Mercoledì sera ero a Milano, allo Spazio Teatro 89, per una serata in
memoria della strage di Piazza Fontana. Devo fare un elenco di alcune
persone che erano con me; non per soddisfare la voglia di protagonismo
di qualcuno ma, al contrario, per evidenziare qualche assenza. C’erano
Daniele Biacchessi (giornalista e scrittore: a lui si deve il progetto
“suoni della memoria”, in cui si inseriva l’iniziativa), gli avvocati
Sinicato e Mariani (legali storici dei processi su Piazza Fontana),
Walter Bielli (membro della commissione stragi), Francesca Dendena
(figlia di Pietro, morto nella strage), e altri ancora: Saverio Ferrari,
Lydia Franceschi, il giudice Salvini, mi scuso con quelli che
dimentico. Presenze qualificate e interessanti, per una serata che
grazie a loro non è stata semplice commemorazione ma “memoria”. Però
dov’era il Comune di Milano? Dov’erano le Istituzioni?
Ho una brutta
sensazione, che fatico a scacciare, come si dovrebbe fare coi cattivi
pensieri: che per le autorità le stragi si liquidano con un minuto di
silenzio, o con una corona di fiori posta alle 16,33 di ogni 12
dicembre. Del resto, proprio al teatro alla Scala di Milano, se la sono
cavata così anche recentemente, per gli operai assassinati
all’acciaieria di Torino. Vestiti di gala, gioielli tirati fuori per
l’occasione, abiti da sera scosciati, qualche décolleté un po’ azzardato
o ottimista… Uomini e donne con la divisa del grande appuntamento: un
minuto di raccoglimento, e poi via, 5 ore di Wagner. Poco m’importa di
loro; mi preoccupa di più lo stato della memoria di questo paese, che mi
sembra maggiormente garantita da chi era con noi l'altra sera, i
vestiti decisamente meno appariscenti, il silenzio raccolto di chi
ricorda uno dei tanti, troppi giorni in cui l’Italia si è sentita ferita
e perduta.
Il giudice Salvini ci ha portato una notizia positiva,
ufficialmente comunicata proprio mercoledì a Cremona. Da anni, assieme
alla richiesta di verità e giustizia, i familiari delle vittime di molte
stragi italiane si sono fatti carico di una pressante esigenza circa la
sorte degli atti dei processi. Migliaia di pagine che rischiano di
deteriorarsi e di finire al macero, o comunque di diventare inservibili.
Questo appello, sostenuto anche da qualche bravo giornalista e dal
ministero della Giustizia, è arrivato all’attenzione di Pierpaolo
Beluzzi, magistrato di Cremona interessato alla questione e competente
in materia informatica. La digitalizzazione degli atti è partita con lo
spezzone che fu di competenza del dottor Salvini, ed è stata realizzata
in pochi mesi da una cooperativa interna al carcere, da 4 detenuti, e
questo mi sembra un valore aggiunto per un’iniziativa già di per sé
lodevole. Da gennaio il progetto si farà più ambizioso, e col supporto
di altre realtà si digitalizzeranno gli atti di Catanzaro, sempre su
Piazza Fontana, ma l’obbiettivo è creare una banca dati complessiva sui
processi delle stragi italiane, in futuro disponibile via internet
secondo modalità e tempi ancora da definire.
Scrivo queste righe
mentre il treno mi scuote, sto tornando a casa. Penso a Licia Pinelli,
che diceva “avere giustizia è che tutti sappiano la verità”. E penso a
mio figlio, che ieri mi chiedeva “di cosa parlerai stasera? Di Piazza
Fontana? Cos’è, un giorno la studierò?”.
Forse sì, figlio mio. O
forse sul tuo libro di storia troverai un buco, come quello che una
borsa in pelle lasciò sotto il tavolo in mogano del salone, nella banca
nazionale dell’agricoltura. Ma ci sarò io a spiegarti, e se l’iniziativa
cui accennavo andrà in porto potrai conoscere, sapere… Forse, se almeno
tu sarai consapevole, non si potrà dire che hanno vinto “i cattivi”,
che hanno vinto loro.
venerdì 14 dicembre 2007
giovedì 15 novembre 2007
Caso Sandri: la morte di Gabriele e il silenzio dei poliziotti democratici
Sui fatti di domenica si potrebbero scrivere molte riflessioni: sull’uso
delle armi da parte delle forze dell’ordine e sulla trasparenza di
queste; sulla deriva che ha fatto assumere al calcio un’importanza
spropositata, con conseguenti implicazioni sociali e di ordine pubblico.
Ma qualche riflessione interessante può nascere anche solo
ripercorrendo la sequenza temporale delle notizie.
I primi lanci di agenzia avvengono a mezzogiorno. Sono passate più di due ore dalla morte di Gabriele Sandri, ma queste notizie parlano di “scontri tra tifosi con un morto”, non c’è menzione del poliziotto che ha sparato. Nei lanci successivi la rissa tra tifosi si sgonfia e di pari passo si fa strada la notizia, sempre ipotetica, che a sparare potrebbe essere stato un poliziotto: sono circa le 12,30.
Fra le 12,40 e le 13,00 cominciano le prime ammissioni: prima il questore poi il dirigente della squadra mobile di Arezzo parlano di “situazione delicata”, e rimandano dichiarazioni più esplicite. La prima affermazione perentoria circa l’identità dello sparatore arriva alle 13,31, solo che a farla non sono fonti delle forze dell’ordine ma tifosi laziali. Da questo momento in avanti, di fronte all’evidenza, arrivano anche le ammissioni ufficiali, sempre timide e reticenti.
Alle 18,00 il questore, in conferenza stampa, parla di due colpi in aria, pur riconoscendo il nesso fra questi e la morte di Sandri. Alla conferenza stampa è presente il portavoce della Polizia, Roberto Sgalla, protagonista di un’altrettanto surreale conferenza stampa sei anni fa. Fu lui, dopo la notte della Diaz, ad illustrare ai giornalisti le “prove” raccolte alla scuola e a parlare di ferite pregresse per i ragazzi pestati. Domenica scorsa Sgalla ha proposto un repertorio leggermente diverso: si limita a troncare l’incontro con la stampa, e nega ai giornalisti di fare domande, costringendoli ad accontentarsi della laconica (ed errata) ricostruzione del questore. La “notte cilena” di sei anni fa ha forse insegnato a Sgalla l’arte di limitare le dichiarazioni, non certo la dote della trasparenza.
Perché il punto in fondo è tutto qui. Coloro che in queste ore tuonano contro i “detrattori delle forze dell’ordine” fingono di non capire che, per recuperare il rapporto di fiducia fra cittadini ed operatori di polizia, si deve prioritariamente invertire una tendenza: i fatti di sangue che vedono come protagonisti degli agenti non devono essere coperti da una cortina fumogena. La trasparenza non deve solo essere promessa, la si deve assicurare concretamente e nell’immediato: prometterla vagamente, come ha fatto il capo della polizia Antonio Manganelli a 12 ore di distanza dalla morte di Sandri, non è solo insufficiente, ma pure una rinnovata reticenza.
Molti hanno accostato la morte del giovane tifoso laziale a quella di Carlo Giuliani o di Federico Aldrovandi, io voglio andare più lontano, a più di trent’anni fa. Quando Roberto Franceschi viene raggiunto da un proiettile sparato da un agente la sera del 23 gennaio 1973, dopo alcuni disordini a seguito di un’assemblea del movimento studentesco a Milano. Ricoverato in condizioni disperate, si spegne pochi giorni dopo. Le sentenze non appureranno l’identità del colpevole, ma indicheranno con certezza la responsabilità della polizia.
Lydia, madre di Roberto, ricorda ancora d’aver apprezzato l’atteggiamento di alcuni agenti che qualche tempo dopo le dimostrarono sincera indignazione per quanto successo, atteggiamento ben distante dall’acritica difesa corporativa cui assistiamo oggi. Alcuni di questi, il 23 gennaio 1983 deposero sul monumento una corona con la scritta: "A Roberto Franceschi i poliziotti democratici”.
La presa di coscienza di quei poliziotti è quello che davvero manca oggi, tanti anni dopo, la loro voce è l’assenza più pesante di queste ore. Un silenzio che ci parla di un passo indietro di decenni compiuto dalle nostre forze dell’ordine in materia di rispetto dei diritti individuali e di consapevolezza del proprio ruolo. Un passo indietro su un percorso sempre più scivoloso, che nessuno sembra saper arrestare.
I primi lanci di agenzia avvengono a mezzogiorno. Sono passate più di due ore dalla morte di Gabriele Sandri, ma queste notizie parlano di “scontri tra tifosi con un morto”, non c’è menzione del poliziotto che ha sparato. Nei lanci successivi la rissa tra tifosi si sgonfia e di pari passo si fa strada la notizia, sempre ipotetica, che a sparare potrebbe essere stato un poliziotto: sono circa le 12,30.
Fra le 12,40 e le 13,00 cominciano le prime ammissioni: prima il questore poi il dirigente della squadra mobile di Arezzo parlano di “situazione delicata”, e rimandano dichiarazioni più esplicite. La prima affermazione perentoria circa l’identità dello sparatore arriva alle 13,31, solo che a farla non sono fonti delle forze dell’ordine ma tifosi laziali. Da questo momento in avanti, di fronte all’evidenza, arrivano anche le ammissioni ufficiali, sempre timide e reticenti.
Alle 18,00 il questore, in conferenza stampa, parla di due colpi in aria, pur riconoscendo il nesso fra questi e la morte di Sandri. Alla conferenza stampa è presente il portavoce della Polizia, Roberto Sgalla, protagonista di un’altrettanto surreale conferenza stampa sei anni fa. Fu lui, dopo la notte della Diaz, ad illustrare ai giornalisti le “prove” raccolte alla scuola e a parlare di ferite pregresse per i ragazzi pestati. Domenica scorsa Sgalla ha proposto un repertorio leggermente diverso: si limita a troncare l’incontro con la stampa, e nega ai giornalisti di fare domande, costringendoli ad accontentarsi della laconica (ed errata) ricostruzione del questore. La “notte cilena” di sei anni fa ha forse insegnato a Sgalla l’arte di limitare le dichiarazioni, non certo la dote della trasparenza.
Perché il punto in fondo è tutto qui. Coloro che in queste ore tuonano contro i “detrattori delle forze dell’ordine” fingono di non capire che, per recuperare il rapporto di fiducia fra cittadini ed operatori di polizia, si deve prioritariamente invertire una tendenza: i fatti di sangue che vedono come protagonisti degli agenti non devono essere coperti da una cortina fumogena. La trasparenza non deve solo essere promessa, la si deve assicurare concretamente e nell’immediato: prometterla vagamente, come ha fatto il capo della polizia Antonio Manganelli a 12 ore di distanza dalla morte di Sandri, non è solo insufficiente, ma pure una rinnovata reticenza.
Molti hanno accostato la morte del giovane tifoso laziale a quella di Carlo Giuliani o di Federico Aldrovandi, io voglio andare più lontano, a più di trent’anni fa. Quando Roberto Franceschi viene raggiunto da un proiettile sparato da un agente la sera del 23 gennaio 1973, dopo alcuni disordini a seguito di un’assemblea del movimento studentesco a Milano. Ricoverato in condizioni disperate, si spegne pochi giorni dopo. Le sentenze non appureranno l’identità del colpevole, ma indicheranno con certezza la responsabilità della polizia.
Lydia, madre di Roberto, ricorda ancora d’aver apprezzato l’atteggiamento di alcuni agenti che qualche tempo dopo le dimostrarono sincera indignazione per quanto successo, atteggiamento ben distante dall’acritica difesa corporativa cui assistiamo oggi. Alcuni di questi, il 23 gennaio 1983 deposero sul monumento una corona con la scritta: "A Roberto Franceschi i poliziotti democratici”.
La presa di coscienza di quei poliziotti è quello che davvero manca oggi, tanti anni dopo, la loro voce è l’assenza più pesante di queste ore. Un silenzio che ci parla di un passo indietro di decenni compiuto dalle nostre forze dell’ordine in materia di rispetto dei diritti individuali e di consapevolezza del proprio ruolo. Un passo indietro su un percorso sempre più scivoloso, che nessuno sembra saper arrestare.
mercoledì 7 novembre 2007
Una piccola perdita
Il Principe aveva lavorato a lungo per preparare la grande festa di quei
giorni. A palazzo erano attesi nobili, condottieri, dame di grande
fascino, e tutto doveva essere perfetto. Li aveva accolti col suo
eloquio colto e tranquillo, un sorriso rassicurante sulle labbra, ma chi
lo conosceva bene poteva vedere nei suoi gesti qualche cenno di
stanchezza. Alcuni sostengono che il Principe fosse sotto pressione
anche per altri motivi. L’Imperatore, così pare, lo aveva prescelto per
compiti più alti, forse addirittura per farne il suo successore. Altri
sostengono fosse stato lo stesso Principe a creare le condizioni
affinchè quella nomina apparisse poco più di un passaggio obbligato. Noi
storici, a tanti anni di distanza, non sappiamo sciogliere questo
dubbio, e possiamo solo registrare le diverse ipotesi.
Anche sulla piccola tragedia di quel giorno non ci è possibile esprimere certezze. Poco distante dal palazzo e dalla festa, dove gli invitati si intrattenevano fra canti, balli e rappresentazioni teatrali, un bambino di due mesi era morto di freddo. Secondo la sua biografia consolidata, che ne ha costruito un profilo di alte doti morali e intellettuali, Lui era sempre attento ai bisogni dei suoi sudditi, e se l’avesse saputo non sarebbe rimasto insensibile di fronte alla notizia. Avrebbe certamente fermato la festa e pronunciato qualche parola di sincera commozione, per poi fare visita alla madre di quel bambino recandole conforto e aiuto.
Alcuni dicono che il Principe fosse stato informato, ma in ritardo. Altri, che fu il Gran Ciambellano a disporre che quella notizia non lo turbasse. Per quanto strano possa sembrare a chi si interessa della sua storia, di sicuro c’è solo che il Principe non disse o fece nulla, e il fatto passò sotto silenzio per alcuni giorni. Molti storici hanno letteralmente rimosso questa macchia dalla sua biografia, non si sa se per sudditanza psicologica o per sciatteria. Fermo restando che quel silenzio, secondo il profilo del Personaggio, appare difficilmente spiegabile, noi preferiamo consegnare alla valutazione del lettore anche questo aneddoto. Lo facciamo perché la Storia è fatta pure di attenzione a tutto quello che, a una prima analisi, può sembrare marginale; così è nostro dovere dire di altre fonti, secondo cui le cose si sarebbero svolte in modo ancor meno edificante. Secondo queste fonti, nei giorni successivi a quella piccola tragedia, un giullare improvvisò uno spettacolo in una piazza del Paese.
< Gentili donne, distinti signori > disse, < oggi il mio cuore è triste. Perché non sono qui per regalarvi un sorriso, come mi è consueto, e per un buffone non c’è cosa peggiore della consapevolezza di non poter fare ciò per cui si sente nato. Ma il mio cuore piange e sanguina persino più copiosamente per quel che vi devo raccontare. Questo Paese non è quello che credete, l’isola felice dove a tutti è data felicità e sicurezza grazie all’instancabile opera del nostro Principe. Un bambino di soli due mesi è morto di freddo, poche sere fa. Due mesi non sono una vita, sono un lampo di esistenza troppo breve. Si è addormentato nel suo giaciglio, e non ha visto il sole sorgere. E non l’ha visto non per qualche subdola malattia, scherzo crudele della natura che pure dobbiamo accettare, ma perché la sua giovane famiglia non l’ha potuto difendere dal freddo, accampata com’era lungo la riva del fiume. Alcuni si chiederanno cos’abbia detto o fatto il Principe, fra qualche giorno magari vi racconteranno il suo dolore. Ma la verità è un’altra >.
Un brusio inquieto e incredulo accompagnò quelle parole. Il giullare lo zittì con un cenno della mano.
< Sì, miei concittadini. Avete capito bene. Ma forse la tragedia più grande è proprio il vostro stupore. Mentre voi non l’immaginate neppure, esiste una realtà fatta di decine, forse centinaia di famiglie che vivono lungo il fiume, lontano dai nostri occhi e dai nostri tardivi rimorsi di coscienza. Occupano tende che noi non useremmo neppure per una villeggiatura. E questo avviene NON “nonostante” il volere del Principe, ma “grazie” al suo – e in fondo al nostro – volere. La verità è che quella famiglia, insieme a molte altre, era stata costretta ad abbandonare il proprio accampamento, di fortuna ma pur sempre relativamente sicuro e confortevole, cercandosi un’altra sistemazione per rispettare un ordine di Palazzo. Il Principe temeva che la festa (che tanta fatica gli era costata e che poteva costituire benemerenza presso l’Imperatore) potesse essere turbata alla vista di quei poveracci. Le cui condizioni d’indigenza, peraltro, in passato li hanno portati a distinguersi in attività non proprio nobili, che minano – citando il Gran Ciambellano – “la nostra percezione di sicurezza” >.
Gli scarni documenti a nostra disposizione su quei giorni ci impediscono, da qui in poi, di proseguire il racconto del giullare, e ci proiettano ancora nel campo delle possibilità. Secondo alcuni commentatori, evidentemente sfavorevoli al Principe e che non non accreditiamo né smentiamo, ma riportiamo col rigore proprio del nostro compito, quelle parole arrivarono alle orecchie del Gran Ciambellano. Per un attimo un’ombra velò i suoi occhi azzurri; non per la sorte del neonato, ma perché sapeva che quelle parole – più ancora della consapevolezza della tragedia – avrebbero rattristato il Principe. Alcuni detrattori più radicali sostengono che l’alto ministro temesse ripercussioni presso l’Imperatore, forse addirittura che si mettesse in dubbio la successione. Non si sa se per un’iniziativa diretta del Gran Ciambellano, o se dopo consultazione col Principe, il buffone fu arrestato e da qui se ne perdono le tracce.
Si dice che pochi giorni dopo il Principe in persona si sia recato dalla madre della piccola vittima, portando con sé un sacchetto di monete d’oro e, cosa più importante, la sua regale solidarietà. Secondo queste voci l’incontro fu (riportiamo testualmente la fonte) “intenso e commovente. Il Principe è apparso segnato dall’emozione e, sciogliendo l’abbraccio con la sventurata madre, aveva gli occhi velati di lacrime”. Si aggiunge, per dovere di cronaca, che secondo lo stesso documento all’incontro era presente il Gran Ciambellano, il quale non palesò uguale turbamento; ma l’autore della testimonianza si distingue per una buona dose di acrimonia verso il Gran Ciambellano, ricordandolo in altra parte dello scritto come “un uomo distante dai sentimenti umani, noto ai più per il suo sguardo gelido da rettile”.
Le cronache non raccontano nulla circa eventuali reazioni popolari al racconto del giullare e alla sua incarcerazione, e neppure sappiamo se il Principe ritenne di emanare un editto per assicurare condizioni di vita più dignitose alle altre famiglie costrette a vivere all’addiaccio. Formulare supposizioni esulerebbe dal compito dello storico, che deve solo raccontare i fatti, e a tale compito ci siamo attenuti. Sappia però il lettore che la nostra conoscenza di quel periodo ci fa supporre che il solo frutto concreto della vicenda fu ciò che poté avere quella giovane madre: un sacchetto di monete, un abbraccio, una lacrima negli occhi del Principe. E lo sguardo gelido da rettile del Gran Ciambellano, che vedeva in lei solo un problema risolto.
***********
Sabato 20 ottobre 2007 un piccolo rom di due mesi è morto di freddo a Roma. Le prime avvisaglie di un inverno in anticipo l’hanno raggiunto nella tenda dove era accampato con la sua famiglia, in seguito allo sgombero disposto poche settimane prima dal sindaco di Roma.
Come lo storico del racconto, anch’io non so se lo sgombero fosse dovuto alla volontà di “pulire” Roma in vista della festa del cinema, confinando alla periferia le presenze “esteticamente incompatibili”, o se gli sgomberi fossero frutto dell’ormai perenne “campagna sicurezza”; e, come lui, anch’io consegno al lettore queste ipotesi assieme ad ogni altra possibile, e neppure m’interessa sapere se il freddo sia stata causa o concausa della morte del piccolo.
