Ecco l’articolo completo, pubblicato oggi in versione sintetica su popoffquotidiano.it col titolo “Grillo e Petacco alla ricerca del Mussolini buono”
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In questi giorni ha fatto discreto rumore un articolo apparso sul blog di Beppe Grillo, in cui in sostanza si afferma l’estraneità di Mussolini al delitto Matteotti. Si tratta di un’intervista ad Arrigo Petacco, disponibile qui:
All’articolo, per quanto mi risulta, sono seguite critiche sacrosante quanto vaghe. Sacrosante perché si pensava che il revisionismo storico non arrivasse a tanto; vaghe perché nessuno – a quanto ho potuto leggere – si è preso la briga di rispondere puntualmente alle numerose inesattezze contenute nell’intervista.
E’ vero, si tratta di un fatto molto datato (l’omicidio avvenne il 10 giugno 1924), ma di cui è necessario mantenere una corretta memoria, trattandosi di un momento fondamentale nella storia d’Italia per diversi motivi:
- Non credo esistano molti casi, in Italia o altrove, in cui il capo dell’opposizione parlamentare (o almeno il leader più combattivo dell’opposizione) sia stato eliminato da sicari riconducibili, al di là di responsabilità specifiche di Mussolini che poi affronteremo, direttamente al presidente del consiglio e ad alti dirigenti del suo stesso partito.
- Il caso Matteotti è stato l’unico episodio a seguito del quale, per almeno 6 mesi, il governo fascista vacillò seriamente. Sembrò persino che il regime potesse crollare… L'opposizione scelse di lasciare il Parlamento, con la cosiddetta secessione dell'Aventino. I liberali confidavano in una mossa del Re che non arrivò. I cattolici erano ostili ai fascisti ma diffidenti verso socialisti e comunisti. La scelta dell’Aventino si rivelò sterile e il midollo marcio di questo Paese fece il resto… Successivamente, dopo la svolta dittatoriale che trova origine nel celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 e concretizzazione nelle seguenti e cosiddette “leggi fascistissime”, il regime si mantenne saldo fino ai tragici fatti della seconda guerra mondiale e alla sua conseguente caduta (che qui non dettaglieremo).
Dunque, avviso tutti e tutte che questo articolo sarà lungo e risentirà, comunque, di molta sintesi: abbandoni la lettura fin d’ora chi vorrebbe vedere una replica a Petacco (e Grillo) sotto la forma di un arguto tweet…
Qualche dato per iniziare
- Il fascismo, arrivato in parlamento per la prima volta con le elezioni del 1921, giunse al potere a seguito della marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Su questo episodio va sottolineato che le squadre fasciste non avrebbero avuto possibilità di sconfiggere una reale opposizione da parte dell’esercito, qualora fosse stata disposta. La vera forza del fascismo, in questa come in altre occasioni, fu determinata dagli appoggi politici ed economici di cui già disponeva: gran parte del mondo imprenditoriale e finanziario e pure dell’esercito guardavano con favore al movimento fascista. Obbiettivo di Mussolini era causare la caduta del governo, in quel momento presieduto da Luigi Facta, proponendosi al sovrano quale unica possibile soluzione della crisi. Dopo che Antonio Salandra, la mattina del 29 ottobre 1922, rinunciò all’incarico di primo ministro, il Re disse a De Vecchi (un quadrumviro, ossia fra i capi operativi della marcia) di informare Mussolini, in quel momento ancora a Milano, che avrebbe avuto l’incarico di formare il nuovo esecutivo: in questa fase fu un governo di coalizione, sostenuto anche da esponenti di altre aree politiche.
- Per fare chiarezza sulle principali formazioni di sinistra di quegli anni: il Partito Comunista Italiano sorse nel 1921 a Livorno per “scissione di sinistra” del Partito Socialista; un anno dopo, nell’ottobre 1922, da una nuova frattura nacque il Partito Socialista Unitario a cui aderirono fra gli altri Filippo Turati e Matteotti, che venne nominato segretario. Matteotti, arrivato in Parlamento la prima volta nel 1919 e rieletto nel 1921, nel 1924 era dunque al suo terzo mandato.
- Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si svolsero secondo la cosiddetta "legge Acerbo" (legge 18 novembre 1923 n. 2444), fortemente voluta da Mussolini stesso. In base a tale normativa, se una lista avesse ottenuto la maggioranza relativa raggiungendo almeno il 25% dei consensi si vedeva assegnati i 2/3 dei seggi. I rimanenti venivano attribuiti alle altre liste in proporzione ai voti ottenuti. Nella lista nazionale, oltre al partito fascista, confluirono esponenti liberali e popolari filofascisti. Si trattava di un cartello elettorale a forte prevalenza fascista (è infatti noto anche come listone Mussolini) ideato per blindare, unitamente alla legge Acerbo, il responso delle urne a favore del fascismo. Il risultato elettorale, al di là delle denuncie di violenze e intimidazioni, fu schiacciante. La lista nazionale ottenne più del 60% dei suffragi, staccando pesantemente il partito popolare fermo al 9%. Il neonato partito socialista unitario di Matteotti si fermò al 5,90%.
- Con un celebre intervento alla Camera, il 30 maggio 1924, Matteotti denunciò il clima di violenze e intimidazioni in cui si erano svolte le elezioni, chiedendone in sostanza l’annullamento. Il 10 giugno successivo fu rapito e ucciso.
L’omicidio e la “Ceka fascista”
La squadra era composta da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. In realtà su numero e composizione del commando ci sono versioni contrastanti. Altri soggetti furono fermati nell’immediatezza del fatto, risultando però estranei all’azione, perlomeno nelle fasi esecutive di rapimento e omicidio. Interessante, fra gli altri, è la figura di Otto Thierschwald: detenuto fino a pochi giorni prima del delitto, fu rilasciato ed ebbe da Dumini l’incarico di pedinare Matteotti e di studiarne comportamenti e orari, a dimostrazione dell’attenta premeditazione.
Ma Dumini poteva disporre in autonomia di decisioni operative gravi come l’aggressione al principale esponente dell’opposizione? Questa domanda ci porta alla cosiddetta “Ceka fascista”.
Ceka è la sigla con cui era nota la polizia segreta sovietica. Sembra che Mussolini abbia usato, almeno informalmente, lo stesso nome per identificare questo nucleo segreto che doveva garantirgli, con azioni coperte, il mantenimento del potere appena conquistato. Obbiettivo del duce era con ogni probabilità incanalare e gestire in modo più sottile lo squadrismo, ponendolo sotto suo completo e diretto controllo. La Ceka, di cui Mussolini negò l’esistenza nel celebre discorso del 3 gennaio 1925, era già operativa prima del delitto Matteotti.
Secondo alcune fonti Mussolini sollecitò direttamente l’intervento della banda Dumini per “punire” il segretario socialista: l’affermazione è presente sul sito del ministero dell’interno nella sua scheda sul dopoguerra “La storia - Il primo dopoguerra e il pericolo fascista”, paragrafo “Dalla CEKA fascista all'OVRA”, ma in forma vaga: “Si dice che Mussolini, profondamente irritato dal discorso di Matteotti alla Camera, esclamasse: Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell'uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare... ". Sempre qui si sostiene che “la Ceka fascista non fu, comunque, una struttura sofisticata e professionale ma poco più che una squadraccia di bravi di regime, che si resero protagonisti di violenze di basso livello, fino ad incappare per eccesso di zelo, approssimazione e gratuita brutalità ‘nell'incidente Matteotti’, che rischiò di travolgere Mussolini”.
Per ulteriori approfondimenti segnalo “La polizia del duce al servizio del crimine”, articolo di Silvio Bertoldi sul Corriere della Sera del 25 luglio 1994: anche qui viene riportata come certa la frase del duce, che in altre fonti viene riferita a un colloquio avvenuto fra Mussolini e Giovanni Marinelli. Quest’ultimo, segretario amministrativo del partito e depositario dei fondi, sarebbe stato il referente diretto della Ceka, assieme a Cesare Rossi (capo ufficio stampa della presidenza del consiglio).
