Il mio primo giustiziato lo ricordo bene: un ragazzo di vent’anni,
parricida confesso. La sua storia era di quelle diventate purtroppo
comuni: era un tossicodipendente, e non aveva nessuna voglia di
liberarsi da quel vizio che ti succhia l’anima. I soldi per comprarsi la
droga li aveva spillati per mesi e mesi al padre, che fino ad una
settimana prima dell’omicidio non aveva saputo dirgli di no. Poi, un
giorno, ecco il rifiuto; un gesto più disperato che deciso, privo di
quella forza necessaria all’arte della vera dissuasione. I tentativi del
ragazzo di ottenere le somme consuete continuarono, sempre più
insistenti, arginati solo da quel rifiuto tentennante, nemmeno sostenuto
da qualche accenno minaccioso alle Autorità o alle punizioni possibili e
conseguenti. Per conto mio sarebbe stato cento volte meglio per
entrambi se il padre avesse sbattuto fuori di casa il figlio,
costringendolo ad entrare in una comunità di disintossicazione. Comunque
il resto della storia la si può immaginare…
Quando mi
comunicarono che avrei dovuto eseguire la mia prima condanna restai
attonito, ma una volta saputo di quel ragazzo mi sentii quasi sollevato.
Per un gesto come il suo ero ben convinto ci volesse una punizione
esemplare, anche prima della reintroduzione della pena di morte, e
pensai che l’ascia poteva essere per me un po’ più leggera. Ma quando me
lo portarono davanti piangente la mia sicurezza scomparve. Si dibatteva
ed urlava come un bambino, e come un bambino aveva gli occhi talmente
pieni di lacrime che parevano di gelatina. Non c’era più traccia di un
assassino.
Con grande fatica riuscirono a legargli le mani dietro la
schiena, così non riuscì nemmeno a pulirsi il naso che gli colava. Non
ho mai potuto sapere se con quelle mani volesse semplicemente strapparmi
l’ascia, o afferrare le mie per chiedere pietà. Preferirei credere che
volesse tentare qualche gesto disperato, ammazzarmi magari; così potrei
pensare di aver fatto bene, almeno per autodifesa, a mozzargli la testa
d’un colpo. Ma è inutile mentirmi: voleva solo pietà, ed io non ero
autorizzato a dargli altra pietà se non quella della mia destrezza. Era
la mia prima volta da assassino, ma bastò per farmi capire che il buon
Guillotin ed il Dottor Louis forse avevano sbagliato nelle loro
valutazioni, perchè quella sensazione di qualcosa di sottile e di freddo
che penetra nell’anima forse non la provò la mia vittima, ma io
sicuramente sì.
Dopo l’esecuzione domandai udienza al mio
amico Podestà, chiedendogli di provvedere affinchè ai condannati fossero
bendati gli occhi. Lui mi rispose: - Va bene, chi lo desidera avrà la
benda, proprio come una volta -, ma quel che volevo era diverso. Come
tutte le persone che non hanno nessuna intenzione di spiegare i propri
motivi, mi limitai ad insistere pesantemente, dicendo che, se
l’Assemblea Generale non avesse sancito l’obbligatorietà in ogni caso
della benda, lui poteva anche cercarsi un altro per quel compito. Il mio
amico restò sorpreso dalla mia foga, ma accettò.
L’editto che
sanciva quanto concordato fra me ed il Podestà fu motivato con le
solite, retoriche ragioni di “umanità” verso il condannato. Nessuno
seppe che la pietà di quel gesto era rivolta a me: non avrei più dovuto
vedere gli occhi di un uomo che sa di dover morire. Non avrei più dovuto
vedere rabbia, paura, ribellione; implorazioni silenziose e per questo
ancora più laceranti.
Mi ero reso conto che la morte era
diventata qualcosa di diverso, per me. Se prima poteva essere solo un
concetto che mi affascinava in modo quasi asettico, lasciando le mie
emozioni intatte, ora che io ne ero diventato un dispensatore era
diventata una parte di me, impalpabile, indefinibile ed inseparabile
come la mia ombra. La sola parola morte, anche quando si abusava della
sua religiosità riferendola ad un gatto o ad una pianta, aveva ora un
sapore fraterno e sinistro al tempo stesso. Pronunciata da qualsiasi
bocca aveva l’effetto di una freccia che, scoccata da quelle labbra, mi
apriva una ferita nell’anima, ricordandomi che ora io ero diverso, che
la mia diversità stava in quella ferita, e che quella ferita si chiamava
consapevolezza.
Consapevolezza del destino, mio ed altrui, ed
insieme coscienza del Mistero più profondo e più alto, quello che allo
stesso tempo soffoca e fa venire le vertigini.
Fine seconda parte
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