21 Marzo 2091
Ero
ancora un bambino quando ebbi il mio primo contatto con la morte, e
fino a quel giorno il suo pensiero non m’aveva mai sfiorato. Fu un
contatto che non mi ferì direttamente, è vero, ma sufficiente a farmi
aprire gli occhi su quella realtà per me ancora sconosciuta, nella mia
puerile ingenuità.
Ero
in macchina con mio padre, che procedeva come sempre a bassa velocità,
quando vidi due cani attraversarci la strada. Mio padre li evitò, ma
mentre il cane più grosso riuscì ad arrivare al ciglio opposto, quello
più piccolo, evidentemente meno esperto, non fu evitato dall’automobile
che proveniva nell’altro senso di marcia. Lo vidi rotolare sotto le
ruote, quindi lanciare un lungo guaito mentre arrancava verso il ciglio
stradale con la sola forza delle zampe anteriori, trascinando quelle
posteriori. Aveva la bocca aperta in un modo tremendo: il terrore gliela
faceva spalancare oltre misura.
Vidi
quella povera bestia dal finestrino dell’auto, le zampe ancora frementi
sull’erba, gli occhi sbarrati; ma il particolare che più mi colpì fu la
bocca spalancata in quel guaito interminabile, testimone non solo del
dolore, ma soprattutto della consapevole incombenza della morte che,
fino a pochi istanti prima, sembrava tanto lontana.
- Non guardare -,
disse premuroso mio padre, ma io finsi solamente di obbedire. Pensai
che non sarebbe cambiato niente. Il dolore e la paura sarebbero rimasti:
ormai anch’io ne avevo preso coscienza.
Molto
peggiore fu il secondo contatto con la morte, questa volta diretto e
lacerante. Mio padre morì dopo una lunga pena per un male incurabile. Lo
assistetti nell’ultima notte; respirava a fatica, e anche lui
all’arrivo della morte si presentava con gli occhi aperti, fissi e
vuoti.
Mi
stupiva l’attaccamento del suo corpo alla vita. Ripeto, solo del corpo.
L’anima se n’era già andata dov’era attesa, ma quel grumo di carne teso e
freddo, gli occhi sbarrati, non voleva raggiungerla. Era sbalorditivo
vedere tutta quella disperata forza istintiva in quel povero corpo già
abbandonato dalla scintilla cosciente della vita.
Tremo
ancora oggi se penso a quell’ultimo respiro, quando mio padre strinse i
pugni e, completamente irrigidito, levò il capo dal cuscino. Sembrava
guardarmi, con quegli occhi sbarrati, e dirmi: “Guarda come si muore!...
Ora sai cosa vuol dire...”.
Mi
vien da ridere quando mi parlano della “forza del pensiero”. Non ho mai
conosciuto niente di così debole e soggetto al cambiamento del vento!
La forza rabbiosa di quel corpo negli ultimi respiri, quella sì era
genuina, incommensurabile (pur nella sua inutilità) ed ancora oggi mi
lascia ammirato e stupefatto. Non c’è mai stato un “pensiero” che mi
comunichi una “forza” paragonabile a quel respiro affannoso, che
sembrava sempre più stretto coi denti.
Con
questo non voglio dire che la morte mi spaventasse: non ho mai provato
orrore o paura della Nera Signora; semplicemente mi affascinava il suo
mistero, oscuro e molesto ma seducente. Aggettivi contrastanti, ma
applicabili a tutte le perversioni.
La
proposta d’incarico come boia del paese mi fu avanzata poco dopo
l’approvazione della Legge 115, che ripristinava la pena di morte e
demandava alle singole Assemblee Generali la scelta del metodo di
esecuzione e del personale addetto.
A
me telefonò personalmente il Podestà: un mio amico di vecchia data, di
qualche anno più anziano, che in adolescenza era stato per me come un
fratello maggiore. Il tempo, poi, ci aveva diviso: lui si era presto
gettato in politica; era abile e intelligente e scaltro (il suo lato che
meno amavo e dal quale, pure, mi sentivo maggiormente attratto); io ero
rimasto un inetto disoccupato.
Col
senno di poi devo dire che sulla scelta del metodo di esecuzione
(l’antica decapitazione con accetta) mi soffermai meno di quanto fosse
opportuno; al contrario indugiai molto sui motivi che portarono al mio
nome. Ormai da tempo non mi chiedo più cosa spinse il mio vecchio amico a
scegliere proprio me, ma ricordo che dopo aver accettato la prima
domanda che mi rivolsi fu proprio: “Perchè io?”. Non so se il Podestà
avesse visto in me, già da ragazzi, qualche lato oscuro, o se le notizie
della mia indigenza (ero sposato e con un figlio di pochi mesi)
l’avessero spinto ad offrirmi un lavoro.
Non
ho mai saputo darmi una risposta: di meritarmi oggi di essere definito
“cinico”, nella migliore delle ipotesi, sono perfettamente consapevole,
ma evidentemente questa fama di uomo duro, spietato, che disprezza i
propri simili, dovevo possederla già allora. Mi dispiace: può suonare
falso, ipocrita, e addirittura offensivo, ma non è così che mi sento.
Comunque
accettai. Ero giovane; inesperto e violento come solo un giovane può
essere; eccessivo e dispotico, come solo un giovane può essere. In quei
tempi di criminalità dilagante i giornali ci rovesciavano addosso
cronache di efferatezze di ogni genere, e l’idea di ripristinare la pena
capitale aveva trovato anche il mio consenso, l’ammetto senza vergogna.
E poi ero disoccupato, con una giovane moglie ed un figlio appena nato
cui pensare. Considerai che, in ogni caso, il mio rifiuto non avrebbe
salvato la vita a nessuno… E pensavo che le esecuzioni sarebbero state
rarissime, una ogni dieci anni magari, e già per la prima io avrei
potuto procurarmi una diversa occupazione… Ma le mie sono motivazioni la
cui debolezza mi condanna già, lo so. Probabilmente ero solo un
predestinato: parlare del destino mi sembra una banalità da astrologo,
ma ci sono uomini che sembrano davvero toccati dalla sua mano; chi con
un segno di speranza, chi con un marchio opposto. Io sono fra questi
ultimi.
fine prima parte
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