Sottoposti a interrogatori dopo il delitto, di questa polizia clandestina parlarono esplicitamente Filippo Filippelli (direttore del Corriere Italiano: procurò la Lancia Lambda usata per il sequestro) e Aldo Finzi (sottosegretario agli Interni e vice capo della Polizia).
Da citare è pure una lettera che Emilio De Bono (ex quadrumviro e all’epoca capo della polizia) inviò a Italo Balbo e altri camerati il 24 giugno 1924, citata in “Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino” di Giuseppe Rossini (Società Editrice Il Mulino, 1966). Il tono accorato della lettera, confidenziale e destinata a restare riservata, e la sua datazione (precedente le accuse per il delitto che investiranno pure De Bono) rendono il documento molto interessante.
“Dumini io lo volevo perseguire fin da quando fece, o meglio tentò, la vendita di armi alla Jugoslavia. Subito dopo le elezioni … dissi a Mussolini: dì a Rossi che mandi fuori dai coglioni Dumini. Anche per Volpi dissi cento volte di farlo arrestare … ma non vi riuscii mai”. Al di là dell’intento chiaramente autoassolutorio, sono parole chiarissime: il capo della polizia lamenta di non poter perseguire due delinquenti a causa dell’altissimo livello di protezione politica di cui godono.
In un passaggio successivo De Bono si difende dall’accusa di non aver fatto arrestare subito Rossi: “Non potevo arrestarlo, perché non dovevo dimenticare che egli dipendeva direttamente dal presidente del consiglio, che sapeva tutto e che avrebbe saputo darmene l’ordine…”. Tanto perché sia chiaro chi comandava e quali erano le reali gerarchie sotto il regime…
Ancora più interessante è la versione che De Bono fornisce di un incontro del 12 giugno 1924 (due giorni dopo l’omicidio): “Rossi disse: se arrestate Dumini, Volpi e compagni … quelli parleranno e diranno che hanno avuto l’incarico da noi di far fuori Matteotti … Rossi proseguì: c’era l’assenso, anzi l’ordine del presidente … Marinelli soggiunse: … quando andai dal presidente al quale prospettai la formazione di una specie di Ceka … e gli feci il nome di Dumini come capo, il presidente assentì”. Non credo serva aggiungere altro…
La coscienza di Mussolini è sicuramente sporca del sangue di Matteotti (e di altri…). Che l’omicidio sia stato commesso su suo ordine esplicito è meno certo e le ricostruzioni variano da precise ammissioni preventive (l’ipotesi del Duce che si rivolge a Marinelli o ad altri sollecitando l’intervento della banda Dumini) a ipotesi più sfumate. Questo ci porta ad altri scenari…
La questione Sinclair Oil
Il discorso con cui Matteotti contestò il risultato elettorale per anni è stato ritenuto l’unico elemento che causò la sua eliminazione. In realtà a questo ne vanno aggiunti altri la cui importanza è andata affermandosi fra gli studiosi del delitto, a partire dalla conoscenza da parte del segretario socialista di illeciti finanziari riguardanti gerarchi fascisti e forse esponenti di casa Savoia.
Nell’aprile 1924 il governo aveva stipulato un accordo con la compagnia americana Sinclair Oil, accordandole il monopolio delle ricerche petrolifere in Italia. Dietro l’accordo ci sarebbero stati, secondo il segretario del PSU, tangenti a favore del partito fascista.
Matteotti aveva accennato all’accordo stretto fra il governo e la compagnia americana in un suo articolo apparso postumo nel luglio 1924 su English Life (“Machiavelli, Mussolini and fascism”), riportato su varie fonti (si veda ad esempio treccani.it, voce su Giacomo Matteotti). L’articolo dimostra l’intenzione del parlamentare di allargare la propria critica al governo, non limitandosi alla sola polemica sulle elezioni. E’ anzi accertato che, nei giorni precedenti il suo omicidio, stava preparando un nuovo intervento alla Camera, imperniato proprio su questo scandalo politico-affaristico: era previsto per i giorni successivi il 10 giugno, forse già per il giorno dopo. Peraltro, sempre in quell’articolo postumo, Matteotti alludeva pure ad altri illeciti: “Ancora più funesto è il comportamento di molti capi fascisti di spicco che conducono una stringente opera di grassazione su società private e semipubbliche con lo scopo di finanziare i giornali fascisti e altre organizzazioni a proprio totale interesse e profitto”. Secondo questa ricostruzione, è plausibile che Matteotti non sia stato “punito” per quel che aveva detto, ma fatto tacere per quanto poteva dire…
A tanti anni di distanza dagli eventi, interrogarsi sul movente dell’omicidio può essere meno interessante di quanto possa sembrare: l’eliminazione di Matteotti può essere stata frutto, più che di un unico movente, di più fattori concomitanti e di più mandanti, tutti vicini all’allora presidente del consiglio. E molti, fra questi, avevano motivo di temere le rivelazioni che Matteotti poteva fare sugli “scandali politici affaristici”.
