Alla centesima esecuzione si pensò addirittura di dovermi premiare.
Ricordo che la cerimonia era fissata per il primo maggio, festa del
lavoro, proprio in piazza, sul palco delle esecuzioni. Una settimana
prima scrissi al Podestà che rifiutavo qualsiasi riconoscimento per
quello che consideravo solo il mio dovere. Era l’unico metodo per
evitare quella buffonata senza dargli pubblicamente del pagliaccio. Per
fortuna la consuetudine delle esecuzioni almeno qualcosa di buono l’ha
raggiunto: altre ricorrenze di questo tipo, vuoi cronologiche vuoi
numeriche, sono passate inosservate. Probabilmente mi avrebbero dato
qualche bella targa d’argento, forse d’oro, ma quei riconoscimenti
avrebbero avuto il solo effetto di aprire ancora maggiormente la ferita
dentro di me.
Credo sia capitato a tutti di avere delle frasi
che, a volte, vagano nei pensieri inquiete, in apparenza immotivate,
come a voler cercare una precisa collocazione e con essa una ragione di
esistere. Spesso si tratta solo di qualche strano meccanismo della
memoria, privo di senso; a volte è il modo che la nostra coscienza usa
per farsi sentire. In quei giorni nella mia mente vagava una frase
dantesca: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”... Forse
solo oggi capisco che era qualcosa di più di una reminiscenza
scolastica, nostalgia di un tempo in cui ero ancora innocente: se io,
oltre che il dispensatore di morte, ero il Caronte di quelle anime
dannate, cui indicavo dal patibolo la strada verso il Destino, c’era chi
si era macchiato di un crimine peggiore: chi aveva usurpato il potere
di fare in assoluto tutto ciò che si vuole fare.
Capii che
disporre della vita altrui e decidere chi non ne era più degno era solo
l’impronta del reato più antico di questo mondo: l’esercizio abusivo di
un’Autorità da nessuno conferita. Anche chi disponeva della libertà, del
denaro o, in qualche modo subdolo, della felicità altrui, era
ugualmente colpevole, e fu in quei giorni che in me maturarono
definitivamente l’odio verso le istituzioni ed il disprezzo per la mia
codardia, per il mio colpevole silenzio, per l’accettazione supina del
ruolo assegnatomi.
Ma si raccontano tante frottole su come e
perchè cessai la mia attività di boia. Forse non interesserà a nessuno
cosa accadde quel giorno, ma io vorrei provare la soddisfazione di
sapere che almeno qualcuno sa come sono andate davvero le cose. Non temo
la morte, ma sicuramente temo che il modo in cui maturò la mia estrema
ribellione finisca nell’oblio.
Sfatiamo innanzitutto la leggenda
secondo cui quel giorno strani cenni premonitori avrebbero spiegato ai
più quel che stava per accadere. Tutte sciocchezze: non c’era niente di
diverso. Dubitate, quindi, di chi vi racconterà che “quel giorno c’era
qualcosa di strano nell’aria”, o dice d’aver colto qualche lampo strano
nel mio sguardo; anche se, è vero, gravava sul palco e sulla folla la
cappa di piombo di un cielo minaccioso. Temendo la pioggia, avevo
cosparso i miei guanti ed il manico dell’accetta di un’abbondante
razione della consueta pasta, affinchè l’ascia non potesse scivolarmi.
Mi ero presentato sul palco un quarto d’ora prima dell’orario stabilito,
come al solito.
Poi arrivò il condannato. Un ragazzo di neanche
vent’anni, come la mia prima vittima. La mia vita andava a fondersi in
un ciclo ossessivo di orrore e di morte, dove io ormai non ero più il
protagonista, ma solo uno spettatore privilegiato. Mentre la banda del
paese suonava, colsi lo sguardo intelligente e vivace del condannato
poco prima che le guardie provvedessero a bendarlo, mentre salutava la
folla come se niente fosse, per niente spaventato, una folla che si
accendeva e si agitava, attraversata da mille scariche di un’energia
sconosciuta.
Particolari soliti e per certi versi insignificanti
cominciarono ad infastidirmi, mentre generalmente a questo punto
afferravo saldamente l’accetta, cercando di non pensare a nulla, di
concentrarmi. Ma quella volta non mi riusciva. Il rumore della banda mi
infastidiva. Il vociare della folla mi sembrava intollerabile.
Poi, in lontananza, ecco i primi tafferugli tra le forze dell’ordine ed i
manifestanti contro la pena di morte. Guardai la folla: chi derideva il
condannato, chi lo incoraggiava, chi lo malediceva... E a me parevano
tutti uguali, una gigantesca marmellata di persone che ribolliva delle
proprie contraddizioni.
Decisi che quello era il momento giusto.
A dire il vero non so se decidere sia il verbo più indicato,
presupponendo un processo intellettivo cosciente: avevo meditato il mio
“tradimento” da tempo, ma non avevo mai valutato nè come nè quando.
Appoggiata l’ascia di traverso a lato del ceppo, la spezzai sicuro
con un calcio; quindi sfilai i guanti, gettandoli con noncuranza sul
palco; poi scesi le scale fra due ali di folla che si ritraeva stupita
al mio passaggio, nemmeno fossi Mosè davanti al Mar Rosso.
Dovettero rinviare solo di pochi giorni quell’esecuzione: l’Assemblea
Generale non faticò molto a trovare un volontario che mi sostituisse,
alle stesse condizioni economiche. Il Podestà telefonò inviperito per
dirmi che me l’avrebbe fatta pagare cara.
- Considerati già condannato -, berciò. - Brucerai all’inferno assieme alle tue vittime -.
Gli risi in faccia: tutte cose che conoscevo già. Così come sapevo
che la mia condanna o la mia ultima destinazione non erano certo dovute a
determinazioni umane: Qualcuno doveva aver già disposto in tale senso.
Ma trovai piuttosto sterile dare inizio ad una schermaglia filosofica.
La mia decisione di smettere, vista da un esterno, probabilmente
deve sembrare l’affare peggiore di tutta la mia vita: presso quelli che
mi detestavano non acquistai alcun credito, mentre quelli che vedevano
in me un eroe mi bollarono presto come codardo e traditore. Ma continuo a
ritenere che quel giorno presi la decisione migliore: è vero che non
acquistai altra stima che la mia, ma non m’aspettavo nemmeno quella.
Fine terza parte
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