Sui fatti di domenica si potrebbero scrivere molte riflessioni: sull’uso
delle armi da parte delle forze dell’ordine e sulla trasparenza di
queste; sulla deriva che ha fatto assumere al calcio un’importanza
spropositata, con conseguenti implicazioni sociali e di ordine pubblico.
Ma qualche riflessione interessante può nascere anche solo
ripercorrendo la sequenza temporale delle notizie.
I primi lanci di
agenzia avvengono a mezzogiorno. Sono passate più di due ore dalla morte
di Gabriele Sandri, ma queste notizie parlano di “scontri tra tifosi
con un morto”, non c’è menzione del poliziotto che ha sparato. Nei lanci
successivi la rissa tra tifosi si sgonfia e di pari passo si fa strada
la notizia, sempre ipotetica, che a sparare potrebbe essere stato un
poliziotto: sono circa le 12,30.
Fra le 12,40 e le 13,00 cominciano
le prime ammissioni: prima il questore poi il dirigente della squadra
mobile di Arezzo parlano di “situazione delicata”, e rimandano
dichiarazioni più esplicite. La prima affermazione perentoria circa
l’identità dello sparatore arriva alle 13,31, solo che a farla non sono
fonti delle forze dell’ordine ma tifosi laziali. Da questo momento in
avanti, di fronte all’evidenza, arrivano anche le ammissioni ufficiali,
sempre timide e reticenti.
Alle 18,00 il questore, in conferenza
stampa, parla di due colpi in aria, pur riconoscendo il nesso fra questi
e la morte di Sandri. Alla conferenza stampa è presente il portavoce
della Polizia, Roberto Sgalla, protagonista di un’altrettanto surreale
conferenza stampa sei anni fa. Fu lui, dopo la notte della Diaz, ad
illustrare ai giornalisti le “prove” raccolte alla scuola e a parlare di
ferite pregresse per i ragazzi pestati. Domenica scorsa Sgalla ha
proposto un repertorio leggermente diverso: si limita a troncare
l’incontro con la stampa, e nega ai giornalisti di fare domande,
costringendoli ad accontentarsi della laconica (ed errata) ricostruzione
del questore. La “notte cilena” di sei anni fa ha forse insegnato a
Sgalla l’arte di limitare le dichiarazioni, non certo la dote della
trasparenza.
Perché il punto in fondo è tutto qui. Coloro che in
queste ore tuonano contro i “detrattori delle forze dell’ordine” fingono
di non capire che, per recuperare il rapporto di fiducia fra cittadini
ed operatori di polizia, si deve prioritariamente invertire una
tendenza: i fatti di sangue che vedono come protagonisti degli agenti
non devono essere coperti da una cortina fumogena. La trasparenza non
deve solo essere promessa, la si deve assicurare concretamente e
nell’immediato: prometterla vagamente, come ha fatto il capo della
polizia Antonio Manganelli a 12 ore di distanza dalla morte di Sandri,
non è solo insufficiente, ma pure una rinnovata reticenza.
Molti
hanno accostato la morte del giovane tifoso laziale a quella di Carlo
Giuliani o di Federico Aldrovandi, io voglio andare più lontano, a più
di trent’anni fa. Quando Roberto Franceschi viene raggiunto da un
proiettile sparato da un agente la sera del 23 gennaio 1973, dopo alcuni
disordini a seguito di un’assemblea del movimento studentesco a Milano.
Ricoverato in condizioni disperate, si spegne pochi giorni dopo. Le
sentenze non appureranno l’identità del colpevole, ma indicheranno con
certezza la responsabilità della polizia.
Lydia, madre di Roberto,
ricorda ancora d’aver apprezzato l’atteggiamento di alcuni agenti che
qualche tempo dopo le dimostrarono sincera indignazione per quanto
successo, atteggiamento ben distante dall’acritica difesa corporativa
cui assistiamo oggi. Alcuni di questi, il 23 gennaio 1983 deposero sul
monumento una corona con la scritta: "A Roberto Franceschi i poliziotti
democratici”.
La presa di coscienza di quei poliziotti è quello che
davvero manca oggi, tanti anni dopo, la loro voce è l’assenza più
pesante di queste ore. Un silenzio che ci parla di un passo indietro di
decenni compiuto dalle nostre forze dell’ordine in materia di rispetto
dei diritti individuali e di consapevolezza del proprio ruolo. Un passo
indietro su un percorso sempre più scivoloso, che nessuno sembra saper
arrestare.
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