In questo contesto, l’identificazione del personaggio del Principe, del bimbo morto e della festa di Palazzo, lascia poco spazio alla fantasia del lettore. Maggiore discrezionalità esiste nell’identificare il Gran Ciambellano o l’Imperatore, ma poco importa.
Il coraggioso giullare, purtroppo, non trova riscontro in alcun personaggio reale: la morte del piccolo cittadino rumeno (perché è così che lo voglio chiamare, ritenendo superflua ogni parola in più) non ha provocato analoghi slanci di coscienza. E forse la figura dell’irriverente buffone è quella di cui maggiormente si sente la mancanza nella realtà.
Anche sulla piccola tragedia di quel giorno non ci è possibile esprimere certezze. Poco distante dal palazzo e dalla festa, dove gli invitati si intrattenevano fra canti, balli e rappresentazioni teatrali, un bambino di due mesi era morto di freddo. Secondo la sua biografia consolidata, che ne ha costruito un profilo di alte doti morali e intellettuali, Lui era sempre attento ai bisogni dei suoi sudditi, e se l’avesse saputo non sarebbe rimasto insensibile di fronte alla notizia. Avrebbe certamente fermato la festa e pronunciato qualche parola di sincera commozione, per poi fare visita alla madre di quel bambino recandole conforto e aiuto.
Alcuni dicono che il Principe fosse stato informato, ma in ritardo. Altri, che fu il Gran Ciambellano a disporre che quella notizia non lo turbasse. Per quanto strano possa sembrare a chi si interessa della sua storia, di sicuro c’è solo che il Principe non disse o fece nulla, e il fatto passò sotto silenzio per alcuni giorni. Molti storici hanno letteralmente rimosso questa macchia dalla sua biografia, non si sa se per sudditanza psicologica o per sciatteria. Fermo restando che quel silenzio, secondo il profilo del Personaggio, appare difficilmente spiegabile, noi preferiamo consegnare alla valutazione del lettore anche questo aneddoto. Lo facciamo perché la Storia è fatta pure di attenzione a tutto quello che, a una prima analisi, può sembrare marginale; così è nostro dovere dire di altre fonti, secondo cui le cose si sarebbero svolte in modo ancor meno edificante. Secondo queste fonti, nei giorni successivi a quella piccola tragedia, un giullare improvvisò uno spettacolo in una piazza del Paese.
< Gentili donne, distinti signori > disse, < oggi il mio cuore è triste. Perché non sono qui per regalarvi un sorriso, come mi è consueto, e per un buffone non c’è cosa peggiore della consapevolezza di non poter fare ciò per cui si sente nato. Ma il mio cuore piange e sanguina persino più copiosamente per quel che vi devo raccontare. Questo Paese non è quello che credete, l’isola felice dove a tutti è data felicità e sicurezza grazie all’instancabile opera del nostro Principe. Un bambino di soli due mesi è morto di freddo, poche sere fa. Due mesi non sono una vita, sono un lampo di esistenza troppo breve. Si è addormentato nel suo giaciglio, e non ha visto il sole sorgere. E non l’ha visto non per qualche subdola malattia, scherzo crudele della natura che pure dobbiamo accettare, ma perché la sua giovane famiglia non l’ha potuto difendere dal freddo, accampata com’era lungo la riva del fiume. Alcuni si chiederanno cos’abbia detto o fatto il Principe, fra qualche giorno magari vi racconteranno il suo dolore. Ma la verità è un’altra >.
Un brusio inquieto e incredulo accompagnò quelle parole. Il giullare lo zittì con un cenno della mano.
< Sì, miei concittadini. Avete capito bene. Ma forse la tragedia più grande è proprio il vostro stupore. Mentre voi non l’immaginate neppure, esiste una realtà fatta di decine, forse centinaia di famiglie che vivono lungo il fiume, lontano dai nostri occhi e dai nostri tardivi rimorsi di coscienza. Occupano tende che noi non useremmo neppure per una villeggiatura. E questo avviene NON “nonostante” il volere del Principe, ma “grazie” al suo – e in fondo al nostro – volere. La verità è che quella famiglia, insieme a molte altre, era stata costretta ad abbandonare il proprio accampamento, di fortuna ma pur sempre relativamente sicuro e confortevole, cercandosi un’altra sistemazione per rispettare un ordine di Palazzo. Il Principe temeva che la festa (che tanta fatica gli era costata e che poteva costituire benemerenza presso l’Imperatore) potesse essere turbata alla vista di quei poveracci. Le cui condizioni d’indigenza, peraltro, in passato li hanno portati a distinguersi in attività non proprio nobili, che minano – citando il Gran Ciambellano – “la nostra percezione di sicurezza” >.
Gli scarni documenti a nostra disposizione su quei giorni ci impediscono, da qui in poi, di proseguire il racconto del giullare, e ci proiettano ancora nel campo delle possibilità. Secondo alcuni commentatori, evidentemente sfavorevoli al Principe e che non non accreditiamo né smentiamo, ma riportiamo col rigore proprio del nostro compito, quelle parole arrivarono alle orecchie del Gran Ciambellano. Per un attimo un’ombra velò i suoi occhi azzurri; non per la sorte del neonato, ma perché sapeva che quelle parole – più ancora della consapevolezza della tragedia – avrebbero rattristato il Principe. Alcuni detrattori più radicali sostengono che l’alto ministro temesse ripercussioni presso l’Imperatore, forse addirittura che si mettesse in dubbio la successione. Non si sa se per un’iniziativa diretta del Gran Ciambellano, o se dopo consultazione col Principe, il buffone fu arrestato e da qui se ne perdono le tracce.
Si dice che pochi giorni dopo il Principe in persona si sia recato dalla madre della piccola vittima, portando con sé un sacchetto di monete d’oro e, cosa più importante, la sua regale solidarietà. Secondo queste voci l’incontro fu (riportiamo testualmente la fonte) “intenso e commovente. Il Principe è apparso segnato dall’emozione e, sciogliendo l’abbraccio con la sventurata madre, aveva gli occhi velati di lacrime”. Si aggiunge, per dovere di cronaca, che secondo lo stesso documento all’incontro era presente il Gran Ciambellano, il quale non palesò uguale turbamento; ma l’autore della testimonianza si distingue per una buona dose di acrimonia verso il Gran Ciambellano, ricordandolo in altra parte dello scritto come “un uomo distante dai sentimenti umani, noto ai più per il suo sguardo gelido da rettile”.
Le cronache non raccontano nulla circa eventuali reazioni popolari al racconto del giullare e alla sua incarcerazione, e neppure sappiamo se il Principe ritenne di emanare un editto per assicurare condizioni di vita più dignitose alle altre famiglie costrette a vivere all’addiaccio. Formulare supposizioni esulerebbe dal compito dello storico, che deve solo raccontare i fatti, e a tale compito ci siamo attenuti. Sappia però il lettore che la nostra conoscenza di quel periodo ci fa supporre che il solo frutto concreto della vicenda fu ciò che poté avere quella giovane madre: un sacchetto di monete, un abbraccio, una lacrima negli occhi del Principe. E lo sguardo gelido da rettile del Gran Ciambellano, che vedeva in lei solo un problema risolto.
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Sabato 20 ottobre 2007 un piccolo rom di due mesi è morto di freddo a Roma. Le prime avvisaglie di un inverno in anticipo l’hanno raggiunto nella tenda dove era accampato con la sua famiglia, in seguito allo sgombero disposto poche settimane prima dal sindaco di Roma.
Come lo storico del racconto, anch’io non so se lo sgombero fosse dovuto alla volontà di “pulire” Roma in vista della festa del cinema, confinando alla periferia le presenze “esteticamente incompatibili”, o se gli sgomberi fossero frutto dell’ormai perenne “campagna sicurezza”; e, come lui, anch’io consegno al lettore queste ipotesi assieme ad ogni altra possibile, e neppure m’interessa sapere se il freddo sia stata causa o concausa della morte del piccolo.
In questo contesto, l’identificazione del personaggio del Principe, del bimbo morto e della festa di Palazzo, lascia poco spazio alla fantasia del lettore. Maggiore discrezionalità esiste nell’identificare il Gran Ciambellano o l’Imperatore, ma poco importa.
Il coraggioso giullare, purtroppo, non trova riscontro in alcun personaggio reale: la morte del piccolo cittadino rumeno (perché è così che lo voglio chiamare, ritenendo superflua ogni parola in più) non ha provocato analoghi slanci di coscienza. E forse la figura dell’irriverente buffone è quella di cui maggiormente si sente la mancanza nella realtà.
mercoledì 24 ottobre 2007
Lettera aperta ai pm Andrea Canciani e Anna Canepa
Egregio Dr. Canciani, Egregia Dr.sa Canepa,
non sono d’accordo con la vostra lettura dei fatti di Genova. Questa frase voglio specificarla: non ho detto semplicemente che non concordo con le pene chieste per i manifestanti imputati per il G8 genovese, ma che dissento dall’impianto complessivo della vostra ricostruzione.
Ho letto che auspicate uguale severità per le forze dell’ordine coinvolte nella “macelleria messicana” della Diaz o nelle sevizie di Bolzaneto. Alcuni, probabilmente, vi accuseranno di cerchiobottismo; personalmente ritengo sincero il vostro auspicio, ma lo inquadro in modo persino più negativo. Tendo a riconoscere a chiunque, in prima valutazione, la buonafede; a voi la riconosco non solo per principio, ma per sincera convinzione. Siete uomini di legge, quella è la vostra bussola, e vorreste vederla applicata con rigore e inflessibilità, nei fatti di piazza come alla Diaz. Ma è una bussola strabica, e comunque insufficiente.
Io, vi confesso, non credo alla giustizia divina, ma soprattutto non credo che quella umana ne sia un surrogato. Questa giustizia terrena che rincorre codici e cavilli la vedo più come una meccanica razionale che vuole ingabbiare i comportamenti umani secondo schemi che prescindono la complessità delle situazioni. Dr. Canciani, Dr.sa Canepa, voi state cercando di misurare Genova con un metro inadatto allo scopo, di contare le colpe col pallottoliere. La vostra colpa non sta tanto nell’aver usato quei mezzi (sono i soli che avete a disposizione) quanto nel non saperne o volerne vedere l’inadeguatezza.
Accantoniamo per un momento le prescrizioni incombenti per i rappresentanti delle forze dell’ordine negli altri processi, nonché la sproporzione fra le pene richieste per i manifestanti e quelle ipotizzabili per agenti e funzionari. Si tratta di questioni fondamentali e da non dimenticare, ma rischiano di farmi usare lo stesso metro e lo stesso pallottoliere. Questi aspetti dovrebbero far riflettere più voi che me, ma non è il punto su cui voglio soffermarmi.
Da qualche parte ho letto che bisogna andarci cauti nell’attaccare la procura genovese, perché sulla Diaz o su Bolzaneto avrebbe lavorato bene, fra mille difficoltà. Ebbene, a me di difendere o attaccare la procura di Genova non interessa nulla: io voglio spostare la prospettiva con cui si dovrebbe guardare ai fatti del luglio 2001. E lanciare un allarme: non deleghiamo la ricostruzione della verità alla sola dimensione processuale. Si rischia la deriva pericolosissima di banalizzare il dibattito in termini calcistici: col processo ai 25 manifestanti si segna l’uno a zero “per gli agenti”, con quello sulla Diaz potrebbero pareggiare “gli imputati”, poi sarà Bolzaneto a far pendere le sorti dell’incontro da una parte o dall’altra.
Non ci sto, questa logica mi è aliena (oltre a ricordarmi tristemente l’esultanza di quella poliziotta che inneggiava in modo analogo alla notizia della morte di Carlo). A Genova abbiamo visto “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Questo fu il giudizio di Amnesty International, ed è un dato di partenza (e non di arrivo) per chiunque voglia affrontare i fatti del G8 2001.
Dr. Canciani, Dr.sa Canepa, ho visto troppi imputati giocare alle tre scimmiette nel processo su Bolzaneto. Non hanno visto, non hanno sentito, sicuramente non parlano. E quel che hanno visto o sentito l’hanno ritenuto “normale”. Sulla Diaz molti imputati, dall’alto delle loro poltrone (inattaccate o addirittura rese più elevate e confortevoli in questi anni) hanno addirittura snobbato il processo. I fatti di Genova sono stati banalizzati, riconducendoli a logiche di violenze contrapposte: da un lato i manifestanti che “devastano e saccheggiano”, dall’altro gli “eccessi” delle forze dell’ordine. A questa logica vi siete conformati, ma la verità su Genova non verrà data dal pallottoliere che conterà i cattivi dividendoli in due squadre e facendo la conta. Così si potrà dare soddisfazione a quella giustizia meccanica che chiuderà le sue pratiche con un’equità ipocrita, totalmente avulsa dalla ricostruzione della verità. Forse a voi basta, a me sicuramente no.
non sono d’accordo con la vostra lettura dei fatti di Genova. Questa frase voglio specificarla: non ho detto semplicemente che non concordo con le pene chieste per i manifestanti imputati per il G8 genovese, ma che dissento dall’impianto complessivo della vostra ricostruzione.
Ho letto che auspicate uguale severità per le forze dell’ordine coinvolte nella “macelleria messicana” della Diaz o nelle sevizie di Bolzaneto. Alcuni, probabilmente, vi accuseranno di cerchiobottismo; personalmente ritengo sincero il vostro auspicio, ma lo inquadro in modo persino più negativo. Tendo a riconoscere a chiunque, in prima valutazione, la buonafede; a voi la riconosco non solo per principio, ma per sincera convinzione. Siete uomini di legge, quella è la vostra bussola, e vorreste vederla applicata con rigore e inflessibilità, nei fatti di piazza come alla Diaz. Ma è una bussola strabica, e comunque insufficiente.
Io, vi confesso, non credo alla giustizia divina, ma soprattutto non credo che quella umana ne sia un surrogato. Questa giustizia terrena che rincorre codici e cavilli la vedo più come una meccanica razionale che vuole ingabbiare i comportamenti umani secondo schemi che prescindono la complessità delle situazioni. Dr. Canciani, Dr.sa Canepa, voi state cercando di misurare Genova con un metro inadatto allo scopo, di contare le colpe col pallottoliere. La vostra colpa non sta tanto nell’aver usato quei mezzi (sono i soli che avete a disposizione) quanto nel non saperne o volerne vedere l’inadeguatezza.
Accantoniamo per un momento le prescrizioni incombenti per i rappresentanti delle forze dell’ordine negli altri processi, nonché la sproporzione fra le pene richieste per i manifestanti e quelle ipotizzabili per agenti e funzionari. Si tratta di questioni fondamentali e da non dimenticare, ma rischiano di farmi usare lo stesso metro e lo stesso pallottoliere. Questi aspetti dovrebbero far riflettere più voi che me, ma non è il punto su cui voglio soffermarmi.
Da qualche parte ho letto che bisogna andarci cauti nell’attaccare la procura genovese, perché sulla Diaz o su Bolzaneto avrebbe lavorato bene, fra mille difficoltà. Ebbene, a me di difendere o attaccare la procura di Genova non interessa nulla: io voglio spostare la prospettiva con cui si dovrebbe guardare ai fatti del luglio 2001. E lanciare un allarme: non deleghiamo la ricostruzione della verità alla sola dimensione processuale. Si rischia la deriva pericolosissima di banalizzare il dibattito in termini calcistici: col processo ai 25 manifestanti si segna l’uno a zero “per gli agenti”, con quello sulla Diaz potrebbero pareggiare “gli imputati”, poi sarà Bolzaneto a far pendere le sorti dell’incontro da una parte o dall’altra.
Non ci sto, questa logica mi è aliena (oltre a ricordarmi tristemente l’esultanza di quella poliziotta che inneggiava in modo analogo alla notizia della morte di Carlo). A Genova abbiamo visto “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Questo fu il giudizio di Amnesty International, ed è un dato di partenza (e non di arrivo) per chiunque voglia affrontare i fatti del G8 2001.
Dr. Canciani, Dr.sa Canepa, ho visto troppi imputati giocare alle tre scimmiette nel processo su Bolzaneto. Non hanno visto, non hanno sentito, sicuramente non parlano. E quel che hanno visto o sentito l’hanno ritenuto “normale”. Sulla Diaz molti imputati, dall’alto delle loro poltrone (inattaccate o addirittura rese più elevate e confortevoli in questi anni) hanno addirittura snobbato il processo. I fatti di Genova sono stati banalizzati, riconducendoli a logiche di violenze contrapposte: da un lato i manifestanti che “devastano e saccheggiano”, dall’altro gli “eccessi” delle forze dell’ordine. A questa logica vi siete conformati, ma la verità su Genova non verrà data dal pallottoliere che conterà i cattivi dividendoli in due squadre e facendo la conta. Così si potrà dare soddisfazione a quella giustizia meccanica che chiuderà le sue pratiche con un’equità ipocrita, totalmente avulsa dalla ricostruzione della verità. Forse a voi basta, a me sicuramente no.
lunedì 15 ottobre 2007
Da Predappio a Dachau e ritorno. Passando da Porta a Porta…
Ha destato scalpore un servizio di Paolo Tessadri, apparso sull’Espresso
on line: alcuni neonazisti altoatesini si sono fatti un’allegra
scampagnata nel campo di concentramento di Dachau. “Una gita che
incenerisce i confini della decenza”, scrive il giornalista; e ancora:
“sono l'avanguardia dell'orrore, quella capace di superare ogni limite”.
Frasi che, ovviamente, condivido appieno, e in generale all’articolo si
deve riconoscere il merito di inquadrare l’episodio in un contesto
preciso: il giornalista non lo minimizza né lo tratta come evento
sporadico, ma lo inserisce nel crescente ritorno di ideologie razziste e
xenofobe che ormai non si può liquidare come semplice “rigurgito”. Se
però l’articolo è preciso e giustamente indignato nel parlare di
avanguardie, forse c’è da aggiungere qualcosa su ciò che sta alle spalle
dell’allegra scampagnata neonazista, con tanto di foto ricordo.
Date un’occhiata a questo sito: www.mussolini.net/, che si presenta come “Predappio tricolore souvenir”. Il catalogo è ricco; correte, perché ci sono anche gli aggiornamenti: nuove maglie (novità, bimbo e donna), berretti, busti, tagliacarte e orologi. Non so se ci siano offertissime 3 x 2, o se possiate avere gratis una daga assieme a tre accendini o viceversa (potete scegliere tra i modelli con croce celtica, con svastica, con Hitler: vasta gamma a disposizione).
Ma, per dirla tutta, a me preoccupa meno Predappio o l’allegra scampagnata dei naziskin che non chi, da quel pulpito culturale che è Porta a Porta, rivisitò la storia politica e familiare di Mussolini con intenti di riabilitazione. Certo, la televisione può essere un frullatore che riduce tutto a una poltiglia disgustosa, ma a noi tocca inghiottirla…
Chiarisco subito: non sto paragonando secondo criteri di priorità o di indignazione quella riabilitazione un po’ cialtrona con il merchandaising di Predappio, o con la gita a Dachau (che restano più gravi), ma sto evidenziando i nessi causali, cercando di spiegare dove sta la causa e dove sta l’effetto. Perchè viviamo in tempi in cui certi commentatori amano rivisitare la storia del ventennio, sostenendo che il fascismo non fu solo una dittatura spietata, o che le sue colpe sono tutte da circoscrivere alla sua ultima fase (sommariamente dalle leggi razziali in poi).
Non ci sorprendano dunque i giovani in gita a Dachau, con saluto Hitleriano o con un accendino sotto la lapide che ricorda una sinagoga bruciata nella “notte dei cristalli”: sono solo i frutti malati di una semina amara. E non ci dovrà sorprendere se, fra qualche tempo, tornerà il ritornello secondo cui “con Mussolini almeno i treni arrivavano in orario”. Quel che manca in questo Paese è la memoria: forse i treni arrivavano in orario, ma certi partivano per Birkernau…
Date un’occhiata a questo sito: www.mussolini.net/, che si presenta come “Predappio tricolore souvenir”. Il catalogo è ricco; correte, perché ci sono anche gli aggiornamenti: nuove maglie (novità, bimbo e donna), berretti, busti, tagliacarte e orologi. Non so se ci siano offertissime 3 x 2, o se possiate avere gratis una daga assieme a tre accendini o viceversa (potete scegliere tra i modelli con croce celtica, con svastica, con Hitler: vasta gamma a disposizione).