Se i confini penali del delitto possono essere ancora parzialmente vaghi, sicuramente non è vago il contesto in cui gli assassini poterono prima agire e poi godere di ampie protezioni. E forse far passare l’assassinio come una semplice vendetta di “squadristi incattiviti” dalle “provocazioni” di Matteotti fu persino una buona scusa per il fascismo, che riuscì così a occultare moventi più complessi e persino più compromettenti.
Alcune affermazioni di Petacco
PETACCO (DALLA SUA INTERVISTA APPARSA SUL BLOG DI GRILLO):
… alla fine uno dei 4 con una mano trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide. … voi pensate che, 10 giorni prima che aveva stravinto le elezioni politiche, il capo del governo, non ancora dittatore, per fare uccidere il capo dell’opposizione manda 4 manigoldi con una lima arrugginita?
La tesi della spedizione punitiva fatta da quattro scalmanati con qualche bastonata, finita in tragedia per pura fatalità, non è nuova. Non si offenda Petacco se sottolineo che, in fondo, è la tesi difensiva che l’avvocato difensore di Dumini propose al processo di Chieti. E, guarda caso, il ruolo di difensore di Dumini a quel processo fu assunto da Farinacci mentre era segretario del partito fascista, a dimostrazione dell’attenzione che il regime rivolse ai carnefici e non alla vittima, semmai ce ne fosse bisogno.
Secondo la perizia medico-legale Matteotti fu ucciso “con uno o più colpi di arma da taglio inferti nella parte superiore del torace”. Presumibilmente a sferrare i colpi mortali fu Volpi.
Prima di disfarsi del cadavere, seppellito sommariamente in un boscaglia nei pressi di Roma, gli assassini gettarono sul cadavere la lima arrugginita a cui fa riferimento Petacco: un pezzo di ferro che, malgrado le perizie, per anni sarà ritenuto – sbagliando – l’arma del delitto, mentre in realtà servì, assieme ad altri attrezzi, a scavare quella fossa improvvisata.
DOMANDA BLOG GRILLO:
- Nel libro “La storia ci ha mentito” lei fa riferimento a testimonianze di Edda Ciano, figlia di Mussolini, che farebbero pensare alla volontà del Duce di un riavvicinamento al Partito socialista di allora per un governo di pacificazione nazionale, è una tesi plausibile?
RISPOSTA PETACCO:
- Non c’è dubbio, ma anche lo stesso De Felice lo riconosce, solo che c’è stata tutta questa retorica antifascista che ha confuso le idee a tutti, Mussolini in quel periodo lì voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti.
E sono i due estremisti che cercavano di staccare Mussolini dalla sinistra, a destra avevano paura che Mussolini aprisse ai socialisti e gli estremisti fascisti avevano la stessa paura, quindi ci fu praticamente una specie di accordo virtuale tra gli estremisti di destra e di sinistra per impedire l’incontro tra socialisti e fascisti moderati. … questo cadavere servì moltissimo a alla destra reazionaria, quella per intenderci di Farinacci e altri che voleva impedire i Mussolini di avvicinarsi a socialisti, tanto è vero che dopo poco nacque la dittatura.
