militare alleato,
mentre sta viaggiando in motocicletta sul sellino del passeggero.
Piacenza,
fine ottobre 1945.
Emilio Canzi respira a
fatica. Fernando entra nella stanza: nonostante la sua scarsa
esperienza, ormai gli è chiaro che il vero pericolo viene da quella
pleuropolmonite, non più dalle fratture o dall’amputazione della
gamba effettuata subito dopo l’incidente. Forse proprio per questo
quando lo sente ansimare si avvicina al suo letto e prova a
distogliere l’attenzione da quel respiro affannoso: «E la mano?
Come se l’è conciata così, se posso chiedere?»
«Questa ferita è della
Spagna…» Poi prosegue con difficoltà: «Huesca, i fascisti…»
«Non si sforzi. Ora non
deve più pensare ai fascisti. Li abbiamo battuti, grazie a quelli
come lei…»
«Qui sì. Ma in
Spagna…»
«Ora deve pensare a
stare tranquillo, perché la polmonite…»
Canzi lo interrompe con
l’unico sorriso che sa donargli: «Anche questa… un regalo dei
fascisti. Nella neve per settimane, durante il grande
rastrellamento…»
Il suo ansimare gli
arriva dentro, nel cuore, e parla a quel senso di colpa che Fernando
ha già sentito incontrando Bruna. Impotente come medico, è l’uomo
a parlare: «Tutti noi le dobbiamo un grosso grazie per quel che ha
fatto. Tutti, per primi quelli come me, che non hanno mai preso le
armi e forse, grazie a quelli come lei, non le prenderanno mai.»
Canzi fa un cenno con la
mano, come a dire che non c’è bisogno di ringraziare.
«Sono io, invece…»
prova a dire, ma il respiro si fa ancora più greve. Stavolta in
Fernando è il medico ad avere il sopravvento: «Lasci stare.
Immagino che lei non sia abituato a prendere ordini, ma in questo
caso faccia un’eccezione e ne accetti uno: riposi e non cerchi di
parlare. Ne discuteremo un’altra volta.»
Si
sbagliava, non avrebbero avuto altre occasioni, e pochi giorni dopo
la sua morte seppe che Emilio Canzi aveva lasciato tutti gli averi in
denaro agli infermieri dell’ospedale. Davvero troppi i motivi per
dirgli grazie, e non gliene aveva detti abbastanza.
Colpisce
lo scrittoio con un pugno. La sigaretta è finita e già ne vorrebbe
un’altra, ma resiste. Guarda la mano: sanguina, fa male. Si sente
stupido, ma anche piacevolmente vivo, perché quella è la rabbia dei
vent’anni, di quando era un medico sbarbatello, in servizio proprio
il giorno dell’incidente.
Prova
ancora vergogna al pensiero che sulle prime l’evento non gli
procurò partecipazione: era sul finire del turno, e imprecò per il
prolungamento forzato del servizio. La condivisione venne in seguito,
ma non bastò. E neppure riuscì a conoscere Canzi quanto avrebbe
voluto. Fernando sentiva il suo fascino, ma quel carisma aveva anche
il sapore di un peso troppo grave per la sua competenza di medico,
non ancora pienamente maturata, e il precipitare della situazione non
favorì certo l’approfondirsi dei contatti.
Vedeva
quell’uomo alto e robusto, ora debole e indifeso… Sentiva le
aspettative di amici e parenti affievolirsi, e i medici, fragili
custodi di quelle speranze, stavano fallendo nel loro compito. Dopo
quella mattina di fine ottobre, la salute del colonnello anarchico
peggiorò rapidamente. Morirà il 17 novembre.
Piacenza,
novembre 1945.
Così come nel giorno
dell’incidente, il caso ha voluto che Rinaldi sia in servizio anche
il giorno della morte. L’infermiere di turno ha consegnato a lui
quella foto, unica cosa dimenticata dai familiari e dai compagni che
hanno liberato la stanza.
Al funerale c’è
tantissima gente, proprio come il 28 aprile, quando Canzi è stato
accolto come un eroe in piazza Cavalli. Due occasioni distanti pochi
mesi, in cui Piacenza ha saputo dimostrargli la sua riconoscenza:
sarà così anche per la sua memoria, si domanda?