Ma, per dirla tutta, a me preoccupa meno Predappio o l’allegra scampagnata dei naziskin che non chi, da quel pulpito culturale che è Porta a Porta, rivisitò la storia politica e familiare di Mussolini con intenti di riabilitazione. Certo, la televisione può essere un frullatore che riduce tutto a una poltiglia disgustosa, ma a noi tocca inghiottirla…
Chiarisco subito: non sto paragonando secondo criteri di priorità o di indignazione quella riabilitazione un po’ cialtrona con il merchandaising di Predappio, o con la gita a Dachau (che restano più gravi), ma sto evidenziando i nessi causali, cercando di spiegare dove sta la causa e dove sta l’effetto. Perchè viviamo in tempi in cui certi commentatori amano rivisitare la storia del ventennio, sostenendo che il fascismo non fu solo una dittatura spietata, o che le sue colpe sono tutte da circoscrivere alla sua ultima fase (sommariamente dalle leggi razziali in poi).
Non ci sorprendano dunque i giovani in gita a Dachau, con saluto Hitleriano o con un accendino sotto la lapide che ricorda una sinagoga bruciata nella “notte dei cristalli”: sono solo i frutti malati di una semina amara. E non ci dovrà sorprendere se, fra qualche tempo, tornerà il ritornello secondo cui “con Mussolini almeno i treni arrivavano in orario”. Quel che manca in questo Paese è la memoria: forse i treni arrivavano in orario, ma certi partivano per Birkernau…
mercoledì 3 ottobre 2007
Ti ricordi di Emmett Till?
Caro direttore,
ti ricordi di Emmett Till? Era un bambino, era ancora un bambino. Aveva 14 anni e la pelle del colore sbagliato, quando nel 1955 due uomini dalla carnagione diversa lo rapirono. Emmett si trovava in una cittadina del Mississippi, dove era arrivato con la sua famiglia da Chicago, in visita ad alcuni parenti. Sembra che quel pomeriggio avesse azzardato un complimento verso una donna bianca, forse uno di quegli apprezzamenti un po’ grevi che, a quell’età, fanno sentire più grandi.
“Lo torturarono e gli fecero delle cose troppo malvage per essere menzionate”, cantò Bob Dylan. Io le voglio invece ricordare: lo picchiarono fino a ridurlo in fin di vita, poi gli cavarono gli occhi, gli spararono un colpo alla nuca e lo gettarono in un fiume.
I suoi assassini non furono puniti. Nel 2005 le autorità americane, in seguito a nuove testimonianze, annunciarono nuove indagini e la possibile riapertura del caso; non conosco gli sviluppi successivi.
Perché ti racconto tutto questo? Perché Federico Aldrovandi aveva pochi anni più di Emmett Till, 18 compiuti da poco, quando ha trovato la morte il 25 settembre 2005, nel corso di un controllo di polizia. Il 19 ottobre inizierà il processo contro 4 agenti coinvolti in quel “controllo”.
Fino alla sentenza non possiamo parlare di colpevolezza, ma sappiamo che Federico morì chiedendo “basta”. Come fece, probabilmente, quel bambino di Chicago che non ebbe la giustizia che – voglio sperare – avrà Federico. Aspettando la sentenza possiamo però ricordare quanto Bob Dylan scrisse proprio per Emmett Till: “Se non siete in grado di protestare contro una cosa simile, un delitto così odioso, i vostri occhi sono pieni di terra sepolcrale, la vostra mente è coperta di polvere. Le vostre braccia e le vostre gambe devono essere in ceppi e catene ed il vostro sangue si rifiuta di scorrere. Perchè avete lasciato che questa razza umana degenerasse in maniera così orribile”.
Francesco “baro” Barilli
pubblicato su Liberazione del 3 ottobre 2007. Pubblicato anche su http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/
ti ricordi di Emmett Till? Era un bambino, era ancora un bambino. Aveva 14 anni e la pelle del colore sbagliato, quando nel 1955 due uomini dalla carnagione diversa lo rapirono. Emmett si trovava in una cittadina del Mississippi, dove era arrivato con la sua famiglia da Chicago, in visita ad alcuni parenti. Sembra che quel pomeriggio avesse azzardato un complimento verso una donna bianca, forse uno di quegli apprezzamenti un po’ grevi che, a quell’età, fanno sentire più grandi.
“Lo torturarono e gli fecero delle cose troppo malvage per essere menzionate”, cantò Bob Dylan. Io le voglio invece ricordare: lo picchiarono fino a ridurlo in fin di vita, poi gli cavarono gli occhi, gli spararono un colpo alla nuca e lo gettarono in un fiume.
I suoi assassini non furono puniti. Nel 2005 le autorità americane, in seguito a nuove testimonianze, annunciarono nuove indagini e la possibile riapertura del caso; non conosco gli sviluppi successivi.
Perché ti racconto tutto questo? Perché Federico Aldrovandi aveva pochi anni più di Emmett Till, 18 compiuti da poco, quando ha trovato la morte il 25 settembre 2005, nel corso di un controllo di polizia. Il 19 ottobre inizierà il processo contro 4 agenti coinvolti in quel “controllo”.
Fino alla sentenza non possiamo parlare di colpevolezza, ma sappiamo che Federico morì chiedendo “basta”. Come fece, probabilmente, quel bambino di Chicago che non ebbe la giustizia che – voglio sperare – avrà Federico. Aspettando la sentenza possiamo però ricordare quanto Bob Dylan scrisse proprio per Emmett Till: “Se non siete in grado di protestare contro una cosa simile, un delitto così odioso, i vostri occhi sono pieni di terra sepolcrale, la vostra mente è coperta di polvere. Le vostre braccia e le vostre gambe devono essere in ceppi e catene ed il vostro sangue si rifiuta di scorrere. Perchè avete lasciato che questa razza umana degenerasse in maniera così orribile”.
Francesco “baro” Barilli
pubblicato su Liberazione del 3 ottobre 2007. Pubblicato anche su http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/
lunedì 10 settembre 2007
Il V day di Grillo parte da un fumetto. Male interpretato…
Chi ha commentato il “V day” di Beppe Grillo si è soffermato sugli
stessi aspetti: i contenuti lanciati dal comico genovese e le modalità
espressive di questa forma del fare politica, oscillante fra denuncia e
qualunquismo. In particolare, tutti hanno sottolineato cosa
sottintendeva la lettera V, quel “vaffa” che l’italiano medio, stanco
del teatrino della politica, urlerebbe a destra e manca. Ma c’è un altro
aspetto, ingiustamente sottovalutato, di quella lettera: Beppe Grillo
ha scelto come simbolo della propria iniziativa una V particolare fin
dal segno grafico, che richiama (come ha riconosciuto lui stesso) un
recente film dei fratelli Wachowski e, soprattutto, il protagonista del
ben più riuscito romanzo a fumetti che lo ispirò.
Il libro di cui parlo è “V for Vendetta” di Alan Moore. Scritto nei primi anni ’80, è ambientato in un’Inghilterra del futuro, dove una dittatura pone i cittadini sotto il controllo costante delle telecamere, perseguitando oppositori politici, gay, “razze inferiori”. “V” è un personaggio poliedrico: poeta, intellettuale, anarchico, maestro di vita… Persino terrorista: la sua prima azione è radere al suolo con una carica di esplosivo il parlamento inglese, come tentò di fare nel 1605 Guy Fawkes, personaggio cui non a caso “V” si richiama, indossando una maschera che ne raffigura il volto.
Nel fumetto l’eroe arriva dal nulla; solo nel prosieguo del racconto scopriremo – peraltro solo parzialmente – la sua origine, non la sua identità né il suo volto, mantenuto nascosto dietro la maschera di Fawkes. “V” incontrerà la morte, ma in modo consapevole e non senza aver lasciato la propria eredità ideale a Evey, la sua protetta, e soprattutto dopo aver pesantemente colpito la dittatura inglese ed aver risvegliato l’autocoscienza popolare. L’autore non ci mostra gli sviluppi nella società inglese, ma ci lascia intendere che a quel punto la missione dell’eroe è compiuta: sta alla gente far sbocciare e mantenere in salute il seme della libertà che l’eroe ha conficcato nel terreno.
Proprio qui stanno le differenze tra il personaggio di “V for Vendetta” e il “V day”. Grillo dà un volto – il suo – all’eroe che dovrebbe risvegliare la coscienza civile. “V” nega l’importanza al proprio volto e al proprio nome, rifuggendo dal personalismo; cerca di risvegliare le coscienze del popolo inglese, narcotizzato da una dittatura in cui Alan Moore distorce e amplifica gli effetti delle politiche Thatcheriane, contemporanee alla genesi del suo fumetto; rilancia la disobbedienza civile e aiuta gli inglesi a riscoprire la complessità e l’utilità del pensiero indipendente.
Grillo riprende la rabbia dell’eroe di Alan Moore, non la sofferta complessità. Se per “V” gli intellettuali (intendendo con questo termine chiunque sappia usare il proprio pensiero con metodo e senza condizionamenti) sono da risvegliare, Beppe Grillo sembra testimoniare che in Italia essi non hanno alcun valore o utilità, apparendo al massimo come una presenza ingombrante. L’emulo di Guy Fawkes incita alla ribellione, ma come primo passo verso una società più giusta, mentre l’iniziativa del comico genovese mantiene solo la furia iconoclasta del “V” di Alan Moore, lasciando indefiniti i passi successivi. Nella migliore delle ipotesi questi sembrano affidati allo spontaneismo, nella peggiore prospettano un tunnel di cui lo sbocco non si vede, ma se ne può temere il populismo.
Grillo, insomma, semplifica la V di Alan Moore; ma da “Vendetta” a “Vaffanculo” il passo non è breve. E le derive del “V day” incutono persino più timore di quelle bombarole degli inizi di “V”.
Il libro di cui parlo è “V for Vendetta” di Alan Moore. Scritto nei primi anni ’80, è ambientato in un’Inghilterra del futuro, dove una dittatura pone i cittadini sotto il controllo costante delle telecamere, perseguitando oppositori politici, gay, “razze inferiori”. “V” è un personaggio poliedrico: poeta, intellettuale, anarchico, maestro di vita… Persino terrorista: la sua prima azione è radere al suolo con una carica di esplosivo il parlamento inglese, come tentò di fare nel 1605 Guy Fawkes, personaggio cui non a caso “V” si richiama, indossando una maschera che ne raffigura il volto.
Nel fumetto l’eroe arriva dal nulla; solo nel prosieguo del racconto scopriremo – peraltro solo parzialmente – la sua origine, non la sua identità né il suo volto, mantenuto nascosto dietro la maschera di Fawkes. “V” incontrerà la morte, ma in modo consapevole e non senza aver lasciato la propria eredità ideale a Evey, la sua protetta, e soprattutto dopo aver pesantemente colpito la dittatura inglese ed aver risvegliato l’autocoscienza popolare. L’autore non ci mostra gli sviluppi nella società inglese, ma ci lascia intendere che a quel punto la missione dell’eroe è compiuta: sta alla gente far sbocciare e mantenere in salute il seme della libertà che l’eroe ha conficcato nel terreno.
Proprio qui stanno le differenze tra il personaggio di “V for Vendetta” e il “V day”. Grillo dà un volto – il suo – all’eroe che dovrebbe risvegliare la coscienza civile. “V” nega l’importanza al proprio volto e al proprio nome, rifuggendo dal personalismo; cerca di risvegliare le coscienze del popolo inglese, narcotizzato da una dittatura in cui Alan Moore distorce e amplifica gli effetti delle politiche Thatcheriane, contemporanee alla genesi del suo fumetto; rilancia la disobbedienza civile e aiuta gli inglesi a riscoprire la complessità e l’utilità del pensiero indipendente.
Grillo riprende la rabbia dell’eroe di Alan Moore, non la sofferta complessità. Se per “V” gli intellettuali (intendendo con questo termine chiunque sappia usare il proprio pensiero con metodo e senza condizionamenti) sono da risvegliare, Beppe Grillo sembra testimoniare che in Italia essi non hanno alcun valore o utilità, apparendo al massimo come una presenza ingombrante. L’emulo di Guy Fawkes incita alla ribellione, ma come primo passo verso una società più giusta, mentre l’iniziativa del comico genovese mantiene solo la furia iconoclasta del “V” di Alan Moore, lasciando indefiniti i passi successivi. Nella migliore delle ipotesi questi sembrano affidati allo spontaneismo, nella peggiore prospettano un tunnel di cui lo sbocco non si vede, ma se ne può temere il populismo.
Grillo, insomma, semplifica la V di Alan Moore; ma da “Vendetta” a “Vaffanculo” il passo non è breve. E le derive del “V day” incutono persino più timore di quelle bombarole degli inizi di “V”.
domenica 2 settembre 2007
ricordando Renato e i suoi sogni
Lo confesso: fino a ieri Focene non sapevo nemmeno dove si trovasse di
preciso. Però sapevo già che era un posto come via Mancinelli o via
Brioschi a Milano, via Ippodromo a Ferrara, piazza Alimonda a Genova;
stazioni di una via crucis particolare e laica. Quando le raggiungo per
la prima volta è sempre lo stesso: "E' qui che è successo, sai?". E' qui
che ci sono stati portati via Fausto, Iaio, Federico, Dax, Carlo,
Renato. Ogni volta sforzo un sorriso un po' imbarazzato mentre
m'avvicino a Patrizia, Haidi, ora a Stefania. "Ciao, sono qui... Tu come
stai?", le dico; difficile immaginare una domanda più cretina.
Focene, sembrerà strano, a me appare "bella", bella nel suo non essere turistica. Difficile immaginarla ordinata nelle cartoline "Saluti da..." di una tabaccheria; più facile pensarla meta di accaldati romani che trovano refrigerio nei fine settimana; meglio ancora invasa da coppiette che si scambiano tenerezze o da ragazzi in una festa dal tramonto a tarda notte. Quasi impossibile immaginarla teatro di un mortale agguato fascista. Eppure è così. "E' qui che è successo, sai?". Come in piazza Alimonda o in via Ippodromo.
E' come visitare i luoghi di una guerra, che in molti nemmeno sanno essere in corso. Se visiti quei luoghi sembra che stai cercando di piegare quella guerra fino a farle avere un senso. Ma non c'è un senso, se non quello di riconoscere che quella guerra esiste: subdola e a bassa intensità, le sue vittime le reclama ogni volta. E ogni volta, proprio come in un conflitto "tradizionale", alle vittime fisiche si aggiunge quella impalpabile ma importantissima della verità; abbattuta in diversi modi, magari derubricando un'aggressione politica a semplice rissa. E' già successo, e succederà ancora se non sapremo alzare il livello di attenzione e fare un salto di qualità nella nostra militanza antifascista. E' anche questo che ci dice - con parole più toccanti e di grande impatto - un reading a due voci in questa sera di fine estate. Mentre il tramonto si spegne, sulla spiaggia di Focene ma non sui sogni di Renato.
Focene, sembrerà strano, a me appare "bella", bella nel suo non essere turistica. Difficile immaginarla ordinata nelle cartoline "Saluti da..." di una tabaccheria; più facile pensarla meta di accaldati romani che trovano refrigerio nei fine settimana; meglio ancora invasa da coppiette che si scambiano tenerezze o da ragazzi in una festa dal tramonto a tarda notte. Quasi impossibile immaginarla teatro di un mortale agguato fascista. Eppure è così. "E' qui che è successo, sai?". Come in piazza Alimonda o in via Ippodromo.
E' come visitare i luoghi di una guerra, che in molti nemmeno sanno essere in corso. Se visiti quei luoghi sembra che stai cercando di piegare quella guerra fino a farle avere un senso. Ma non c'è un senso, se non quello di riconoscere che quella guerra esiste: subdola e a bassa intensità, le sue vittime le reclama ogni volta. E ogni volta, proprio come in un conflitto "tradizionale", alle vittime fisiche si aggiunge quella impalpabile ma importantissima della verità; abbattuta in diversi modi, magari derubricando un'aggressione politica a semplice rissa. E' già successo, e succederà ancora se non sapremo alzare il livello di attenzione e fare un salto di qualità nella nostra militanza antifascista. E' anche questo che ci dice - con parole più toccanti e di grande impatto - un reading a due voci in questa sera di fine estate. Mentre il tramonto si spegne, sulla spiaggia di Focene ma non sui sogni di Renato.