La questione è molto più complessa. E’ sicuramente vero che Matteotti, quale segretario del PSU, a quell’epoca doveva tenere a bada spinte collaborazioniste fra i suoi deputati e il fascismo. La cosa oggi può apparire paradossale, ma molte fonti accennano a queste tensioni interne e alla fermezza usata da Matteotti verso i “collaborazionisti”. Anche il noto film “Il delitto Matteotti” del 1973 (realizzato in periodi non certo revisionisti, assai duro col fascismo e peraltro coerente con la convinzione di allora che il delitto fosse dovuto esclusivamente alla reazione dopo l’intervento alla camera del 30 maggio) accenna al fatto, seppure in una sola battuta: quando Turati si sta complimentando dopo il suo discorso, Matteotti risponde: “Voi guardavate i fascisti, io guardavo qualche nostro compagno: credete che abbia convinto anche loro a non calarsi le braghe davanti a Mussolini?”.
E’ dunque pacifico che Matteotti il 30 maggio 1924, oltre che opporsi al governo, volesse lanciare un monito verso “l’ala morbida” del suo partito. E non occorre essere revisionisti per riconoscere che Mussolini a sua volta doveva tenere a freno l’ala più estremista del suo partito (Farinacci in testa, ma non solo). Sempre nel già citato film viene rappresentato con efficacia il serrato confronto avvenuto a fine dicembre 1924 fra il duce e alcuni “consoli”, che addirittura contestano la sua autorità e gli chiedono una “prova di forza”. Qui si crea, perlomeno sul piano della “retorica del linguaggio” un curioso parallelismo fra i due celebri interventi parlamentari dei protagonisti: pure il discorso del 3 gennaio di Mussolini, più che rivolto alle opposizioni, è una “concessione di credito” di Mussolini alla frazione più violenta del fascismo.
In ogni caso, il 3 gennaio 1925 fu uno spartiacque nella storia del ventennio. Dopo la marcia su Roma e dopo aver presieduto un governo di coalizione, Mussolini aveva pianificato con scrupolo la piena presa del potere con le elezioni del 1924. Come già accennato, al netto della sacrosanta denuncia di Matteotti sul clima in cui si svolse la tornata elettorale, il consenso di cui godeva il fascismo era ampio, ma forme di resistenza e manifestazioni di dissenso organizzato erano ancora possibili.
I sei mesi successivi all’omicidio del segretario socialista furono, per il regime, i peggiori durante tutta la tragica esperienza che il ventennio ha rappresentato per l’Italia. Il ceto medio, a suo tempo schieratosi a favore del fascismo favorendone l’ascesa, durante quei mesi oscillò tra sincera indignazione morale e più ipocriti dubbi di opportunità. Anche giornali non schierati a sinistra, come il Corriere della Sera, furono molto critici verso il governo.
Il matrimonio tra il fascismo e le altre strutture di potere (più o meno palesi: mondo imprenditoriale, gerarchie ecclesiastiche, monarchia) merita altre e diverse considerazioni. Come ogni matrimonio d’interesse non vacillò certo per tensioni etiche e si rinsaldò presto. Proprio quando Mussolini ebbe la certezza di aver ricucito questi rapporti, tenne il celebre discorso del 3 gennaio, a cui fecero seguito quelle “norme eccezionali” (le cosiddette legge fascistissime) che trasformarono un regime già illiberale in una feroce dittatura. A tale proposito non si può non menzionare l’atteggiamento di casa Savoia: spesso accusata di semplice ignavia, il ruolo della monarchia fu qualcosa di diverso, non solo sul piano della semplice responsabilità morale.
Una postilla personale…
Nell’ultimo articolo sul mio blog (“Parlando di Lucca, di fumetti, del nostro passato e di ciò che ci aspetta…”) raccontavo di avere incontrato Guido Ostanel di BeccoGiallo, con cui ho lavorato e lavorerò. Spiegavo di aver parlato con lui di “un progetto futuro che non voglio anticipare, per scaramanzia e per correttezza nei confronti dell’editore”. Raccontavo anche dei dubbi sull’interesse che i lettori più giovani dimostrano verso tematiche cronologicamente datate, e che comunque “quel progetto” avrebbe visto la luce nel 2015. Non occorre particolare acume per capire, ora, di cosa si trattasse: i casi della vita, e soprattutto la stupefacente (per me) intervista di Petacco sul blog di Grillo, mi hanno costretto ad uscire allo scoperto…
Francesco “baro” Barilli
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