Molti hanno tentato un parallelo fra l'uccisione di Saddam Hussein ed il
processo di Norimberga. Chi l'ha fatto più lucidamente è stato Vittorio
Zucconi, che ha parlato di "grottesco remake". Il parallelo è
fondamentalmente corretto (anche stavolta i vincitori hanno processato i
vinti), pur se con doverosi distinguo, ma se ci si ferma a quello
l'analisi rischia di restare monca e superficiale.
In pochi,
infatti, hanno sottolineato come l'orrore di un'esecuzione capitale
post-conflitto sia il figlio naturale dell'orrore verso il conflitto
stesso, e che in generale la pena di morte ha una parentela stretta con
la guerra, con ogni guerra.
Chi ha approvato l'intervento militare
in Iraq è ipocrita nel prendere ora le distanze dalla pena capitale:
guerra e pena di morte sono per molti versi consequenziali e sicuramente
simili in termini di approccio intellettuale al diritto, perchè sono
gli unici crimini che in certi momenti storici vengono spacciati per
giustizia. E analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per la
tortura, argomento guarda caso tornato all'attualità proprio durante i
mesi del conflitto in Iraq.
Dunque, se "pietà l'è morta", come
recitava una delle più conosciute canzoni sulla Resistenza, non c'è da
sorprendersi: non tutte le vittime dei conflitti hanno una loro
fisicità. Alla lunga lista di vittime di ogni conflitto possiamo
aggiungere infatti la verità, che spesso muore per prima, e la pietà,
che vacilla per qualche tempo, per poi cadere anch'essa.
E' venuto
quindi il momento per dire con forza che al no alla guerra "senza se e
senza ma" è giusto abbinare un'uguale contrarietà, senza distinguo ed
eccezioni, verso la pena di morte e verso la tortura. E a certi
distinguo tipo "la pena di morte è sbagliata, ma in alcuni casi...",
oppure "la tortura è sbagliata, ma in condizioni eccezionali..." bisogna
rispondere semplicemente che non si possono porre condizioni di
accettabilità per queste barbarie.
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