martedì 7 agosto 2007
Bologna, 2 agosto - Lettera aperta a Paolo Bolognesi: perché non condivido il tuo discorso sugli ex terroristi
Caro Paolo,
ho letto il discorso che hai tenuto nell'anniversario della strage di Bologna. Lo condivido in gran parte, e lo rispetto anche laddove non lo condivido. Quel rispetto ti è dovuto per l'associazione che rappresenti, per l'impegno che metti nelle tue azioni, per l'assenza nelle tue parole di calcoli "in politichese": a te non interessa essere gradito o sgradito a questa o quella parte politica; segui con coerenza le tue convinzioni, non sembra importarti l'arte della diplomazia, se può in qualche modo indebolire le tue battaglie. Proprio per questo, spero tu possa apprezzare pure la mia di franchezza: credo che il tuo discorso "sugli amici dei terroristi che siedono in parlamento" sia stato semplicistico. Prima di entrare nel merito, vorrei fare alcune precisazioni. In primo luogo, non sono fra quelli che assegnano un diverso gradiente morale alle azioni terroristiche in base alla matrice di appartenenza; non sono fra chi guarda agli anni di piombo dividendo i colpevoli fra "terroristi" e "compagni che sbagliano". Certo, da uomo di sinistra credo che i percorsi - individuali e collettivi - che condussero molti compagni ad abbracciare la lotta armata vadano indagati e non liquidati come si trattasse di follia collettiva, ma capisco che questi approfondimenti possono sembrare sterile intellettualismo, per chi è rimasto vittima della violenza politica. In secondo luogo, non ho mai attribuito a semplice "vendettismo" l'atteggiamento di chi, colpito dal terrorismo, si sente oggi ferito dalle attenzioni che i media riservano verso i protagonisti di quegli anni, constatando che alle vittime si lascia il solo ruolo di "immaginette" buone per gli anniversari. Fatta salva questa premessa, non condivido il tuo discorso sugli ex terroristi per due questioni. La prima: penso sia un errore gettare nello stesso calderone chi ha scontato la propria pena e chi ne è sfuggito. Volutamente eviterò nomi: vorrei che questa mia analisi - condivisibile o meno che sia - non servisse a rialimentare polemiche su Tizio o Caio, ma fosse il più possibile generale. Il principio di civiltà, non solo giuridica, secondo cui chi ha scontato la propria pena si presenta riabilitato nella società non credo ti sfugga. Se posso capire il vostro fastidio nel vedere un ex brigatista (per fare un esempio) promuovere il proprio libro sugli anni '70, non posso ritenere illegittima l'operazione. Diverso è il discorso sulla non eleggibilità degli ex terroristi, ma pure in questo caso la questione dei "paletti etici" va affrontata in termini generali. Sotto questo profilo, pur non interessando aspetti penali, ritengo che l'esser stato affiliato alla P2 presenti considerazioni anche maggiori di inopportunità. E, siccome poco m'importa di essere bipartisan (anzi…), ti dirò che in questa Repubblica nata dalla Resistenza mi indigna ancora di più la presenza in parlamento di chi vanta legami ideologici col fascismo. La seconda questione: mi sembra, dal tuo discorso, che tu ritenga inopportuna la presenza di ex terroristi in ruoli istituzionali quanto in un centro sociale, a parlare magari di problematiche diverse da quelle relative agli anni ‘70. Esistono ex componenti di bande armate che, scontata la propria pena e dopo aver nei fatti preso le distanze dalle azioni di quegli anni, oggi si occupano di problematiche carcerarie, occupazionali, relative alle tossicodipendenze: il loro apporto su questi argomenti dovrei ritenerlo inficiato dal loro passato? Ma la domanda fondamentale è questa: un'eventuale imposizione del silenzio verso gli ex terroristi sarebbe forse diversa da quella che in molti, in modo più subdolo, hanno cercato di assegnare proprio alle vittime di quei fatti? L'ho già detto in passato e lo ripeto a te: in materia di terrorismo credo che il silenzio invocato per i carnefici possa trasformarsi in un boomerang per la legittima e sacrosanta sete di verità e giustizia delle vittime. Nei giorni scorsi ho dato un'occhiata ad alcuni quotidiani. Le tue dure parole verso "terroristi in parlamento e loro amici" hanno ottenuto molta attenzione. Lo so, non era certo la ricerca di visibilità a muovere il tuo discorso, ma ho trovato di che riflettere sulla circostanza: quando in passato denunciasti le influenze piduiste dell'allora maggioranza di centrodestra le tue parole trovarono una cassa di risonanza molto inferiore; idem dicasi delle tue reiterate affermazioni sulla matrice fascista della strage di Bologna, che in molti - spiace dirlo: non solo a destra - mettono in dubbio ancora oggi. Caro Paolo, credo purtroppo che quei politici che oggi appoggiano le istanze di rigidità verso gli ex protagonisti degli anni di piombo siano interessati più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere a voi vittime una sorta di risarcimento morale sotto la forma di una condanna al silenzio verso gli ex terroristi. Quei politici sono più interessati a dimenticare. Ma dimenticare è la cosa più stupida si possa fare: spesso non è azione durevole e sincera, quasi mai è innocente, mai risulta utile, se non a fini che nulla hanno a vedere con la verità e la giustizia che ti stanno a cuore. Con affettuoso rispetto
Francesco "baro" Barilli
ho letto il discorso che hai tenuto nell'anniversario della strage di Bologna. Lo condivido in gran parte, e lo rispetto anche laddove non lo condivido. Quel rispetto ti è dovuto per l'associazione che rappresenti, per l'impegno che metti nelle tue azioni, per l'assenza nelle tue parole di calcoli "in politichese": a te non interessa essere gradito o sgradito a questa o quella parte politica; segui con coerenza le tue convinzioni, non sembra importarti l'arte della diplomazia, se può in qualche modo indebolire le tue battaglie. Proprio per questo, spero tu possa apprezzare pure la mia di franchezza: credo che il tuo discorso "sugli amici dei terroristi che siedono in parlamento" sia stato semplicistico. Prima di entrare nel merito, vorrei fare alcune precisazioni. In primo luogo, non sono fra quelli che assegnano un diverso gradiente morale alle azioni terroristiche in base alla matrice di appartenenza; non sono fra chi guarda agli anni di piombo dividendo i colpevoli fra "terroristi" e "compagni che sbagliano". Certo, da uomo di sinistra credo che i percorsi - individuali e collettivi - che condussero molti compagni ad abbracciare la lotta armata vadano indagati e non liquidati come si trattasse di follia collettiva, ma capisco che questi approfondimenti possono sembrare sterile intellettualismo, per chi è rimasto vittima della violenza politica. In secondo luogo, non ho mai attribuito a semplice "vendettismo" l'atteggiamento di chi, colpito dal terrorismo, si sente oggi ferito dalle attenzioni che i media riservano verso i protagonisti di quegli anni, constatando che alle vittime si lascia il solo ruolo di "immaginette" buone per gli anniversari. Fatta salva questa premessa, non condivido il tuo discorso sugli ex terroristi per due questioni. La prima: penso sia un errore gettare nello stesso calderone chi ha scontato la propria pena e chi ne è sfuggito. Volutamente eviterò nomi: vorrei che questa mia analisi - condivisibile o meno che sia - non servisse a rialimentare polemiche su Tizio o Caio, ma fosse il più possibile generale. Il principio di civiltà, non solo giuridica, secondo cui chi ha scontato la propria pena si presenta riabilitato nella società non credo ti sfugga. Se posso capire il vostro fastidio nel vedere un ex brigatista (per fare un esempio) promuovere il proprio libro sugli anni '70, non posso ritenere illegittima l'operazione. Diverso è il discorso sulla non eleggibilità degli ex terroristi, ma pure in questo caso la questione dei "paletti etici" va affrontata in termini generali. Sotto questo profilo, pur non interessando aspetti penali, ritengo che l'esser stato affiliato alla P2 presenti considerazioni anche maggiori di inopportunità. E, siccome poco m'importa di essere bipartisan (anzi…), ti dirò che in questa Repubblica nata dalla Resistenza mi indigna ancora di più la presenza in parlamento di chi vanta legami ideologici col fascismo. La seconda questione: mi sembra, dal tuo discorso, che tu ritenga inopportuna la presenza di ex terroristi in ruoli istituzionali quanto in un centro sociale, a parlare magari di problematiche diverse da quelle relative agli anni ‘70. Esistono ex componenti di bande armate che, scontata la propria pena e dopo aver nei fatti preso le distanze dalle azioni di quegli anni, oggi si occupano di problematiche carcerarie, occupazionali, relative alle tossicodipendenze: il loro apporto su questi argomenti dovrei ritenerlo inficiato dal loro passato? Ma la domanda fondamentale è questa: un'eventuale imposizione del silenzio verso gli ex terroristi sarebbe forse diversa da quella che in molti, in modo più subdolo, hanno cercato di assegnare proprio alle vittime di quei fatti? L'ho già detto in passato e lo ripeto a te: in materia di terrorismo credo che il silenzio invocato per i carnefici possa trasformarsi in un boomerang per la legittima e sacrosanta sete di verità e giustizia delle vittime. Nei giorni scorsi ho dato un'occhiata ad alcuni quotidiani. Le tue dure parole verso "terroristi in parlamento e loro amici" hanno ottenuto molta attenzione. Lo so, non era certo la ricerca di visibilità a muovere il tuo discorso, ma ho trovato di che riflettere sulla circostanza: quando in passato denunciasti le influenze piduiste dell'allora maggioranza di centrodestra le tue parole trovarono una cassa di risonanza molto inferiore; idem dicasi delle tue reiterate affermazioni sulla matrice fascista della strage di Bologna, che in molti - spiace dirlo: non solo a destra - mettono in dubbio ancora oggi. Caro Paolo, credo purtroppo che quei politici che oggi appoggiano le istanze di rigidità verso gli ex protagonisti degli anni di piombo siano interessati più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere a voi vittime una sorta di risarcimento morale sotto la forma di una condanna al silenzio verso gli ex terroristi. Quei politici sono più interessati a dimenticare. Ma dimenticare è la cosa più stupida si possa fare: spesso non è azione durevole e sincera, quasi mai è innocente, mai risulta utile, se non a fini che nulla hanno a vedere con la verità e la giustizia che ti stanno a cuore. Con affettuoso rispetto
Francesco "baro" Barilli
giovedì 26 luglio 2007
IL CALDO ABBRACCIO DI GENOVA 2007
Genova 2007 è un abbraccio caldo che m’accoglie alle 11 del mattino di venerdì 20 luglio. Un abbraccio grande che ne conterrà altri più piccoli fino alla sera di sabato 21. Ogni anno è così, e ogni anno al tempo stesso è speciale e unico: questa Genova non farà eccezione, se non per l’essere ancora più speciale e unica.
Assieme all’amica Sonia, al Carlini trovo subito Rosa, la mamma di Dax. Pranziamo assieme, mentre diamo un’occhiata allo stadio e penso che il comitato Piazza Carlo Giuliani non poteva avere idea migliore del riconquistare idealmente uno dei luoghi simbolo di Genova 2001. Nel primo pomeriggio, in attesa della partenza del corteo per piazza Alimonda, sulle gradinate dello stadio ritrovo Lorenzo Guadagnucci, del comitato verità e giustizia. Lorenzo è come sempre, acuto e lucido: in una lunga chiacchierata confrontiamo le nostre incazzature, le mie timide speranze e il suo ragionato scetticismo sulla possibile commissione parlamentare, le nostre idee sulle cose da fare. Lui è anche protagonista di una delle squadre del torneo di calcetto. “Atletico Diaz” si sono chiamati; gli dico che è un nome geniale e gli chiedo se come sponsor abbiano scelto una macelleria. Ridiamo assieme, e quello è il primo segno di cosa sarà Genova 2007: non una commemorazione retorica e rituale, ma una vitale, dove s'intrecciano memoria e passione.
Arriva il momento del corteo. Alcuni di noi si caricano sulle spalle gli striscioni che ricordano Carlo, Edo, Renato, Aldro, le stragi italiane… Sono leggeri sulle spalle, ci spingono a piazza Alimonda. Mi arriva un abbraccio alle spalle: è Gigi, con cui parlo di politica, rimpiangendo di poterlo ascoltare così raramente. Qualcuno non è venuto nel corteo, lo troviamo in piazza ad aspettarci. Alcuni non hanno voluto affrontare il caldo, altri forse hanno voluto sottolineare un proprio distinguo; non m’interessa né sembra interessare a nessuno: la piazza è un contenitore che realizza una di quelle rare alchimie in cui le distanze si azzerano e resta solo la voglia di stare assieme.
Arriva l’emozione, quando Cisco chiede un minuto di silenzio che Haidi riempie invece con la sua voce, che mi sembra meno flebile e più determinata del solito. Non so da quale nascosta riserva d’energie riesca ad estrarla, ma restiamo tutti ad ascoltare quella voce che scioglie l’emozione in un lungo applauso: un’altra forma in cui si manifesta l’abbraccio di Genova ’07.
A sera, al Carlini si respira un’aria impossibile da descrivere, solo da vivere. Alcuni intrattengono l’attesa della cena con canzoni partigiane e di lotta; un ragazzo sui 12 anni chiede la chitarra e sorprende tutti intonando Creuza de Ma’ (quanto mi manchi, quanto ci manchi, Fabrizio…).
A tarda sera ci prepariamo a vedere “OP”, il filmato che racconta la gestione dell’ordine pubblico a Genova 2001, soffermandosi su piazza Manin e soprattutto su via Tolemaide. Ho visto molti filmati sul g8 di Genova, ma questo è costruito con rigore scientifico e, contemporaneamente, è in grado di destare grande partecipazione. Al termine del video, una compagna intona Bella Ciao: senza capirne il motivo, sento che questo è uno dei momenti più emozionanti della mia vita di mediattivista.
E’ già notte quando conosco la madre di Renato Biagetti. Le chiedo del processo e della situazione a Roma. Scopro una donna lucida e determinata: mentre le parlo mi chiedo se è lei a poter contare sui compagni a Roma o se, al contrario, sono loro a potersi appoggiare a lei.
Arriva sabato mattina. Il tempo di accompagnare alla stazione Sonia, che deve tornare a Piacenza, e di arrivare poi al Carlini, e subito la destinazione cambia: mi precipito con Haidi alla prima assemblea della Sinistra Europea, convocata non a caso a Genova nel sesto anniversario delle giornate di luglio ’01. La mia è una presenza “mordi e fuggi”, giusto il tempo di scambiare due parole con Checchino (Genova non è Genova se non riesco a salutare pure lui!). Sempre con Haidi recuperiamo Massimo, appena arrivato da Como (nel pomeriggio parlerà di Rumesh) e si torna al Carlini.
Un pranzo veloce, ed è già tempo di due appuntamenti.Il primo è un piacevole fuori programma: incontro i ragazzi del Camilo Cienfuegos di Campi Bisenzio, che vogliono organizzare per ottobre un’interessante iniziativa su diritti e repressione. Ne parliamo assieme a Massimo e Luca (dell’associazione verità per Aldro) per vedere di organizzarla.
Arrivano Lino e Patrizia, genitori di Federico Aldrovandi. Riesco solo a salutarli brevemente, perché i tempi stringono: sta per cominciare il dibattito su repressione e antifascismo. Parlano Haidi, Massimo, Patrizia, compagni arrestati per i fatti di Milano dell’11 marzo e loro genitori e altri ancora. Una ragazza di Roma ci aggiorna sui fatti di Casal Bertone e Villa Ada. Io, per Reti-Invisibili, e Italo (dell’osservatorio sulla repressione del PRC) cerchiamo di tirare le fila di un dibattito ricco per interventi e variegato nei contributi. Un dibattito che abbonda di voglia di fare, di impegno, anche di rabbia che porta a qualche momento di tensione. Non nego un po’ di amarezza per quei contrasti (inopportuni a Genova, al Carlini, in questi giorni) ma credo vadano accolti come un segno persino positivo: a un dibattito ingessato e autoreferenziale ne preferisco uno vivo e partecipato, a costo di qualche “scazzo”.
Al termine dell’iniziativa, c’è giusto il tempo per scambiare quattro chiacchiere con Maria di Milano (la sorella di Iaio), ancora con Luca e sua madre. Poi, è già il tempo dei saluti. Ad Haidi e Giuliano dico che hanno saputo organizzare la Genova più bella e partecipata di questi anni. Quindi, col solo rimpianto di non poter partecipare alla fiaccolata alla Diaz, è già ora di mettermi in viaggio verso casa, scambiando con amici e amiche un arrivederci per il primo settembre, in ricordo di Renato. La voglia di ritrovarci presto tutti, di fare sentire la nostra presenza portandoci dentro un pezzettino di Genova e delle sue lotte, è uno dei tanti buoni frutti di queste giornate al Carlini. In macchina, un’ora e mezza di De Andrè mi fa compagnia: non saprei immaginarne una migliore.
Francesco “baro” Barilli
Assieme all’amica Sonia, al Carlini trovo subito Rosa, la mamma di Dax. Pranziamo assieme, mentre diamo un’occhiata allo stadio e penso che il comitato Piazza Carlo Giuliani non poteva avere idea migliore del riconquistare idealmente uno dei luoghi simbolo di Genova 2001. Nel primo pomeriggio, in attesa della partenza del corteo per piazza Alimonda, sulle gradinate dello stadio ritrovo Lorenzo Guadagnucci, del comitato verità e giustizia. Lorenzo è come sempre, acuto e lucido: in una lunga chiacchierata confrontiamo le nostre incazzature, le mie timide speranze e il suo ragionato scetticismo sulla possibile commissione parlamentare, le nostre idee sulle cose da fare. Lui è anche protagonista di una delle squadre del torneo di calcetto. “Atletico Diaz” si sono chiamati; gli dico che è un nome geniale e gli chiedo se come sponsor abbiano scelto una macelleria. Ridiamo assieme, e quello è il primo segno di cosa sarà Genova 2007: non una commemorazione retorica e rituale, ma una vitale, dove s'intrecciano memoria e passione.
Arriva il momento del corteo. Alcuni di noi si caricano sulle spalle gli striscioni che ricordano Carlo, Edo, Renato, Aldro, le stragi italiane… Sono leggeri sulle spalle, ci spingono a piazza Alimonda. Mi arriva un abbraccio alle spalle: è Gigi, con cui parlo di politica, rimpiangendo di poterlo ascoltare così raramente. Qualcuno non è venuto nel corteo, lo troviamo in piazza ad aspettarci. Alcuni non hanno voluto affrontare il caldo, altri forse hanno voluto sottolineare un proprio distinguo; non m’interessa né sembra interessare a nessuno: la piazza è un contenitore che realizza una di quelle rare alchimie in cui le distanze si azzerano e resta solo la voglia di stare assieme.
Arriva l’emozione, quando Cisco chiede un minuto di silenzio che Haidi riempie invece con la sua voce, che mi sembra meno flebile e più determinata del solito. Non so da quale nascosta riserva d’energie riesca ad estrarla, ma restiamo tutti ad ascoltare quella voce che scioglie l’emozione in un lungo applauso: un’altra forma in cui si manifesta l’abbraccio di Genova ’07.
A sera, al Carlini si respira un’aria impossibile da descrivere, solo da vivere. Alcuni intrattengono l’attesa della cena con canzoni partigiane e di lotta; un ragazzo sui 12 anni chiede la chitarra e sorprende tutti intonando Creuza de Ma’ (quanto mi manchi, quanto ci manchi, Fabrizio…).
A tarda sera ci prepariamo a vedere “OP”, il filmato che racconta la gestione dell’ordine pubblico a Genova 2001, soffermandosi su piazza Manin e soprattutto su via Tolemaide. Ho visto molti filmati sul g8 di Genova, ma questo è costruito con rigore scientifico e, contemporaneamente, è in grado di destare grande partecipazione. Al termine del video, una compagna intona Bella Ciao: senza capirne il motivo, sento che questo è uno dei momenti più emozionanti della mia vita di mediattivista.
E’ già notte quando conosco la madre di Renato Biagetti. Le chiedo del processo e della situazione a Roma. Scopro una donna lucida e determinata: mentre le parlo mi chiedo se è lei a poter contare sui compagni a Roma o se, al contrario, sono loro a potersi appoggiare a lei.
Arriva sabato mattina. Il tempo di accompagnare alla stazione Sonia, che deve tornare a Piacenza, e di arrivare poi al Carlini, e subito la destinazione cambia: mi precipito con Haidi alla prima assemblea della Sinistra Europea, convocata non a caso a Genova nel sesto anniversario delle giornate di luglio ’01. La mia è una presenza “mordi e fuggi”, giusto il tempo di scambiare due parole con Checchino (Genova non è Genova se non riesco a salutare pure lui!). Sempre con Haidi recuperiamo Massimo, appena arrivato da Como (nel pomeriggio parlerà di Rumesh) e si torna al Carlini.
Un pranzo veloce, ed è già tempo di due appuntamenti.Il primo è un piacevole fuori programma: incontro i ragazzi del Camilo Cienfuegos di Campi Bisenzio, che vogliono organizzare per ottobre un’interessante iniziativa su diritti e repressione. Ne parliamo assieme a Massimo e Luca (dell’associazione verità per Aldro) per vedere di organizzarla.
Arrivano Lino e Patrizia, genitori di Federico Aldrovandi. Riesco solo a salutarli brevemente, perché i tempi stringono: sta per cominciare il dibattito su repressione e antifascismo. Parlano Haidi, Massimo, Patrizia, compagni arrestati per i fatti di Milano dell’11 marzo e loro genitori e altri ancora. Una ragazza di Roma ci aggiorna sui fatti di Casal Bertone e Villa Ada. Io, per Reti-Invisibili, e Italo (dell’osservatorio sulla repressione del PRC) cerchiamo di tirare le fila di un dibattito ricco per interventi e variegato nei contributi. Un dibattito che abbonda di voglia di fare, di impegno, anche di rabbia che porta a qualche momento di tensione. Non nego un po’ di amarezza per quei contrasti (inopportuni a Genova, al Carlini, in questi giorni) ma credo vadano accolti come un segno persino positivo: a un dibattito ingessato e autoreferenziale ne preferisco uno vivo e partecipato, a costo di qualche “scazzo”.
Al termine dell’iniziativa, c’è giusto il tempo per scambiare quattro chiacchiere con Maria di Milano (la sorella di Iaio), ancora con Luca e sua madre. Poi, è già il tempo dei saluti. Ad Haidi e Giuliano dico che hanno saputo organizzare la Genova più bella e partecipata di questi anni. Quindi, col solo rimpianto di non poter partecipare alla fiaccolata alla Diaz, è già ora di mettermi in viaggio verso casa, scambiando con amici e amiche un arrivederci per il primo settembre, in ricordo di Renato. La voglia di ritrovarci presto tutti, di fare sentire la nostra presenza portandoci dentro un pezzettino di Genova e delle sue lotte, è uno dei tanti buoni frutti di queste giornate al Carlini. In macchina, un’ora e mezza di De Andrè mi fa compagnia: non saprei immaginarne una migliore.
Francesco “baro” Barilli
lunedì 9 luglio 2007
GENOVA 2001, MAI COSI’ VICINA
I fatti di Genova 2001 sono ormai lontani 6 anni. Eppure,
paradossalmente, non sono mai stati così vicini. In seguito ad una serie
di episodi concomitanti, i media si sono riavvicinati a quei giorni,
riuscendo parzialmente a farsi perdonare la colpevole indifferenza di
questi anni.
Prima sono arrivate le ammissioni di Michelangelo Fournier sulla “macelleria messicana”, definizione sanguinolenta che ha avuto il merito di sintetizzare in due parole quel che in molti sapevano circa la mattanza della Diaz. Poi abbiamo assistito all’avvicendamento fra De Gennaro e Manganelli ai vertici della Polizia di Stato: un’occasione accolta timidamente dai media, ma totalmente sprecata dal mondo della politica (distintosi in peana bipartisan all’indirizzo dei due alti funzionari e delle forze dell’ordine in generale) e dagli stessi interessati, che si sono guardati bene dal dire una sola parola su Genova 2001. Poi ci sono giunte le voci registrate della notte della Diaz. Parole disperse, come quelle che Pantagruele raccolse a manciate ai limiti del mare Glaciale per rovesciarle sul ponte della propria nave, sciogliendole e facendo ascoltare al suo equipaggio gli echi di una battaglia lontana: voci dell’orrore che mi auguro pesino a lungo su certe coscienze distratte da sei anni.