Tutta quella folla lo
intimorisce. Resta nel fiume di persone inebetito e un po’ fuori
posto, vergognandosi per la sua eccessiva discrezione, che gli
impedisce di avvicinarsi a Bruna per restituire la foto che tiene in
tasca. Nei giorni successivi continuerà a rimandare, fino a
rinunciare definitivamente.
Mette
l’immagine fra le sue. Decide di riporla nella copia di Omaggio
alla Catalogna,
in una delle prime pagine dove Orwell accenna a Huesca. Gli piace
mettere quella foto proprio lì. Ha conosciuto Canzi debole e ferito,
ma vuole ricordarlo così: in posa col fucile a tracolla, con
quell’aria austera e ottimista che sembra esorcizzare la sconfitta
più dolorosa.
Ha
messo due cerotti sulle nocche della mano. Non si è gonfiata, sembra
a posto. Alcune gocce di sangue, sulla scrivania. Le pulisce col
fazzoletto, che poi butta nella spazzatura: se Carmen lo trova sporco
di sangue, chissà cosa va a pensare, e poi potrebbe preoccuparsi.
Con
la memoria torna ai primi giorni della degenza di Canzi, quando si
temevano più le conseguenze dell’amputazione che il riacutizzarsi
della polmonite. Fernando pensa ancora a quel colloquio con Bruna e
con quel giovane che per primo gli raccontò chi era il colonnello
anarchico. Quel ragazzo si chiamava Gino Bergnia, conobbe proprio lì
all’ospedale la figlia di Canzi, se ne innamorò e la sposò pochi
mesi dopo, condividendo con lei tutta la vita.
Gli
scappa un sorriso: su Bruna un pensierino l’aveva fatto, ma la
timidezza… L’avrebbe rivista solo un’altra volta, da lontano.
Peli,
aprile 1975.
Fernando litiga con la
moglie: «Non capisco perché, con tutto quel che abbiamo da fare
durante la settimana, butti via una domenica per andartene a Peli.
Vorrei sapere cosa vuoi cercare.»
Neppure lui lo sa. Lungo
le tortuose stradine che da Piacenza si inerpicano fino a Bobbio e
poi a Peli non immagina quali sensazioni proverà, perché le
sensazioni si vivono, difficilmente si possono spiegare.
Fernando Rinaldi è
cambiato: non più un giovane medico, ma un affermato professionista,
e il suo impegno è maturato piano piano, dal tiepido antifascismo
dell’osservatore fino alla militanza nel Pci. Ma non è solo la
coscienza politica a portarlo a quella festa partigiana, lì a Peli,
dove la Resistenza piacentina è nata e dove Emilio Canzi ha voluto
essere seppellito.
Sul palco proprio Bruna.
Ora è cinquantenne, ma ancora si vedono i segni della donna giovane
e forte che è stata. Attorno, fisarmoniche e canti popolari…
Proprio come il 28 aprile ‘45, quando i partigiani erano entrati a
Piacenza. Oltre quattromila uomini convergevano verso piazza Cavalli,
mentre i nazifascisti in fuga passavano il Po.
Allora come oggi, chi
cantava Bella Ciao e Fischia il vento. Allora come oggi, una gioia
incontenibile, accanto al dolore di chi piange qualcuno fra quel
migliaio di morti che il piacentino ha dovuto pagare come prezzo
della Liberazione. Allora come oggi, sventolii di drappi tricolori.
Solo l’odore è diverso: nel ‘45 si respirava ancora l’odore
aspro delle rovine lasciate dai bombardamenti, oggi si respira l’aria
di primavera.
Allora, era calato il
silenzio quando dal balcone del Palazzo del Governatore si affacciò
Emilio Canzi. Proprio come oggi il silenzio cala quando la figlia
Bruna ricorda il padre.
“O
tu che qui pietoso t’aggiri, ascolta la voce che ammonitrice e
implacata s’alza da questa tomba”, sta scritto sulla lapide.
Fernando torna a casa
stanco e felice. È tardi, la moglie è a letto.
«Non sono solo. In
tanti lo ricordano ancora» prova a sussurrare, ma lei dorme già. E
il dottor Rinaldi sente nelle ossa, assieme alla stanchezza,
l’inspiegabile sensazione che qualcosa sta cambiando.
L’ha
letto sul giornale: al Parlamento si discuterà una legge per
equiparare a combattenti d’un esercito regolare quegli sciagurati
che, nei venti mesi dell’occupazione nazista, vestirono la divisa
della Repubblica di Salò… Che direbbe Emilio Canzi? Chi si ricorda
di lui? E soprattutto: c’è qualcuno che almeno prova un po’ di
imbarazzo per tutto questo?