Infine, i primi risarcimenti per i manifestanti brutalizzati dalle forze dell’ordine il 20 e il 21 luglio 2001. Intendiamoci: ritengo che i fatti di Genova siano irrisarcibili; irrisarcibile è la morte di Carlo, e così pure la sospensione dei diritti civili cui sono stati sottoposti centinaia di manifestanti. Ma quelle prime sentenze di condanna al ministero dell’interno a pagare i danni subiti da alcune persone sono un segno di civiltà giuridica e, forse, di ritrovata dignità per le istituzioni.
Ma Genova non è vicina solo per la serie di fatti che l’ha riportata sulle prime pagine dei giornali, riaccendendo pure il dibattito sulla commissione parlamentare promessa dall’Unione nel suo programma. E’ vicina anche per l’imminenza dell’anniversario, che ci riporterà nel capoluogo ligure non solo virtualmente, ma fisicamente.
I comitati genovesi anche quest’anno propongono un ricco calendario di iniziative; di commemorazione, informazione e non solo. Il comitato Piazza Carlo Giuliani riscatterà, per così dire, uno dei luoghi cruciali di Genova 2001, lo stadio Carlini, teatro permanente della 4 giorni genovese di quest’anno a partire dal 19 luglio con musica, cultura e pure sport (un torneo di calcio). E poi i dibattiti; quello sulla “premiata macelleria italiana” organizzato dal comitato verità e giustizia per Genova (sabato 21, Museo di S. Agostino) e quello su “repressione e antifascismo” organizzato dal Piazza Carlo Giuliani con i comitati di solidarietà e lotta alla repressione (anch’esso sabato 21, stadio Carlini). Completeranno il programma il corteo con sit-in musicale in piazza Alimonda (pomeriggio del 20 luglio), la fiaccolata alla Diaz (sera di sabato 21), proiezione di video, dibattiti e altro ancora…
Anche quest’anno, come in passato, il primo dovere è, semplicemente, esserci. Per chiedere se sia possibile in questo paese mettere in discussione il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine nei giorni di luglio 2001 e se sia possibile avere un apparato di sicurezza totalmente autoreferenziale, impermeabile alle critiche, protetto in modo bipartisan. Per chiedere il processo, finora negato, per l’omicidio di Carlo. Per dire che Genova 2001 noi non l’archiviamo, né dimentichiamo.
qui potete consultare il programma 2007 del Comitato Piazza Carlo Giuliani - stadio Carlini dal 19 al 22 luglio
qui potete consultare il programma 2007 del Comitato Verità e giustizia per Genova
Prima sono arrivate le ammissioni di Michelangelo Fournier sulla “macelleria messicana”, definizione sanguinolenta che ha avuto il merito di sintetizzare in due parole quel che in molti sapevano circa la mattanza della Diaz. Poi abbiamo assistito all’avvicendamento fra De Gennaro e Manganelli ai vertici della Polizia di Stato: un’occasione accolta timidamente dai media, ma totalmente sprecata dal mondo della politica (distintosi in peana bipartisan all’indirizzo dei due alti funzionari e delle forze dell’ordine in generale) e dagli stessi interessati, che si sono guardati bene dal dire una sola parola su Genova 2001. Poi ci sono giunte le voci registrate della notte della Diaz. Parole disperse, come quelle che Pantagruele raccolse a manciate ai limiti del mare Glaciale per rovesciarle sul ponte della propria nave, sciogliendole e facendo ascoltare al suo equipaggio gli echi di una battaglia lontana: voci dell’orrore che mi auguro pesino a lungo su certe coscienze distratte da sei anni.
Infine, i primi risarcimenti per i manifestanti brutalizzati dalle forze dell’ordine il 20 e il 21 luglio 2001. Intendiamoci: ritengo che i fatti di Genova siano irrisarcibili; irrisarcibile è la morte di Carlo, e così pure la sospensione dei diritti civili cui sono stati sottoposti centinaia di manifestanti. Ma quelle prime sentenze di condanna al ministero dell’interno a pagare i danni subiti da alcune persone sono un segno di civiltà giuridica e, forse, di ritrovata dignità per le istituzioni.
Ma Genova non è vicina solo per la serie di fatti che l’ha riportata sulle prime pagine dei giornali, riaccendendo pure il dibattito sulla commissione parlamentare promessa dall’Unione nel suo programma. E’ vicina anche per l’imminenza dell’anniversario, che ci riporterà nel capoluogo ligure non solo virtualmente, ma fisicamente.
I comitati genovesi anche quest’anno propongono un ricco calendario di iniziative; di commemorazione, informazione e non solo. Il comitato Piazza Carlo Giuliani riscatterà, per così dire, uno dei luoghi cruciali di Genova 2001, lo stadio Carlini, teatro permanente della 4 giorni genovese di quest’anno a partire dal 19 luglio con musica, cultura e pure sport (un torneo di calcio). E poi i dibattiti; quello sulla “premiata macelleria italiana” organizzato dal comitato verità e giustizia per Genova (sabato 21, Museo di S. Agostino) e quello su “repressione e antifascismo” organizzato dal Piazza Carlo Giuliani con i comitati di solidarietà e lotta alla repressione (anch’esso sabato 21, stadio Carlini). Completeranno il programma il corteo con sit-in musicale in piazza Alimonda (pomeriggio del 20 luglio), la fiaccolata alla Diaz (sera di sabato 21), proiezione di video, dibattiti e altro ancora…
Anche quest’anno, come in passato, il primo dovere è, semplicemente, esserci. Per chiedere se sia possibile in questo paese mettere in discussione il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine nei giorni di luglio 2001 e se sia possibile avere un apparato di sicurezza totalmente autoreferenziale, impermeabile alle critiche, protetto in modo bipartisan. Per chiedere il processo, finora negato, per l’omicidio di Carlo. Per dire che Genova 2001 noi non l’archiviamo, né dimentichiamo.
qui potete consultare il programma 2007 del Comitato Piazza Carlo Giuliani - stadio Carlini dal 19 al 22 luglio
qui potete consultare il programma 2007 del Comitato Verità e giustizia per Genova
lunedì 4 giugno 2007
Un fumetto per Ilaria e Miran
Dal sito http://www.ilariaalpi.it/, copio e incollo una notizia che mi riguarda direttamente:
“Uscirà a Settembre in tutte le librerie e fumetterie d'Italia "Ilaria Alpi", il racconto a fumetti dell'omicidio avvenuto a Mogadiscio nel 1994 della giornalista del Tg3 e dell'operatore Miran Hrovatin. La drammatica vicenda e l'intrigante inchiesta vengono ricostruite e portate su carta dal giornalista e sceneggiatore Marco Rizzo e dalla matita di Francesco Ripoli, grazie all'editore trevigiano BeccoGiallo. "È un racconto essenzialmente basato su un'attenta ricostruzione dei fatti - ha dichiarato lo sceneggiatore - con minime concessioni alla fiction". … che aggiunge: "Dal punto di vista narrativo, la storia è raccontata 'al contrario'. Partendo dalla scena del brutale assassinio, si torna indietro nel tempo approfondendo l'indagine di Ilaria e quelle che potevano essere le motivazioni dei killer, o meglio, dei mandanti dell'omicidio". Per arricchire il libro, che oltre al fumetto conterrà un apparato di approfondimento testuale a cura di Francesco Barilli secondo lo stile BeccoGiallo, sono stati invitati a contribuire persone che più o meno da vicino hanno conosciuto Ilaria Alpi. Tra queste Mariangela Gritta-Granier, che ha seguito il caso nella recente commissione parlamentare, e Giovanna Mezzogiorno, che ha interpretato la giornalista nel film "Ilaria Alpi - il più crudele dei giorni". L'introduzione è a firma di Giovanna Botteri, giornalista del Tg3.”
E’ inutile che vi elenchi la serie di motivi per cui sono particolarmente contento di partecipare a questo progetto, che mi dà modo contemporaneamente di:
- approfondire un caso che mi ha sempre appassionato;
- collaborare con Marco Rizzo, una delle conoscenze forumistiche più vecchie e solide che ho instaurato nel mondo degli appassionati di fumetti (anche se, ad onor del vero, il termine “appassionato” per Marco è molto, molto riduttivo);
- partecipare ad un’opera che è contemporaneamente approfondimento e narrativa;
- e altro ancora….
Vi segnalo alcuni link interessanti:
Mia intervista a Giorgio e Luciana Alpi
Mia intervista a Ferdinando Vicentini Orgnani, regista del film "Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni"
Osservatorio sull’informazione Ilaria Alpi
Il sito della BeccoGiallo Editore
Il blog di Marco Rizzo
“Uscirà a Settembre in tutte le librerie e fumetterie d'Italia "Ilaria Alpi", il racconto a fumetti dell'omicidio avvenuto a Mogadiscio nel 1994 della giornalista del Tg3 e dell'operatore Miran Hrovatin. La drammatica vicenda e l'intrigante inchiesta vengono ricostruite e portate su carta dal giornalista e sceneggiatore Marco Rizzo e dalla matita di Francesco Ripoli, grazie all'editore trevigiano BeccoGiallo. "È un racconto essenzialmente basato su un'attenta ricostruzione dei fatti - ha dichiarato lo sceneggiatore - con minime concessioni alla fiction". … che aggiunge: "Dal punto di vista narrativo, la storia è raccontata 'al contrario'. Partendo dalla scena del brutale assassinio, si torna indietro nel tempo approfondendo l'indagine di Ilaria e quelle che potevano essere le motivazioni dei killer, o meglio, dei mandanti dell'omicidio". Per arricchire il libro, che oltre al fumetto conterrà un apparato di approfondimento testuale a cura di Francesco Barilli secondo lo stile BeccoGiallo, sono stati invitati a contribuire persone che più o meno da vicino hanno conosciuto Ilaria Alpi. Tra queste Mariangela Gritta-Granier, che ha seguito il caso nella recente commissione parlamentare, e Giovanna Mezzogiorno, che ha interpretato la giornalista nel film "Ilaria Alpi - il più crudele dei giorni". L'introduzione è a firma di Giovanna Botteri, giornalista del Tg3.”
E’ inutile che vi elenchi la serie di motivi per cui sono particolarmente contento di partecipare a questo progetto, che mi dà modo contemporaneamente di:
- approfondire un caso che mi ha sempre appassionato;
- collaborare con Marco Rizzo, una delle conoscenze forumistiche più vecchie e solide che ho instaurato nel mondo degli appassionati di fumetti (anche se, ad onor del vero, il termine “appassionato” per Marco è molto, molto riduttivo);
- partecipare ad un’opera che è contemporaneamente approfondimento e narrativa;
- e altro ancora….
Vi segnalo alcuni link interessanti:
Mia intervista a Giorgio e Luciana Alpi
Mia intervista a Ferdinando Vicentini Orgnani, regista del film "Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni"
Osservatorio sull’informazione Ilaria Alpi
Il sito della BeccoGiallo Editore
Il blog di Marco Rizzo
giovedì 10 maggio 2007
Lettera a Giorgiana, trent'anni dopo
Cara Giorgiana,
tra pochi giorni saranno passati trent'anni da quando sei stata uccisa. Era il 12 maggio '77, e sfidando il divieto di manifestazioni pubbliche, radicali e gruppi di sinistra avevano promosso un sit-in in piazza Navona, nell'anniversario del referendum sul divorzio. Quella sera venisti colpita da un proiettile alla schiena, morendo durante il tragitto all'ospedale.
Cossiga recentemente ha parlato ancora di te, ma l'ha fatto senza alcun riguardo. Non ha ricordato che, nell'immediatezza dei fatti, tante frottole furono raccontate al Parlamento e al Paese; non ha ricordato le testimonianze circa agenti in borghese che sparavano ad altezza d'uomo. Ha ricordato d'aver avvertito Pannella dei pericoli, scongiurandolo di evitare la manifestazione di Piazza Navona, e ha detto di sapere, assieme ad altre 4 persone, la verità su chi sparò, aggiungendo che il capo della squadra mobile gli confidò "di aver messo in frigo lo champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità".
Cara Giorgiana, a te non è stato concesso invecchiare. Sappi dunque che l'età porta ben pochi vantaggi. Uno di questi è che, per pietà o per rispetto, ci si può esprimere con una certa impunità. Verso "i potenti", poi, la vecchiaia è più magnanima: circonda le loro dichiarazioni di un'aura di sacralità e rispetto. A questo Paese non interessa la verità, Giorgiana. Questo è quanto ho imparato, e te lo dico con dolore.
Poche settimane fa ero a Milano a parlare di casi come il tuo, ragazzi morti "per ordine pubblico" (non eri la prima, non saresti stata l'ultima), e ho ricevuto in dono "Cronaca di una strage", il libro bianco del partito radicale sulla tua uccisione e sui fatti del 12 maggio 1977, così mi sono ritrovato a pensare a te. In parte sono le piccole casualità in cui ogni tanto inciampa la vita. Mi sento stupidamente ironico nel dirtelo, perché a te non si può parlare della vita: ti è stata strappata prima ancora potessi conoscerla. Ho cercato allora tue immagini in internet. Quella che appare più nitida e frequente è quella del tuo documento d'identità. Sei imbronciata in quella foto, quasi oppressa da qualcosa di oscuro che non riesci a decifrare. E sei bella, dannatamente bella, e provo vergogna nel dirtelo. Negli articoli che ho trovato, si ricorda soprattutto che la tua morte restò senza giustizia "poiché rimasti ignoti i responsabili del reato". Non era una novità nemmeno per te, lo sai: tanti ti avevano preceduto, altri ti avrebbero seguito sulla stessa strada della giustizia mancata.
Quest'anno, il 12 maggio, a Roma ci saranno due manifestazioni contrapposte. Nello stesso giorno in cui settori del mondo cattolico hanno convocato il family day, radicali e altre realtà hanno promosso la giornata del coraggio laico. Credo che pure tu augureresti il massimo successo alla seconda iniziativa, ma fino ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di dire che quel giorno andrebbe speso anche per ricordare te. Perché, cara Giorgiana, non mi piace pensare che siamo polvere e torniamo ad essere polvere. Preferisco pensare che siamo aria, che coagula in sangue, simboli, sentimenti, e alla fine svanisce e torna ad essere aria. O se preferisci un lampo nello sguardo infinito di una storia che in molti (nel tuo caso) vorrebbero dimenticare. Ecco perché sono qui e parlo di te: perché la tua morte non finisca nella spazzatura degli irrisolti misteri italiani. E magari perché chi conserva lo champagne nel ghiaccio si vergogni un po', anche se non ci conto molto.
Con affetto
Francesco "baro" Barilli
tra pochi giorni saranno passati trent'anni da quando sei stata uccisa. Era il 12 maggio '77, e sfidando il divieto di manifestazioni pubbliche, radicali e gruppi di sinistra avevano promosso un sit-in in piazza Navona, nell'anniversario del referendum sul divorzio. Quella sera venisti colpita da un proiettile alla schiena, morendo durante il tragitto all'ospedale.
Cossiga recentemente ha parlato ancora di te, ma l'ha fatto senza alcun riguardo. Non ha ricordato che, nell'immediatezza dei fatti, tante frottole furono raccontate al Parlamento e al Paese; non ha ricordato le testimonianze circa agenti in borghese che sparavano ad altezza d'uomo. Ha ricordato d'aver avvertito Pannella dei pericoli, scongiurandolo di evitare la manifestazione di Piazza Navona, e ha detto di sapere, assieme ad altre 4 persone, la verità su chi sparò, aggiungendo che il capo della squadra mobile gli confidò "di aver messo in frigo lo champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità".
Cara Giorgiana, a te non è stato concesso invecchiare. Sappi dunque che l'età porta ben pochi vantaggi. Uno di questi è che, per pietà o per rispetto, ci si può esprimere con una certa impunità. Verso "i potenti", poi, la vecchiaia è più magnanima: circonda le loro dichiarazioni di un'aura di sacralità e rispetto. A questo Paese non interessa la verità, Giorgiana. Questo è quanto ho imparato, e te lo dico con dolore.
Poche settimane fa ero a Milano a parlare di casi come il tuo, ragazzi morti "per ordine pubblico" (non eri la prima, non saresti stata l'ultima), e ho ricevuto in dono "Cronaca di una strage", il libro bianco del partito radicale sulla tua uccisione e sui fatti del 12 maggio 1977, così mi sono ritrovato a pensare a te. In parte sono le piccole casualità in cui ogni tanto inciampa la vita. Mi sento stupidamente ironico nel dirtelo, perché a te non si può parlare della vita: ti è stata strappata prima ancora potessi conoscerla. Ho cercato allora tue immagini in internet. Quella che appare più nitida e frequente è quella del tuo documento d'identità. Sei imbronciata in quella foto, quasi oppressa da qualcosa di oscuro che non riesci a decifrare. E sei bella, dannatamente bella, e provo vergogna nel dirtelo. Negli articoli che ho trovato, si ricorda soprattutto che la tua morte restò senza giustizia "poiché rimasti ignoti i responsabili del reato". Non era una novità nemmeno per te, lo sai: tanti ti avevano preceduto, altri ti avrebbero seguito sulla stessa strada della giustizia mancata.
Quest'anno, il 12 maggio, a Roma ci saranno due manifestazioni contrapposte. Nello stesso giorno in cui settori del mondo cattolico hanno convocato il family day, radicali e altre realtà hanno promosso la giornata del coraggio laico. Credo che pure tu augureresti il massimo successo alla seconda iniziativa, ma fino ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di dire che quel giorno andrebbe speso anche per ricordare te. Perché, cara Giorgiana, non mi piace pensare che siamo polvere e torniamo ad essere polvere. Preferisco pensare che siamo aria, che coagula in sangue, simboli, sentimenti, e alla fine svanisce e torna ad essere aria. O se preferisci un lampo nello sguardo infinito di una storia che in molti (nel tuo caso) vorrebbero dimenticare. Ecco perché sono qui e parlo di te: perché la tua morte non finisca nella spazzatura degli irrisolti misteri italiani. E magari perché chi conserva lo champagne nel ghiaccio si vergogni un po', anche se non ci conto molto.
Con affetto
Francesco "baro" Barilli
Note:
articolo apparso anche su Liberazione del 4 maggio 2007
mercoledì 11 aprile 2007
La rossa primavera
E’ con un po’ di emozione che vi segnalo che a partire dal 25 aprile sarà disponibile “La rossa primavera”, in allegato con Liberazione e L’Unità, in vendita a 6,90 € più il prezzo del quotidiano.
Si tratta di una raccolta di racconti che si inserisce nel progetto lanciato con “In ordine pubblico” e “Piazza bella piazza” (raccolte anch’esse curate, come questa, da Paola Staccioli). E’ un lavoro a più mani di ricostruzione di storie e memoria collettiva attraverso la narrativa.
"La rossa primavera" è imperniata su figure note e meno note dell’antifascismo “a 360 gradi”. Si parla quindi della resistenza partigiana, ma pure del ventennio, delle barricate a Parma, della guerra di Spagna…
C’è anche un mio racconto: “Prenderemo un caffè a Huesca”, imperniato sulla figura di Emilio Canzi (di cui mi ero già occupato).
Eccovi in anteprima un breve brano tratto da "Era l’estate del ‘43", di Erri De Luca. Racconto che mi sembra particolarmente indicativo dell'intera raccolta.
«O fascismo pe’ mme è stato ‘a guerra, tenevo quindici anni,
‘a meglio età, quanno chillo s’affacciaie a ‘o balcone:
vincere, e vinceremo. E ‘a gente sotto che sbatteva ‘e mmane,
comm’a teatro. Se credeva di fa’ ‘na guapparia,
quattro mosse dietro ai tedeschi e subito vinceva.
In capo a qualche giorno a Napule sentettemo ‘a sirena,
‘a primma sirena d’allarme. Ancora me la sogno la sirena,
dentro i sogni nun m’arricordo ‘e bbombe, ma ‘a sirena.
Tenevo quindici anni all’inizio d’ ‘a guerra, ‘a meglio età,
‘o fascismo me l’ha scippata fino a diciotto anni.»
….
«Sarà stato mezzogiorno, o primo pomeriggio,
nun saccio di’, ce steva ‘o sole, nuie eravamo ‘a doie ore
int’ ‘o ricovero. Poi sunaie ‘a sirena di cessato allarme
e uscimmo all’aperto, tossivo, per la polvere alzata dalle bbombe,
mi bruciavano gli occhi per la luce potente dopo il buio,
mezzo stordita m’arrivaie ‘nu strillo: “Roma!
Hanno bumbardato Roma! Hanno menato ‘e bbombe ‘ncopp’ ‘o papa.”
E doppo ‘o strillo ne venette ‘n ato: “È ‘o mumento, è ‘o mumen-to,
fernesce ‘a guerra, mo’ fernesce ‘a guerra!”.
‘A ggente usciva dai ricoveri con gli occhi mezzi chiusi
imbambolata e tutt’insieme dietro a quello strillo
s’abbracciava, saltava, strepitava.
“Fernesce ‘a guerra” e “Roma bumbardata” erano ‘o stesso strillo.
....
«E di tutto il fascismo mi rimane il peggio di quell’ora di allegria
per Roma bombardata, anche se in quella polvere di luglio
non mi sono abbracciata con nessuno.
È per la gente mia che mi dispiace.
Allora fu normale, perciò chist’ è ‘o fascismo pe’ mme,
la fetenzia che ci ha ridotto a quello, di applaudire.
Ti parlo di ‘sti ccose addolorate pecché tu saie senti’,
ma non permetto a nessuno di voi venuti dopo
di giudicare Napoli in quell’ora,
pecché ‘o fascismo vuie nun ‘o ssapite.»
ed eccovi la copertina del libro:
Si tratta di una raccolta di racconti che si inserisce nel progetto lanciato con “In ordine pubblico” e “Piazza bella piazza” (raccolte anch’esse curate, come questa, da Paola Staccioli). E’ un lavoro a più mani di ricostruzione di storie e memoria collettiva attraverso la narrativa.
"La rossa primavera" è imperniata su figure note e meno note dell’antifascismo “a 360 gradi”. Si parla quindi della resistenza partigiana, ma pure del ventennio, delle barricate a Parma, della guerra di Spagna…
C’è anche un mio racconto: “Prenderemo un caffè a Huesca”, imperniato sulla figura di Emilio Canzi (di cui mi ero già occupato).
Eccovi in anteprima un breve brano tratto da "Era l’estate del ‘43", di Erri De Luca. Racconto che mi sembra particolarmente indicativo dell'intera raccolta.
«O fascismo pe’ mme è stato ‘a guerra, tenevo quindici anni,
‘a meglio età, quanno chillo s’affacciaie a ‘o balcone:
vincere, e vinceremo. E ‘a gente sotto che sbatteva ‘e mmane,
comm’a teatro. Se credeva di fa’ ‘na guapparia,
quattro mosse dietro ai tedeschi e subito vinceva.
In capo a qualche giorno a Napule sentettemo ‘a sirena,
‘a primma sirena d’allarme. Ancora me la sogno la sirena,
dentro i sogni nun m’arricordo ‘e bbombe, ma ‘a sirena.
Tenevo quindici anni all’inizio d’ ‘a guerra, ‘a meglio età,
‘o fascismo me l’ha scippata fino a diciotto anni.»
….
«Sarà stato mezzogiorno, o primo pomeriggio,
nun saccio di’, ce steva ‘o sole, nuie eravamo ‘a doie ore
int’ ‘o ricovero. Poi sunaie ‘a sirena di cessato allarme
e uscimmo all’aperto, tossivo, per la polvere alzata dalle bbombe,
mi bruciavano gli occhi per la luce potente dopo il buio,
mezzo stordita m’arrivaie ‘nu strillo: “Roma!
Hanno bumbardato Roma! Hanno menato ‘e bbombe ‘ncopp’ ‘o papa.”
E doppo ‘o strillo ne venette ‘n ato: “È ‘o mumento, è ‘o mumen-to,
fernesce ‘a guerra, mo’ fernesce ‘a guerra!”.
‘A ggente usciva dai ricoveri con gli occhi mezzi chiusi
imbambolata e tutt’insieme dietro a quello strillo
s’abbracciava, saltava, strepitava.
“Fernesce ‘a guerra” e “Roma bumbardata” erano ‘o stesso strillo.
....
«E di tutto il fascismo mi rimane il peggio di quell’ora di allegria
per Roma bombardata, anche se in quella polvere di luglio
non mi sono abbracciata con nessuno.
È per la gente mia che mi dispiace.
Allora fu normale, perciò chist’ è ‘o fascismo pe’ mme,
la fetenzia che ci ha ridotto a quello, di applaudire.
Ti parlo di ‘sti ccose addolorate pecché tu saie senti’,
ma non permetto a nessuno di voi venuti dopo
di giudicare Napoli in quell’ora,
pecché ‘o fascismo vuie nun ‘o ssapite.»
ed eccovi la copertina del libro:
giovedì 22 marzo 2007
Anni di piombo: né la condanna al silenzio né l’amnistia sono la soluzione
Se un regista avesse voluto tessere una trama per tornare a parlare dei
cosiddetti anni di piombo, cercando al tempo stesso di far credere
ancora attuali emergenze ormai chiuse, non avrebbe potuto inventare una
successione di eventi così favorevole. Il caso Ronconi, Curcio, le
proteste delle vittime degli ex BR, l’anniversario del rapimento Moro e
dell’uccisione di Marco Biagi, infine l’arresto di Cesare Battisti.
Le vittime del terrorismo chiedono più discrezione e silenzio ai protagonisti della lotta armata. Li capisco, e non considero le loro richieste semplice “vendettismo”. Ritengo però si debba avere prudenza verso quei politici che ne appoggiano le istanze: se i parenti delle vittime sono umanamente comprensibili, e se il loro ragionamento andrebbe valorizzato e approfondito, l’atteggiamento di chi ne sostiene gli appelli sembra prescindere dal valore morale di quelle richieste, assumendo le sembianze di sterile demagogia. A questo proposito, mi permetto di far suonare un campanello d’allarme proprio alle vittime del terrorismo: temo che chi li appoggia sia interessato più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere alle vittime una sorta di risarcimento morale sotto la forma discutibile (e non so quanto efficace) di una condanna al silenzio verso gli ex terroristi. Ho inoltre la sensazione che quella condanna, qualora realizzata, rischierebbe d’essere estesa tanto ai carnefici quanto alle vittime, perché la violenza politica degli anni ’70 e ’80 è una memoria scomoda per quanto emerso ma pure (soprattutto?) per lo strato tuttora sommerso.
Non so se i parenti delle vittime si rendano conto che il silenzio invocato per i loro carnefici rischia di trasformarsi in un boomerang per la loro stessa, legittima e sacrosanta, sete di verità e giustizia: spero non si accontentino del ruolo di immaginette da tirare fuori negli anniversari per essere poi riposte nei cassetti impolverati della memoria scomoda. Sintomatico, da questo punto di vista, è che il dibattito su quegli anni ormai si limita a circoscrivere il fenomeno della violenza politica alle sole formazioni di estrema sinistra, mentre le “stragi nere” sono impunite e dimenticate. Sintomatico è pure che l’ultima sentenza su Piazza Fontana la si ricordi per le assoluzioni personali, piuttosto che per l’avvenuta individuazione delle responsabilità a carico di Ordine Nuovo, che appaiono inequivocabilmente dalla sentenza stessa.
In questo panorama, per i reati di quel periodo si inserisce la proposta di un’amnistia, con cui confesso di non concordare. Questo non per il merito, ma per il modo con cui viene ciclicamente tirata fuori dal cassetto: mi sembra si voglia rispondere a degli slogan semplicistici con la stessa arma, e questo può portare solo a ingessare il dibattito su posizioni contrapposte, facendo morire la discussione sul nascere. Da un lato c’è la tendenza forcaiola di chi sostiene che “i terroristi devono scontare fino all’ultimo giorno di galera”, negando pure, più o meno velatamente, qualsiasi ipotesi di riabilitazione per chi la pena l’ha scontata. Dall’altro lato c’è una sinistra che appare timorosa nel denunciare l’interessato strabismo di chi ancora oggi parla della violenza politica come fosse stata figlia di una sola matrice. Una parte propone il carcere, unito all’ergastolo bianco del silenzio per gli ex terroristi, come rabbioso rimedio; l’altra parte, in presenza di un’ormai avvenuta cancellazione dell’eversione neofascista dalla memoria collettiva, sembra accontentarsi di pareggiare il conto con una cancellazione di segno contrario. Nell’uno e nell’altro caso, il risultato è solo una finta chiusura di quegli anni, sotto la forma di un silenzio privo di verità storica e di giustizia.
Io credo che oggi, rispetto alla violenza politica degli anni che vanno da Piazza Fontana in poi, ci troviamo di fronte a una verità parziale e azzoppata, e in questo contesto nessuna amnistia è possibile, perché finirebbe col diventare (al di là della volontà dei proponenti) una rimozione. E le rimozioni mi inquietano: quasi mai sono innocenti, certamente mai risultano utili, se non per fini che di storico hanno ben poco.
Ben più utile di un’amnistia sarebbe una discussione, senza ambiguità e reticenze, su quegli anni. Una discussione che potrebbe davvero costruire, ma solo successivamente alla sua maturazione, le basi di un provvedimento di clemenza mirato che potrebbe trovare anche nelle vittime del terrorismo maggiore disponibilità all’ascolto. Solo a quel punto si potrebbe parlare di chiusure, anche dal punto di vista penale, degli anni di piombo e pure i parenti delle vittime potrebbero dire di aver ottenuto quella giustizia che è dovuta a loro e all’intero Paese. Non certo con l’imposizione del silenzio, non con ansie forcaiole, e neppure con amnistie che prescindano dall’individuazione di una verità storica che, col passare degli anni, appare sempre più un miraggio, soprattutto per le stragi che hanno insanguinato il Paese.
Le vittime del terrorismo chiedono più discrezione e silenzio ai protagonisti della lotta armata. Li capisco, e non considero le loro richieste semplice “vendettismo”. Ritengo però si debba avere prudenza verso quei politici che ne appoggiano le istanze: se i parenti delle vittime sono umanamente comprensibili, e se il loro ragionamento andrebbe valorizzato e approfondito, l’atteggiamento di chi ne sostiene gli appelli sembra prescindere dal valore morale di quelle richieste, assumendo le sembianze di sterile demagogia. A questo proposito, mi permetto di far suonare un campanello d’allarme proprio alle vittime del terrorismo: temo che chi li appoggia sia interessato più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere alle vittime una sorta di risarcimento morale sotto la forma discutibile (e non so quanto efficace) di una condanna al silenzio verso gli ex terroristi. Ho inoltre la sensazione che quella condanna, qualora realizzata, rischierebbe d’essere estesa tanto ai carnefici quanto alle vittime, perché la violenza politica degli anni ’70 e ’80 è una memoria scomoda per quanto emerso ma pure (soprattutto?) per lo strato tuttora sommerso.
Non so se i parenti delle vittime si rendano conto che il silenzio invocato per i loro carnefici rischia di trasformarsi in un boomerang per la loro stessa, legittima e sacrosanta, sete di verità e giustizia: spero non si accontentino del ruolo di immaginette da tirare fuori negli anniversari per essere poi riposte nei cassetti impolverati della memoria scomoda. Sintomatico, da questo punto di vista, è che il dibattito su quegli anni ormai si limita a circoscrivere il fenomeno della violenza politica alle sole formazioni di estrema sinistra, mentre le “stragi nere” sono impunite e dimenticate. Sintomatico è pure che l’ultima sentenza su Piazza Fontana la si ricordi per le assoluzioni personali, piuttosto che per l’avvenuta individuazione delle responsabilità a carico di Ordine Nuovo, che appaiono inequivocabilmente dalla sentenza stessa.
In questo panorama, per i reati di quel periodo si inserisce la proposta di un’amnistia, con cui confesso di non concordare. Questo non per il merito, ma per il modo con cui viene ciclicamente tirata fuori dal cassetto: mi sembra si voglia rispondere a degli slogan semplicistici con la stessa arma, e questo può portare solo a ingessare il dibattito su posizioni contrapposte, facendo morire la discussione sul nascere. Da un lato c’è la tendenza forcaiola di chi sostiene che “i terroristi devono scontare fino all’ultimo giorno di galera”, negando pure, più o meno velatamente, qualsiasi ipotesi di riabilitazione per chi la pena l’ha scontata. Dall’altro lato c’è una sinistra che appare timorosa nel denunciare l’interessato strabismo di chi ancora oggi parla della violenza politica come fosse stata figlia di una sola matrice. Una parte propone il carcere, unito all’ergastolo bianco del silenzio per gli ex terroristi, come rabbioso rimedio; l’altra parte, in presenza di un’ormai avvenuta cancellazione dell’eversione neofascista dalla memoria collettiva, sembra accontentarsi di pareggiare il conto con una cancellazione di segno contrario. Nell’uno e nell’altro caso, il risultato è solo una finta chiusura di quegli anni, sotto la forma di un silenzio privo di verità storica e di giustizia.
Io credo che oggi, rispetto alla violenza politica degli anni che vanno da Piazza Fontana in poi, ci troviamo di fronte a una verità parziale e azzoppata, e in questo contesto nessuna amnistia è possibile, perché finirebbe col diventare (al di là della volontà dei proponenti) una rimozione. E le rimozioni mi inquietano: quasi mai sono innocenti, certamente mai risultano utili, se non per fini che di storico hanno ben poco.
Ben più utile di un’amnistia sarebbe una discussione, senza ambiguità e reticenze, su quegli anni. Una discussione che potrebbe davvero costruire, ma solo successivamente alla sua maturazione, le basi di un provvedimento di clemenza mirato che potrebbe trovare anche nelle vittime del terrorismo maggiore disponibilità all’ascolto. Solo a quel punto si potrebbe parlare di chiusure, anche dal punto di vista penale, degli anni di piombo e pure i parenti delle vittime potrebbero dire di aver ottenuto quella giustizia che è dovuta a loro e all’intero Paese. Non certo con l’imposizione del silenzio, non con ansie forcaiole, e neppure con amnistie che prescindano dall’individuazione di una verità storica che, col passare degli anni, appare sempre più un miraggio, soprattutto per le stragi che hanno insanguinato il Paese.
mercoledì 24 gennaio 2007
APPUNTI DI UN BOIA – quarta e ultima parte
Ancora oggi benpensanti e moralisti continuano a squadrarmi in modo
sinistro, quando non mi minacciano con lo spettro di maledizioni divine
che francamente non mi danno alcuna emozione. Stupidi! Non si rendono
conto che nessuna punizione può essere superiore a quella che già
subisco in questa vita. La fratellanza con la morte è un legame che
pesa, lega, segna... Nessun ripensamento può reciderlo, ed induce a
confrontarsi costantemente col vuoto delle conoscenze umane sulla vita,
disilludendo alla fine chi pensa che proprio quel legame consenta di
risolverne il mistero.
- E’ un problema di coscienza -, dicono.
- L’uomo non si può sostituire a Dio -.
Buffa cosa, la coscienza, buffa travestita da seria; basta poco per farla tacere. E buffa cosa è Dio, ciclicamente tirato fuori dai cassetti impolverati della memoria. Oggi si torna a parlarne ed io sono contento di questo: nonostante sia oggetto di anatemi fatti in suo nome le mie uniche, timide speranze per questa società le ripongo nel ritorno di una dimensione spirituale, non certo nel fumoso e spocchioso filosofeggiare degli uomini.
I moralisti ed i progressisti in realtà sono solo presuntuosi e molto miopi. Si chiedono se sia legittimo che un uomo possa decidere della vita di un altro, ma sbattere lo stesso individuo in galera per vent’anni lo trovano normale, più che normale!, l’esercizio di un diritto pienamente naturale. L’autorità di stabilire per quanto tempo sottrarre ad un uomo affetti familiari, libertà e felicità sembra non aver bisogno di alcun benestare divino.
Evidentemente per loro la sacralità della vita si limita a ciò che non sappiamo spiegare, che pure è prerogativa comune anche agli altri animali: il cuore che pulsa, il sangue che circola, i polmoni che pompano aria. Il resto no, il resto non è sacro. Quello che non possiamo rappresentare, far sentire o definire sinteticamente,... il nostro “essere uomini” insomma, non è sacro. Possiamo imporre solitudine e comminare infelicità, ma dare la morte compete a Dio.
E’ mio parere che di questi pensatori si possa fare a meno, ma vedo che loro credono davvero in quel che predicano, e si ritengono uomini saggi, filosofi, innovatori del comune pensiero. Lo dico con tutta franchezza, senza il benchè minimo spirito polemico: un buon idraulico è più utile alla collettività di tutti questi pensatori. Le loro occhiatacce mi lasciano del tutto indifferente, non ho certo paura: sono arrivato ormai così vicino al Mistero da toccarlo, e non mi preoccupano certo dei buffi anatemi.
Più delle maledizioni divine temo il rimorso. Quello salta fuori quando meno te l’aspetti e senza apparenti motivi, ma fino ad oggi quando guardo le mie mani vedo mani colpevoli, ma che non hanno mai tremato.
Fine
- E’ un problema di coscienza -, dicono.
- L’uomo non si può sostituire a Dio -.
Buffa cosa, la coscienza, buffa travestita da seria; basta poco per farla tacere. E buffa cosa è Dio, ciclicamente tirato fuori dai cassetti impolverati della memoria. Oggi si torna a parlarne ed io sono contento di questo: nonostante sia oggetto di anatemi fatti in suo nome le mie uniche, timide speranze per questa società le ripongo nel ritorno di una dimensione spirituale, non certo nel fumoso e spocchioso filosofeggiare degli uomini.
I moralisti ed i progressisti in realtà sono solo presuntuosi e molto miopi. Si chiedono se sia legittimo che un uomo possa decidere della vita di un altro, ma sbattere lo stesso individuo in galera per vent’anni lo trovano normale, più che normale!, l’esercizio di un diritto pienamente naturale. L’autorità di stabilire per quanto tempo sottrarre ad un uomo affetti familiari, libertà e felicità sembra non aver bisogno di alcun benestare divino.
Evidentemente per loro la sacralità della vita si limita a ciò che non sappiamo spiegare, che pure è prerogativa comune anche agli altri animali: il cuore che pulsa, il sangue che circola, i polmoni che pompano aria. Il resto no, il resto non è sacro. Quello che non possiamo rappresentare, far sentire o definire sinteticamente,... il nostro “essere uomini” insomma, non è sacro. Possiamo imporre solitudine e comminare infelicità, ma dare la morte compete a Dio.
E’ mio parere che di questi pensatori si possa fare a meno, ma vedo che loro credono davvero in quel che predicano, e si ritengono uomini saggi, filosofi, innovatori del comune pensiero. Lo dico con tutta franchezza, senza il benchè minimo spirito polemico: un buon idraulico è più utile alla collettività di tutti questi pensatori. Le loro occhiatacce mi lasciano del tutto indifferente, non ho certo paura: sono arrivato ormai così vicino al Mistero da toccarlo, e non mi preoccupano certo dei buffi anatemi.
Più delle maledizioni divine temo il rimorso. Quello salta fuori quando meno te l’aspetti e senza apparenti motivi, ma fino ad oggi quando guardo le mie mani vedo mani colpevoli, ma che non hanno mai tremato.
Fine
lunedì 15 gennaio 2007
APPUNTI DI UN BOIA – terza parte
Alla centesima esecuzione si pensò addirittura di dovermi premiare.
Ricordo che la cerimonia era fissata per il primo maggio, festa del
lavoro, proprio in piazza, sul palco delle esecuzioni. Una settimana
prima scrissi al Podestà che rifiutavo qualsiasi riconoscimento per
quello che consideravo solo il mio dovere. Era l’unico metodo per
evitare quella buffonata senza dargli pubblicamente del pagliaccio. Per
fortuna la consuetudine delle esecuzioni almeno qualcosa di buono l’ha
raggiunto: altre ricorrenze di questo tipo, vuoi cronologiche vuoi
numeriche, sono passate inosservate. Probabilmente mi avrebbero dato
qualche bella targa d’argento, forse d’oro, ma quei riconoscimenti
avrebbero avuto il solo effetto di aprire ancora maggiormente la ferita
dentro di me.