Forse
solo ora capisce perché ha tenuto quella foto e perché tiene ad
assicurarsi che non vada persa. Ma non gli vengono in mente mani
sicure cui affidarla.
Il
figlio? No, Fabrizio è lontano, impegnato… A casa, al telefono,
non lo trova mai. Risponde Paola, a volte i piccoli: lui è sempre
chiuso nello studio a lavorare. Potrebbe scrivergli una lettera
affidandosi alla speranza che la vita di un altro a Fabrizio risulti
più interessante di quella del padre, ma non vuole diventare
patetico.
Allora
prende dallo scrittoio una grossa busta. Ci infila dentro quella foto
e il libro di Orwell, assieme a una lettera.
Cara
Carmen,
come
vede ho dato retta al suo consiglio, e ho sistemato lo studio.
Le
faccio solo una raccomandazione: le affido il libro e la foto che
trova in questa busta. Specie alla foto tengo molto, e voglio saperla
al sicuro.
Lei
viene da un grande paese, il Cile. Da un grande popolo, che ha
sofferto per la dittatura in tempi più recenti rispetto a noi. A
volte ne abbiamo parlato e so che è sensibile a questi argomenti:
forse la vostra memoria è un po’ meno distratta della nostra, non
è stata ancora anestetizzata e travolta…
Chi
è l’uomo della foto lo trova scritto sul retro. Emilio Canzi ha
lottato per la libertà tutta la vita, In Italia, in Francia, in
Spagna. Non scriverò la sua storia, forse un giorno lo farà
qualcuno più bravo di me. E poi ora non voglio annoiarla troppo: le
basti sapere che per me è importante. E non riesco a pensare a
nessuno più affidabile di lei cui dare questo mio “tesoro”.
M’accorgo
che le lascio un libro usato e una foto vecchia di settant’anni:
come regalo non è certo molto, ma perlomeno è un dono che ha il
pregio dell’originalità. Quando sfoglierà il libro, quando darà
un’occhiata a quella foto, le chiedo di pensare a Emilio Canzi, a
quanto è importante lottare per la libertà. E, magari, di pensare
un po’ anche a me.
Fernando
Rinaldi
Sente
lo stomaco in subbuglio, la testa confusa e pesante. Pensa che un
bagno lo potrebbe aiutare. Apre l’acqua calda e miscela la fredda.
Ecco, così… Sì, quella sensazione sulla mano lo fa sentire
meglio. Non scotta più, va bene…
Torna
nella camera da letto, per cercare la biancheria di ricambio. Sente
la schiena percorsa da brividi, brividi di malattia. Pensa di
stendersi sul letto un attimo, mentre la vasca si riempie. I brividi
aumentano, si rannicchia tirando verso di sé le ginocchia e
raccogliendo il capo. La febbre sta salendo.
**********
NOTE:
Figura
romantica e carismatica, Emilio Canzi fu presente nell’intero arco
temporale in cui si dispiegò la resistenza antifascista.
Le
informazioni sul
personaggio sono tratte da
Il colonnello anarchico.
Emilio Canzi e la guerra civile spagnola,
di Ivano Tagliaferri (Piacenza 2005), storico appassionato
dell’antifascismo piacentino.
La
figura del vecchio medico è opera di fantasia.
Nel
dialogo (anch’esso di fantasia) ambientato sul fronte spagnolo ho
immaginato che Canzi si rivolga a Ferruccio Tantini, anarchico
bolognese che condivise con Canzi quell’esperienza. È una
supposizione, non so se Tantini fosse ancora sul fronte spagnolo,
dopo i fatti del maggio 1937 a Barcellona e l’esplosione dei
contrasti fra gli stalinisti e i militanti libertari. Sempre in
questo dialogo Canzi accenna a Camillo e Francesco, due vittime della
repressione stalinista: si tratta di Camillo Berneri e Francesco
Barbieri. Specie al primo era molto legato, e sarà proprio la vedova
di Berneri a leggere una toccante orazione funebre in memoria di
Canzi.
La
frase che dà titolo al racconto è tratta da Omaggio
alla Catalogna di
George Orwell, che riporta il motto “Domani prenderemo un caffè a
Huesca”, detto ottimisticamente da un generale repubblicano a
proposito di uno dei numerosi tentativi falliti di attacco alla
città.