Credo sia capitato a tutti di avere delle frasi che, a volte, vagano nei pensieri inquiete, in apparenza immotivate, come a voler cercare una precisa collocazione e con essa una ragione di esistere. Spesso si tratta solo di qualche strano meccanismo della memoria, privo di senso; a volte è il modo che la nostra coscienza usa per farsi sentire. In quei giorni nella mia mente vagava una frase dantesca: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”... Forse solo oggi capisco che era qualcosa di più di una reminiscenza scolastica, nostalgia di un tempo in cui ero ancora innocente: se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare.
Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita. Anche chi disponeva della libertà, del denaro o, in qualche modo subdolo, della felicità altrui, era ugualmente colpevole, e fu in quei giorni che in me maturarono definitivamente l’odio verso le istituzioni ed il disprezzo per la mia codardia, per il mio colpevole silenzio, per l’accettazione supina del ruolo assegnatomi.
Ma si raccontano tante frottole su come e perchè cessai la mia attività di boia. Forse non interesserà a nessuno cosa accadde quel giorno, ma io vorrei provare la soddisfazione di sapere che almeno qualcuno sa come sono andate davvero le cose. Non temo la morte, ma sicuramente temo che il modo in cui maturò la mia estrema ribellione finisca nell’oblio.
Sfatiamo innanzitutto la leggenda secondo cui quel giorno strani cenni premonitori avrebbero spiegato ai più quel che stava per accadere. Tutte sciocchezze: non c’era niente di diverso. Dubitate, quindi, di chi vi racconterà che “quel giorno c’era qualcosa di strano nell’aria”, o dice d’aver colto qualche lampo strano nel mio sguardo; anche se, è vero, gravava sul palco e sulla folla la cappa di piombo di un cielo minaccioso. Temendo la pioggia, avevo cosparso i miei guanti ed il manico dell’accetta di un’abbondante razione della consueta pasta, affinchè l’ascia non potesse scivolarmi. Mi ero presentato sul palco un quarto d’ora prima dell’orario stabilito, come al solito.
Poi arrivò il condannato. Un ragazzo di neanche vent’anni, come la mia prima vittima. La mia vita andava a fondersi in un ciclo ossessivo di orrore e di morte, dove io ormai non ero più il protagonista, ma solo uno spettatore privilegiato. Mentre la banda del paese suonava, colsi lo sguardo intelligente e vivace del condannato poco prima che le guardie provvedessero a bendarlo, mentre salutava la folla come se niente fosse, per niente spaventato, una folla che si accendeva e si agitava, attraversata da mille scariche di un’energia sconosciuta.
Particolari soliti e per certi versi insignificanti cominciarono ad infastidirmi, mentre generalmente a questo punto afferravo saldamente l’accetta, cercando di non pensare a nulla, di concentrarmi. Ma quella volta non mi riusciva. Il rumore della banda mi infastidiva. Il vociare della folla mi sembrava intollerabile.
Poi, in lontananza, ecco i primi tafferugli tra le forze dell’ordine ed i manifestanti contro la pena di morte. Guardai la folla: chi derideva il condannato, chi lo incoraggiava, chi lo malediceva... E a me parevano tutti uguali, una gigantesca marmellata di persone che ribolliva delle proprie contraddizioni.
Decisi che quello era il momento giusto. A dire il vero non so se decidere sia il verbo più indicato, presupponendo un processo intellettivo cosciente: avevo meditato il mio “tradimento” da tempo, ma non avevo mai valutato nè come nè quando.
Appoggiata l’ascia di traverso a lato del ceppo, la spezzai sicuro con un calcio; quindi sfilai i guanti, gettandoli con noncuranza sul palco; poi scesi le scale fra due ali di folla che si ritraeva stupita al mio passaggio, nemmeno fossi Mosè davanti al Mar Rosso.
Dovettero rinviare solo di pochi giorni quell’esecuzione: l’Assemblea Generale non faticò molto a trovare un volontario che mi sostituisse, alle stesse condizioni economiche. Il Podestà telefonò inviperito per dirmi che me l’avrebbe fatta pagare cara.
- Considerati già condannato -, berciò. - Brucerai all’inferno assieme alle tue vittime -.
Gli risi in faccia: tutte cose che conoscevo già. Così come sapevo che la mia condanna o la mia ultima destinazione non erano certo dovute a determinazioni umane: Qualcuno doveva aver già disposto in tale senso. Ma trovai piuttosto sterile dare inizio ad una schermaglia filosofica.
La mia decisione di smettere, vista da un esterno, probabilmente deve sembrare l’affare peggiore di tutta la mia vita: presso quelli che mi detestavano non acquistai alcun credito, mentre quelli che vedevano in me un eroe mi bollarono presto come codardo e traditore. Ma continuo a ritenere che quel giorno presi la decisione migliore: è vero che non acquistai altra stima che la mia, ma non m’aspettavo nemmeno quella.
Fine terza parte
Credo sia capitato a tutti di avere delle frasi che, a volte, vagano nei pensieri inquiete, in apparenza immotivate, come a voler cercare una precisa collocazione e con essa una ragione di esistere. Spesso si tratta solo di qualche strano meccanismo della memoria, privo di senso; a volte è il modo che la nostra coscienza usa per farsi sentire. In quei giorni nella mia mente vagava una frase dantesca: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”... Forse solo oggi capisco che era qualcosa di più di una reminiscenza scolastica, nostalgia di un tempo in cui ero ancora innocente: se io, oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare.
Capii che disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di un’Autorità da nessuno conferita. Anche chi disponeva della libertà, del denaro o, in qualche modo subdolo, della felicità altrui, era ugualmente colpevole, e fu in quei giorni che in me maturarono definitivamente l’odio verso le istituzioni ed il disprezzo per la mia codardia, per il mio colpevole silenzio, per l’accettazione supina del ruolo assegnatomi.
Ma si raccontano tante frottole su come e perchè cessai la mia attività di boia. Forse non interesserà a nessuno cosa accadde quel giorno, ma io vorrei provare la soddisfazione di sapere che almeno qualcuno sa come sono andate davvero le cose. Non temo la morte, ma sicuramente temo che il modo in cui maturò la mia estrema ribellione finisca nell’oblio.
Sfatiamo innanzitutto la leggenda secondo cui quel giorno strani cenni premonitori avrebbero spiegato ai più quel che stava per accadere. Tutte sciocchezze: non c’era niente di diverso. Dubitate, quindi, di chi vi racconterà che “quel giorno c’era qualcosa di strano nell’aria”, o dice d’aver colto qualche lampo strano nel mio sguardo; anche se, è vero, gravava sul palco e sulla folla la cappa di piombo di un cielo minaccioso. Temendo la pioggia, avevo cosparso i miei guanti ed il manico dell’accetta di un’abbondante razione della consueta pasta, affinchè l’ascia non potesse scivolarmi. Mi ero presentato sul palco un quarto d’ora prima dell’orario stabilito, come al solito.
Poi arrivò il condannato. Un ragazzo di neanche vent’anni, come la mia prima vittima. La mia vita andava a fondersi in un ciclo ossessivo di orrore e di morte, dove io ormai non ero più il protagonista, ma solo uno spettatore privilegiato. Mentre la banda del paese suonava, colsi lo sguardo intelligente e vivace del condannato poco prima che le guardie provvedessero a bendarlo, mentre salutava la folla come se niente fosse, per niente spaventato, una folla che si accendeva e si agitava, attraversata da mille scariche di un’energia sconosciuta.
Particolari soliti e per certi versi insignificanti cominciarono ad infastidirmi, mentre generalmente a questo punto afferravo saldamente l’accetta, cercando di non pensare a nulla, di concentrarmi. Ma quella volta non mi riusciva. Il rumore della banda mi infastidiva. Il vociare della folla mi sembrava intollerabile.
Poi, in lontananza, ecco i primi tafferugli tra le forze dell’ordine ed i manifestanti contro la pena di morte. Guardai la folla: chi derideva il condannato, chi lo incoraggiava, chi lo malediceva... E a me parevano tutti uguali, una gigantesca marmellata di persone che ribolliva delle proprie contraddizioni.
Decisi che quello era il momento giusto. A dire il vero non so se decidere sia il verbo più indicato, presupponendo un processo intellettivo cosciente: avevo meditato il mio “tradimento” da tempo, ma non avevo mai valutato nè come nè quando.
Appoggiata l’ascia di traverso a lato del ceppo, la spezzai sicuro con un calcio; quindi sfilai i guanti, gettandoli con noncuranza sul palco; poi scesi le scale fra due ali di folla che si ritraeva stupita al mio passaggio, nemmeno fossi Mosè davanti al Mar Rosso.
Dovettero rinviare solo di pochi giorni quell’esecuzione: l’Assemblea Generale non faticò molto a trovare un volontario che mi sostituisse, alle stesse condizioni economiche. Il Podestà telefonò inviperito per dirmi che me l’avrebbe fatta pagare cara.
- Considerati già condannato -, berciò. - Brucerai all’inferno assieme alle tue vittime -.
Gli risi in faccia: tutte cose che conoscevo già. Così come sapevo che la mia condanna o la mia ultima destinazione non erano certo dovute a determinazioni umane: Qualcuno doveva aver già disposto in tale senso. Ma trovai piuttosto sterile dare inizio ad una schermaglia filosofica.
La mia decisione di smettere, vista da un esterno, probabilmente deve sembrare l’affare peggiore di tutta la mia vita: presso quelli che mi detestavano non acquistai alcun credito, mentre quelli che vedevano in me un eroe mi bollarono presto come codardo e traditore. Ma continuo a ritenere che quel giorno presi la decisione migliore: è vero che non acquistai altra stima che la mia, ma non m’aspettavo nemmeno quella.
Fine terza parte
martedì 9 gennaio 2007
Compagni, così non va…
Questa riflessione non pensavo neppure di pubblicarla. Specie per come è
nata: una serie di tasselli che vanno a comporre un mosaico, il cui
disegno va via via definendosi… Oppure (meglio…) come un domino, dove la
caduta del primo tassello porta ad una cascata di conseguenze
inarrestabili.
Grazie a proficue chiacchierate con amici e alla partecipazione al blog di Emo, quel mosaico è andato arricchendosi (o, se preferite, il disegno delle tessere del domino si sta facendo più chiaro): forse è il caso di dare a quella riflessione una veste un po’ più completa.
Innanzitutto, un po’ di ordine, con i fatti degli ultimi giorni:
- un mediattivista mi scrive parlandomi della chiusura o agonia di due siti di informazione alternativa;
- uno scrittore (a me molto caro - umanamente, intendo) al telefono mi dice che tra gli iscritti a Rifondazione dalle sue parti la disillusione è sempre più palpabile (e si riflette in un calo di iscritti... ma non è quello il problema...);
- mi comunicano problemi interni ad un'associazione che gravita attorno a reti-invisibili;
- un giornalista mi dice che i giornali di sinistra navigano in cattive acque (non è una novità) e che pure sul piano dell’informazione alternativa non ce la si passa molto meglio;
- mi comunicano quest’altra bella notizia.
Sono stato generico, lo so, ma spero comprenderete la mia volontà di rispettare la discrezione di coloro che mi hanno reso partecipe delle loro confidenze. E, soprattutto, spero capiate che il problema NON sta in “chi” mi ha detto “cosa”, né nella somma degli episodi che vagamente ho riportato qui sopra.
Il discorso è che c’è da essere pessimisti sullo stato di salute in generale del mondo che "gravita a sinistra" (sia per quanto concerne - per così dire - le istituzioni o i partiti, sia per quel che concerne l'informazione - classica o alternativa che sia, sia per quel che attiene le realtà “di movimento”). Questo per mille motivi, probabilmente più rilevanti di quello che vado a descrivervi io, che in sintesi consiste in una disaggregazione di quella “unità di intenti pur nella diversità”, un’unità che aveva caratterizzato il movimento tempo addietro, e che si era visto soprattutto nelle pur drammatiche giornate genovesi del luglio 2001.
Ripeto: molti analisti probabilmente non concorderebbero con me in questa valutazione. Altri rovescerebbero il rapporto causa-effetto. Ma a mio avviso, invece, questo problema sociale sta a monte (e non a valle) degli altri mille problemi.
Paul Eluard ha scritto:
Ci sono parole che fan vivere
E sono parole innocenti
La parola calore la parola fiducia
Giustizia amore e la parola libertà
La parola figlio e la parola gentilezza
Certi nomi di fiori certi nomi di frutti
La parola coraggio la parola scoprire
E la parola fratello e la parola compagno
I poeti hanno questa capacità di sintetizzare un concetto in poche parole che ti arrivano al cuore. Ma quelle parole non dovrebbero restare solo un’immagine affascinante da riscoprire quando ci sentiamo smarriti, ma indirizzare (se ci crediamo) il nostro vivere quotidiano.
Altri avevano sintetizzato quei versi in “Ci sono delle parole per cui vale la pena vivere: una di queste è compagno”. Anche in questa versione sintetica possiamo leggere innanzitutto un invito all’unità, al superare le differenze, al ricordarsi che la difesa di un certo patrimonio culturale e di valori in cui crediamo dovrebbe essere più importante della ricerca di “distinguo”, spesso dettati da personalismi, da ambizioni, da capziose ricerche identitarie.
Leggete “Una vita in prima linea” di Sergio Segio: scoprirete che anche nel 68 o nel 77, i movimenti nati in quegli anni vissero lo stesso problema essenziale: non saper resistere a spinte centrifughe. Non voglio con questo disegnare scenari foschi (tutti sappiamo che piega presero gli eventi dopo il fallimento del 68 e del 77, al di là della complicata matassa delle diverse esperienze individuali dipanatesi da quegli anni). Inoltre, la "caduta" dei movimenti del 68 e del 77 non dipese certo SOLO da quei fenomeni di disaggregazione (migliori approfondimenti potete trovarli sempre nel libro di Segio).
Non mi sono accorto ora che l'onda lunga di Genova si era fermata da un po', per carità. Ma non credevo stessimo già vivendo addirittura il riflusso. Anche perchè le fasi successive (se è vero che la storia si ripete) temo consistano nel solito strascico perverso che porta con sé ogni fallimento. La ricerca delle colpe, il rinnegare o dimenticare anche le cose positive fatte…
Credetemi: mai come in questo caso ho sperato di aver sbagliato totalmente la valutazione.
Grazie a proficue chiacchierate con amici e alla partecipazione al blog di Emo, quel mosaico è andato arricchendosi (o, se preferite, il disegno delle tessere del domino si sta facendo più chiaro): forse è il caso di dare a quella riflessione una veste un po’ più completa.
Innanzitutto, un po’ di ordine, con i fatti degli ultimi giorni:
- un mediattivista mi scrive parlandomi della chiusura o agonia di due siti di informazione alternativa;
- uno scrittore (a me molto caro - umanamente, intendo) al telefono mi dice che tra gli iscritti a Rifondazione dalle sue parti la disillusione è sempre più palpabile (e si riflette in un calo di iscritti... ma non è quello il problema...);
- mi comunicano problemi interni ad un'associazione che gravita attorno a reti-invisibili;
- un giornalista mi dice che i giornali di sinistra navigano in cattive acque (non è una novità) e che pure sul piano dell’informazione alternativa non ce la si passa molto meglio;
- mi comunicano quest’altra bella notizia.
Sono stato generico, lo so, ma spero comprenderete la mia volontà di rispettare la discrezione di coloro che mi hanno reso partecipe delle loro confidenze. E, soprattutto, spero capiate che il problema NON sta in “chi” mi ha detto “cosa”, né nella somma degli episodi che vagamente ho riportato qui sopra.
Il discorso è che c’è da essere pessimisti sullo stato di salute in generale del mondo che "gravita a sinistra" (sia per quanto concerne - per così dire - le istituzioni o i partiti, sia per quel che concerne l'informazione - classica o alternativa che sia, sia per quel che attiene le realtà “di movimento”). Questo per mille motivi, probabilmente più rilevanti di quello che vado a descrivervi io, che in sintesi consiste in una disaggregazione di quella “unità di intenti pur nella diversità”, un’unità che aveva caratterizzato il movimento tempo addietro, e che si era visto soprattutto nelle pur drammatiche giornate genovesi del luglio 2001.
Ripeto: molti analisti probabilmente non concorderebbero con me in questa valutazione. Altri rovescerebbero il rapporto causa-effetto. Ma a mio avviso, invece, questo problema sociale sta a monte (e non a valle) degli altri mille problemi.
Paul Eluard ha scritto:
Ci sono parole che fan vivere
E sono parole innocenti
La parola calore la parola fiducia
Giustizia amore e la parola libertà
La parola figlio e la parola gentilezza
Certi nomi di fiori certi nomi di frutti
La parola coraggio la parola scoprire
E la parola fratello e la parola compagno
I poeti hanno questa capacità di sintetizzare un concetto in poche parole che ti arrivano al cuore. Ma quelle parole non dovrebbero restare solo un’immagine affascinante da riscoprire quando ci sentiamo smarriti, ma indirizzare (se ci crediamo) il nostro vivere quotidiano.
Altri avevano sintetizzato quei versi in “Ci sono delle parole per cui vale la pena vivere: una di queste è compagno”. Anche in questa versione sintetica possiamo leggere innanzitutto un invito all’unità, al superare le differenze, al ricordarsi che la difesa di un certo patrimonio culturale e di valori in cui crediamo dovrebbe essere più importante della ricerca di “distinguo”, spesso dettati da personalismi, da ambizioni, da capziose ricerche identitarie.
Leggete “Una vita in prima linea” di Sergio Segio: scoprirete che anche nel 68 o nel 77, i movimenti nati in quegli anni vissero lo stesso problema essenziale: non saper resistere a spinte centrifughe. Non voglio con questo disegnare scenari foschi (tutti sappiamo che piega presero gli eventi dopo il fallimento del 68 e del 77, al di là della complicata matassa delle diverse esperienze individuali dipanatesi da quegli anni). Inoltre, la "caduta" dei movimenti del 68 e del 77 non dipese certo SOLO da quei fenomeni di disaggregazione (migliori approfondimenti potete trovarli sempre nel libro di Segio).
Non mi sono accorto ora che l'onda lunga di Genova si era fermata da un po', per carità. Ma non credevo stessimo già vivendo addirittura il riflusso. Anche perchè le fasi successive (se è vero che la storia si ripete) temo consistano nel solito strascico perverso che porta con sé ogni fallimento. La ricerca delle colpe, il rinnegare o dimenticare anche le cose positive fatte…
Credetemi: mai come in questo caso ho sperato di aver sbagliato totalmente la valutazione.
lunedì 8 gennaio 2007
APPUNTI DI UN BOIA – seconda parte
Il mio primo giustiziato lo ricordo bene: un ragazzo di vent’anni,
parricida confesso. La sua storia era di quelle diventate purtroppo
comuni: era un tossicodipendente, e non aveva nessuna voglia di
liberarsi da quel vizio che ti succhia l’anima. I soldi per comprarsi la
droga li aveva spillati per mesi e mesi al padre, che fino ad una
settimana prima dell’omicidio non aveva saputo dirgli di no. Poi, un
giorno, ecco il rifiuto; un gesto più disperato che deciso, privo di
quella forza necessaria all’arte della vera dissuasione. I tentativi del
ragazzo di ottenere le somme consuete continuarono, sempre più
insistenti, arginati solo da quel rifiuto tentennante, nemmeno sostenuto
da qualche accenno minaccioso alle Autorità o alle punizioni possibili e
conseguenti. Per conto mio sarebbe stato cento volte meglio per
entrambi se il padre avesse sbattuto fuori di casa il figlio,
costringendolo ad entrare in una comunità di disintossicazione. Comunque
il resto della storia la si può immaginare…
Quando mi comunicarono che avrei dovuto eseguire la mia prima condanna restai attonito, ma una volta saputo di quel ragazzo mi sentii quasi sollevato. Per un gesto come il suo ero ben convinto ci volesse una punizione esemplare, anche prima della reintroduzione della pena di morte, e pensai che l’ascia poteva essere per me un po’ più leggera. Ma quando me lo portarono davanti piangente la mia sicurezza scomparve. Si dibatteva ed urlava come un bambino, e come un bambino aveva gli occhi talmente pieni di lacrime che parevano di gelatina. Non c’era più traccia di un assassino.
Con grande fatica riuscirono a legargli le mani dietro la schiena, così non riuscì nemmeno a pulirsi il naso che gli colava. Non ho mai potuto sapere se con quelle mani volesse semplicemente strapparmi l’ascia, o afferrare le mie per chiedere pietà. Preferirei credere che volesse tentare qualche gesto disperato, ammazzarmi magari; così potrei pensare di aver fatto bene, almeno per autodifesa, a mozzargli la testa d’un colpo. Ma è inutile mentirmi: voleva solo pietà, ed io non ero autorizzato a dargli altra pietà se non quella della mia destrezza. Era la mia prima volta da assassino, ma bastò per farmi capire che il buon Guillotin ed il Dottor Louis forse avevano sbagliato nelle loro valutazioni, perchè quella sensazione di qualcosa di sottile e di freddo che penetra nell’anima forse non la provò la mia vittima, ma io sicuramente sì.
Dopo l’esecuzione domandai udienza al mio amico Podestà, chiedendogli di provvedere affinchè ai condannati fossero bendati gli occhi. Lui mi rispose: - Va bene, chi lo desidera avrà la benda, proprio come una volta -, ma quel che volevo era diverso. Come tutte le persone che non hanno nessuna intenzione di spiegare i propri motivi, mi limitai ad insistere pesantemente, dicendo che, se l’Assemblea Generale non avesse sancito l’obbligatorietà in ogni caso della benda, lui poteva anche cercarsi un altro per quel compito. Il mio amico restò sorpreso dalla mia foga, ma accettò.
L’editto che sanciva quanto concordato fra me ed il Podestà fu motivato con le solite, retoriche ragioni di “umanità” verso il condannato. Nessuno seppe che la pietà di quel gesto era rivolta a me: non avrei più dovuto vedere gli occhi di un uomo che sa di dover morire. Non avrei più dovuto vedere rabbia, paura, ribellione; implorazioni silenziose e per questo ancora più laceranti.
Mi ero reso conto che la morte era diventata qualcosa di diverso, per me. Se prima poteva essere solo un concetto che mi affascinava in modo quasi asettico, lasciando le mie emozioni intatte, ora che io ne ero diventato un dispensatore era diventata una parte di me, impalpabile, indefinibile ed inseparabile come la mia ombra. La sola parola morte, anche quando si abusava della sua religiosità riferendola ad un gatto o ad una pianta, aveva ora un sapore fraterno e sinistro al tempo stesso. Pronunciata da qualsiasi bocca aveva l’effetto di una freccia che, scoccata da quelle labbra, mi apriva una ferita nell’anima, ricordandomi che ora io ero diverso, che la mia diversità stava in quella ferita, e che quella ferita si chiamava consapevolezza.
Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini.
Fine seconda parte
Quando mi comunicarono che avrei dovuto eseguire la mia prima condanna restai attonito, ma una volta saputo di quel ragazzo mi sentii quasi sollevato. Per un gesto come il suo ero ben convinto ci volesse una punizione esemplare, anche prima della reintroduzione della pena di morte, e pensai che l’ascia poteva essere per me un po’ più leggera. Ma quando me lo portarono davanti piangente la mia sicurezza scomparve. Si dibatteva ed urlava come un bambino, e come un bambino aveva gli occhi talmente pieni di lacrime che parevano di gelatina. Non c’era più traccia di un assassino.
Con grande fatica riuscirono a legargli le mani dietro la schiena, così non riuscì nemmeno a pulirsi il naso che gli colava. Non ho mai potuto sapere se con quelle mani volesse semplicemente strapparmi l’ascia, o afferrare le mie per chiedere pietà. Preferirei credere che volesse tentare qualche gesto disperato, ammazzarmi magari; così potrei pensare di aver fatto bene, almeno per autodifesa, a mozzargli la testa d’un colpo. Ma è inutile mentirmi: voleva solo pietà, ed io non ero autorizzato a dargli altra pietà se non quella della mia destrezza. Era la mia prima volta da assassino, ma bastò per farmi capire che il buon Guillotin ed il Dottor Louis forse avevano sbagliato nelle loro valutazioni, perchè quella sensazione di qualcosa di sottile e di freddo che penetra nell’anima forse non la provò la mia vittima, ma io sicuramente sì.
Dopo l’esecuzione domandai udienza al mio amico Podestà, chiedendogli di provvedere affinchè ai condannati fossero bendati gli occhi. Lui mi rispose: - Va bene, chi lo desidera avrà la benda, proprio come una volta -, ma quel che volevo era diverso. Come tutte le persone che non hanno nessuna intenzione di spiegare i propri motivi, mi limitai ad insistere pesantemente, dicendo che, se l’Assemblea Generale non avesse sancito l’obbligatorietà in ogni caso della benda, lui poteva anche cercarsi un altro per quel compito. Il mio amico restò sorpreso dalla mia foga, ma accettò.
L’editto che sanciva quanto concordato fra me ed il Podestà fu motivato con le solite, retoriche ragioni di “umanità” verso il condannato. Nessuno seppe che la pietà di quel gesto era rivolta a me: non avrei più dovuto vedere gli occhi di un uomo che sa di dover morire. Non avrei più dovuto vedere rabbia, paura, ribellione; implorazioni silenziose e per questo ancora più laceranti.
Mi ero reso conto che la morte era diventata qualcosa di diverso, per me. Se prima poteva essere solo un concetto che mi affascinava in modo quasi asettico, lasciando le mie emozioni intatte, ora che io ne ero diventato un dispensatore era diventata una parte di me, impalpabile, indefinibile ed inseparabile come la mia ombra. La sola parola morte, anche quando si abusava della sua religiosità riferendola ad un gatto o ad una pianta, aveva ora un sapore fraterno e sinistro al tempo stesso. Pronunciata da qualsiasi bocca aveva l’effetto di una freccia che, scoccata da quelle labbra, mi apriva una ferita nell’anima, ricordandomi che ora io ero diverso, che la mia diversità stava in quella ferita, e che quella ferita si chiamava consapevolezza.
Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini.
Fine seconda parte
giovedì 4 gennaio 2007
APPUNTI DI UN BOIA – prima parte
21 Marzo 2091
Ero
ancora un bambino quando ebbi il mio primo contatto con la morte, e
fino a quel giorno il suo pensiero non m’aveva mai sfiorato. Fu un
contatto che non mi ferì direttamente, è vero, ma sufficiente a farmi
aprire gli occhi su quella realtà per me ancora sconosciuta, nella mia
puerile ingenuità.
Ero
in macchina con mio padre, che procedeva come sempre a bassa velocità,
quando vidi due cani attraversarci la strada. Mio padre li evitò, ma
mentre il cane più grosso riuscì ad arrivare al ciglio opposto, quello
più piccolo, evidentemente meno esperto, non fu evitato dall’automobile
che proveniva nell’altro senso di marcia. Lo vidi rotolare sotto le
ruote, quindi lanciare un lungo guaito mentre arrancava verso il ciglio
stradale con la sola forza delle zampe anteriori, trascinando quelle
posteriori. Aveva la bocca aperta in un modo tremendo: il terrore gliela
faceva spalancare oltre misura.
Vidi
quella povera bestia dal finestrino dell’auto, le zampe ancora frementi
sull’erba, gli occhi sbarrati; ma il particolare che più mi colpì fu la
bocca spalancata in quel guaito interminabile, testimone non solo del
dolore, ma soprattutto della consapevole incombenza della morte che,
fino a pochi istanti prima, sembrava tanto lontana.
- Non guardare -,
disse premuroso mio padre, ma io finsi solamente di obbedire. Pensai
che non sarebbe cambiato niente. Il dolore e la paura sarebbero rimasti:
ormai anch’io ne avevo preso coscienza.
Molto
peggiore fu il secondo contatto con la morte, questa volta diretto e
lacerante. Mio padre morì dopo una lunga pena per un male incurabile. Lo
assistetti nell’ultima notte; respirava a fatica, e anche lui
all’arrivo della morte si presentava con gli occhi aperti, fissi e
vuoti.
Mi
stupiva l’attaccamento del suo corpo alla vita. Ripeto, solo del corpo.
L’anima se n’era già andata dov’era attesa, ma quel grumo di carne teso e
freddo, gli occhi sbarrati, non voleva raggiungerla. Era sbalorditivo
vedere tutta quella disperata forza istintiva in quel povero corpo già
abbandonato dalla scintilla cosciente della vita.
Tremo
ancora oggi se penso a quell’ultimo respiro, quando mio padre strinse i
pugni e, completamente irrigidito, levò il capo dal cuscino. Sembrava
guardarmi, con quegli occhi sbarrati, e dirmi: “Guarda come si muore!...
Ora sai cosa vuol dire...”.
Mi
vien da ridere quando mi parlano della “forza del pensiero”. Non ho mai
conosciuto niente di così debole e soggetto al cambiamento del vento!
La forza rabbiosa di quel corpo negli ultimi respiri, quella sì era
genuina, incommensurabile (pur nella sua inutilità) ed ancora oggi mi
lascia ammirato e stupefatto. Non c’è mai stato un “pensiero” che mi
comunichi una “forza” paragonabile a quel respiro affannoso, che
sembrava sempre più stretto coi denti.
Con
questo non voglio dire che la morte mi spaventasse: non ho mai provato
orrore o paura della Nera Signora; semplicemente mi affascinava il suo
mistero, oscuro e molesto ma seducente. Aggettivi contrastanti, ma
applicabili a tutte le perversioni.
La
proposta d’incarico come boia del paese mi fu avanzata poco dopo
l’approvazione della Legge 115, che ripristinava la pena di morte e
demandava alle singole Assemblee Generali la scelta del metodo di
esecuzione e del personale addetto.
A
me telefonò personalmente il Podestà: un mio amico di vecchia data, di
qualche anno più anziano, che in adolescenza era stato per me come un
fratello maggiore. Il tempo, poi, ci aveva diviso: lui si era presto
gettato in politica; era abile e intelligente e scaltro (il suo lato che
meno amavo e dal quale, pure, mi sentivo maggiormente attratto); io ero
rimasto un inetto disoccupato.
Col
senno di poi devo dire che sulla scelta del metodo di esecuzione
(l’antica decapitazione con accetta) mi soffermai meno di quanto fosse
opportuno; al contrario indugiai molto sui motivi che portarono al mio
nome. Ormai da tempo non mi chiedo più cosa spinse il mio vecchio amico a
scegliere proprio me, ma ricordo che dopo aver accettato la prima
domanda che mi rivolsi fu proprio: “Perchè io?”. Non so se il Podestà
avesse visto in me, già da ragazzi, qualche lato oscuro, o se le notizie
della mia indigenza (ero sposato e con un figlio di pochi mesi)
l’avessero spinto ad offrirmi un lavoro.
Non
ho mai saputo darmi una risposta: di meritarmi oggi di essere definito
“cinico”, nella migliore delle ipotesi, sono perfettamente consapevole,
ma evidentemente questa fama di uomo duro, spietato, che disprezza i
propri simili, dovevo possederla già allora. Mi dispiace: può suonare
falso, ipocrita, e addirittura offensivo, ma non è così che mi sento.
Comunque
accettai. Ero giovane; inesperto e violento come solo un giovane può
essere; eccessivo e dispotico, come solo un giovane può essere. In quei
tempi di criminalità dilagante i giornali ci rovesciavano addosso
cronache di efferatezze di ogni genere, e l’idea di ripristinare la pena
capitale aveva trovato anche il mio consenso, l’ammetto senza vergogna.
E poi ero disoccupato, con una giovane moglie ed un figlio appena nato
cui pensare. Considerai che, in ogni caso, il mio rifiuto non avrebbe
salvato la vita a nessuno… E pensavo che le esecuzioni sarebbero state
rarissime, una ogni dieci anni magari, e già per la prima io avrei
potuto procurarmi una diversa occupazione… Ma le mie sono motivazioni la
cui debolezza mi condanna già, lo so. Probabilmente ero solo un
predestinato: parlare del destino mi sembra una banalità da astrologo,
ma ci sono uomini che sembrano davvero toccati dalla sua mano; chi con
un segno di speranza, chi con un marchio opposto. Io sono fra questi
ultimi.
fine prima parte
mercoledì 3 gennaio 2007
I casi in cui ogni tanto inciampa la vita
Era da tempo che pensavo di aprire un blog, e la decisione è stata
“facilitata” dalla circostanza dell’esecuzione capitale di Saddam
Hussein, su cui ho scritto il primo intervento di questo diario
virtuale. Intendo dire che il tema della pena di morte l’ho sempre
sentito molto “mio”, per cui mi è risultato naturale sbloccare la mia
incertezza ed aprire il blog.
Ora, seguitemi, andiamo ad alcuni anni fa. Un periodo (sarà stato il ‘98 o il ‘99) in cui avevo riflettuto sulle esecuzioni capitali e ne era nato un racconto, “Appunti di un boia”. Avevo cercato di dare una forma “nuova” e provocatoria a quelle mie riflessioni: avevo immaginato che in un’ipotetica Italia del futuro la pena di morte fosse stata ripristinata, e per enfatizzare il mio giudizio su questa forma di barbarie avevo ipotizzato che la sua reintroduzione fosse avvenuta con l’aspetto più osceno si potesse immaginare: la decapitazione con accetta. Avevo inoltre deciso di scegliere un punto di vista particolare: quello del boia, che a “fine carriera” racconta la sua versione dei fatti, scoprendosi più strumento e spettatore che non artefice di quei delitti legalizzati.
Anni dopo avevo dato una forma diversa e più ampia a quel racconto, trasformandolo in un romanzo. Avevo anche dato uno sviluppo diverso alla trama, approfondendo meglio il tardivo pentimento del boia e le sue conseguenze… Ma ora non è il caso di dilungarmi su questo. Vi basti sapere che il romanzo, seppure terminato, giace da tempo fra le mille cose da riguardare, da rivedere e correggere.
Oggi, sempre per quelle casualità cui accennavo all’inizio, ho scoperto che la mia idea di base (la pena di morte vista da un boia) non era poi così originale. Conoscevo di fama le “gesta” di Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello stato Pontificio fra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma non sapevo che questo signore avesse scritto le sue memorie (romanzate e adattate probabilmente a posteriori da altro autore). Le memorie di Mastro Titta potete scaricarle qui
L’ho scoperto, dicevo, oggi. Non l’ho ancora letto, ma mi riservo di farlo e di trovare nuovi stimoli per rivedere la versione-romanzo di “Appunti di un boia”. Intanto, però, il riflettere su tutte queste casualità mi porta a pubblicare in 4 puntate la sua versione-racconto: Comincerò a farlo nei prossimi giorni.
Ora, seguitemi, andiamo ad alcuni anni fa. Un periodo (sarà stato il ‘98 o il ‘99) in cui avevo riflettuto sulle esecuzioni capitali e ne era nato un racconto, “Appunti di un boia”. Avevo cercato di dare una forma “nuova” e provocatoria a quelle mie riflessioni: avevo immaginato che in un’ipotetica Italia del futuro la pena di morte fosse stata ripristinata, e per enfatizzare il mio giudizio su questa forma di barbarie avevo ipotizzato che la sua reintroduzione fosse avvenuta con l’aspetto più osceno si potesse immaginare: la decapitazione con accetta. Avevo inoltre deciso di scegliere un punto di vista particolare: quello del boia, che a “fine carriera” racconta la sua versione dei fatti, scoprendosi più strumento e spettatore che non artefice di quei delitti legalizzati.
Anni dopo avevo dato una forma diversa e più ampia a quel racconto, trasformandolo in un romanzo. Avevo anche dato uno sviluppo diverso alla trama, approfondendo meglio il tardivo pentimento del boia e le sue conseguenze… Ma ora non è il caso di dilungarmi su questo. Vi basti sapere che il romanzo, seppure terminato, giace da tempo fra le mille cose da riguardare, da rivedere e correggere.
Oggi, sempre per quelle casualità cui accennavo all’inizio, ho scoperto che la mia idea di base (la pena di morte vista da un boia) non era poi così originale. Conoscevo di fama le “gesta” di Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello stato Pontificio fra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ma non sapevo che questo signore avesse scritto le sue memorie (romanzate e adattate probabilmente a posteriori da altro autore). Le memorie di Mastro Titta potete scaricarle qui
L’ho scoperto, dicevo, oggi. Non l’ho ancora letto, ma mi riservo di farlo e di trovare nuovi stimoli per rivedere la versione-romanzo di “Appunti di un boia”. Intanto, però, il riflettere su tutte queste casualità mi porta a pubblicare in 4 puntate la sua versione-racconto: Comincerò a farlo nei prossimi giorni.
martedì 2 gennaio 2007
Di orrori ed ipocrisie
Molti hanno tentato un parallelo fra l'uccisione di Saddam Hussein ed il
processo di Norimberga. Chi l'ha fatto più lucidamente è stato Vittorio
Zucconi, che ha parlato di "grottesco remake". Il parallelo è
fondamentalmente corretto (anche stavolta i vincitori hanno processato i
vinti), pur se con doverosi distinguo, ma se ci si ferma a quello
l'analisi rischia di restare monca e superficiale.
In pochi, infatti, hanno sottolineato come l'orrore di un'esecuzione capitale post-conflitto sia il figlio naturale dell'orrore verso il conflitto stesso, e che in generale la pena di morte ha una parentela stretta con la guerra, con ogni guerra.
Chi ha approvato l'intervento militare in Iraq è ipocrita nel prendere ora le distanze dalla pena capitale: guerra e pena di morte sono per molti versi consequenziali e sicuramente simili in termini di approccio intellettuale al diritto, perchè sono gli unici crimini che in certi momenti storici vengono spacciati per giustizia. E analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per la tortura, argomento guarda caso tornato all'attualità proprio durante i mesi del conflitto in Iraq.
Dunque, se "pietà l'è morta", come recitava una delle più conosciute canzoni sulla Resistenza, non c'è da sorprendersi: non tutte le vittime dei conflitti hanno una loro fisicità. Alla lunga lista di vittime di ogni conflitto possiamo aggiungere infatti la verità, che spesso muore per prima, e la pietà, che vacilla per qualche tempo, per poi cadere anch'essa.
E' venuto quindi il momento per dire con forza che al no alla guerra "senza se e senza ma" è giusto abbinare un'uguale contrarietà, senza distinguo ed eccezioni, verso la pena di morte e verso la tortura. E a certi distinguo tipo "la pena di morte è sbagliata, ma in alcuni casi...", oppure "la tortura è sbagliata, ma in condizioni eccezionali..." bisogna rispondere semplicemente che non si possono porre condizioni di accettabilità per queste barbarie.
In pochi, infatti, hanno sottolineato come l'orrore di un'esecuzione capitale post-conflitto sia il figlio naturale dell'orrore verso il conflitto stesso, e che in generale la pena di morte ha una parentela stretta con la guerra, con ogni guerra.
Chi ha approvato l'intervento militare in Iraq è ipocrita nel prendere ora le distanze dalla pena capitale: guerra e pena di morte sono per molti versi consequenziali e sicuramente simili in termini di approccio intellettuale al diritto, perchè sono gli unici crimini che in certi momenti storici vengono spacciati per giustizia. E analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per la tortura, argomento guarda caso tornato all'attualità proprio durante i mesi del conflitto in Iraq.
Dunque, se "pietà l'è morta", come recitava una delle più conosciute canzoni sulla Resistenza, non c'è da sorprendersi: non tutte le vittime dei conflitti hanno una loro fisicità. Alla lunga lista di vittime di ogni conflitto possiamo aggiungere infatti la verità, che spesso muore per prima, e la pietà, che vacilla per qualche tempo, per poi cadere anch'essa.
E' venuto quindi il momento per dire con forza che al no alla guerra "senza se e senza ma" è giusto abbinare un'uguale contrarietà, senza distinguo ed eccezioni, verso la pena di morte e verso la tortura. E a certi distinguo tipo "la pena di morte è sbagliata, ma in alcuni casi...", oppure "la tortura è sbagliata, ma in condizioni eccezionali..." bisogna rispondere semplicemente che non si possono porre condizioni di accettabilità per queste barbarie.
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