Lunedì sera, 7 maggio, è morto Stefano Tassinari.
Avevo parlato dei suoi romanzi. Lui ne era stato contento, mi scrisse ringraziandomi…
Anni prima lo avevo intervistato. Una lunga chiacchierata che partiva dal suo “I segni sulla pelle” e affrontava in generale i fatti di Genova del luglio 2001.
L’articolo completo lo potete leggere qui (contiene anche una mia lunga premessa e un’intervista ad Haidi Giuliani). Riporto di seguito, integralmente, l’intervista a Stefano, realizzata a Bologna il 27 ottobre 2004.
Ciao Stefano. Le (purtroppo poche…) volte in cui ti ho visto sono state per me “speciali”. Sei stato un bell’esempio: di vita, di capacità di analisi, di onestà intellettuale, di “vera militanza attiva”. E oggi non trovo parole adatte per ricordarti o per dirti quanto mi mancherai…
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Bologna, 27 ottobre 2004 – intervista con Stefano Tassinari
F.B.:
Una domanda banale e scontata, ma fondamentale: come ti è nata l’idea di scrivere questo libro?
STEFANO TASSINARI:
L’idea di scrivere qualcosa su Genova mi è nata praticamente subito, alla fine della terza giornata, prima ancora dell’irruzione alla Diaz. Ero nei pressi della stazione ferroviaria di Quarto, raggiunta insieme a migliaia di fuggitivi, dopo ore di cariche e di lacrimogeni. Mi dissi che su tutti quegli episodi andava fatta una ricostruzione che non fosse “solo” quella della controinformazione (senza nulla togliere ai meriti che ha avuto la controinformazione, per quei giorni), ma anche qualcosa di diverso. Io tra l’altro vengo da un’esperienza di letteratura civile, ed ho sempre ritenuto importante che gli scrittori si rapportino con la realtà in cui vivono, calando la propria opera nella società contemporanea. E già in quel momento sentivo che i giorni di Genova sarebbero diventati, in negativo, un momento centrale della storia di questo Paese. Durante quella giornata avevo poi ricevuto molte telefonate preoccupate di amici scrittori, che sapevano della mia presenza a Genova; erano preoccupati sia per la mia incolumità, sia per le notizie drammatiche che sentivano dai notiziari. Parlo di Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Marco Lodoli, Simona Vinci e altri ancora. Anche parlando con loro emergeva l’esigenza di scrivere, di lasciare una traccia su quel che stava accadendo in quei frangenti. Cosa che poi è stata effettivamente fatta da alcuni: penso a Massimo, che nel suo romanzo “Il maestro di nodi” ha inserito un capitolo su Genova; ma anche altri, che non fanno parte del gruppo di scrittori con cui parlai nell’immediatezza, hanno scritto pagine molto interessanti su Genova.
Insomma, l’idea mi è nata subito, ma si è concretizzata solo dopo alcuni mesi. Ero a Pisa, alla libreria “Tra le righe”, per la presentazione del mio precedente romanzo, “L’ora del ritorno”. Quella sera parlai con Laura Baldini, la proprietaria della libreria, una cara amica che era stata anche una delle tante vittime di Genova (probabilmente l’hai vista ritratta in una foto che la mostra ferita e sanguinante al capo)… Mi chiese cosa avessi in mente di scrivere, dopo quel romanzo, e le risposi che pensavo proprio ad un romanzo su Genova. Le confidai che volevo scrivere un storia che avesse come protagonista una ragazza giovane; una ragazza che non aveva mai visto personalmente un morto per “fatti di piazza”, ma anzi fosse nata proprio negli anni in cui erano morti gli ultimi ragazzi durante manifestazioni, per mano delle forze dell’ordine o dei fascisti (penso a Walter Rossi, Giorgiana Masi, Francesco Lorusso). Mi interessava un discorso generazionale: la mia generazione aveva vissuto il periodo delle “leggi speciali”, durante il quale gli scontri di piazza dovevi, purtroppo, metterli in preventivo… Ma che cosa significava Genova per una ragazza di 25 anni, andata a Genova senza aspettarsi minimamente quel clima, mai conosciuto precedentemente?
Confidai a Laura tutti questi pensieri, ma le dissi che sulla trama vera e propria non avevo ancora le idee chiare: stavo cercando vicende “secondarie” di Genova, fatti oscuri, vicende ancora avvolte nell’indefinito. Fu lei a dirmi “perché non scrivi qualcosa sull’ipotetica seconda vittima degli scontri del venerdì? Si tratta di una voce circolata moltissimo, in quei giorni, ma poi è stata messa a tacere…”.
F.B.:
Tu conoscevi già questa storia?
S.T.:
Sì, ne avevo sentito parlare, ma ti confesso che la reputavo una leggenda metropolitana. Fu Laura ad insistere; mi disse che se ne erano interessati alcuni avvocati, che diverse voci convergevano in quella direzione. Mi convinse che dietro quelle voci potevano trovarsi elementi reali, o comunque emblematici del clima di quelle giornate.
Quindi sono tornato a Genova, ed ho cominciato a raccogliere diverse testimonianze, sia fra avvocati, sia fra ragazzi del Movimento. Poi (per la costruzione del profilo della protagonista) decisi di intervistare ragazze della stessa età che avevo ipotizzato per Caterina, che avessero fatto le croniste durante il G8 per Radio Capital, Città del Capo, Radio Gap eccetera. Parlando con una di queste ragazze venne fuori il discorso della prima telefonata che cito nel libro, quella in cui un ragazzo dice: “non sono di Genova, non so come si chiami la strada in cui mi trovo, ma sono vicino a Via Tolemaide. Ho visto una ragazza caricata su un’ambulanza. Non mi sembrava dare segni di vita…”.
Abbiamo cercato le registrazioni di tutte le telefonate arrivate a queste radio il 20 luglio. La ragazza ricordava nitidamente di aver ricevuto una telefonata allarmante, che parlava di una possibile vittima, ma nella concitazione di quella giornata la cosa era finita poi nel dimenticatoio (tieni conto poi che la morte di Carlo e tutti i fatti successivi deviarono l’attenzione da quella “voce” che non trovava conferme). Successivamente alcuni avvocati genovesi mi parlarono della testimonianza di un’infermiera dell’ospedale Galliera, che ricordava una richiesta di intervento di un’ambulanza con un “codice rosso” (quindi per un intervento molto grave ed urgentissimo) dalla zona di via Invrea, proprio all’ora della telefonata a radio Gap (si tratta delle 17,00 circa, quindi PRIMA della morte di Carlo)… Tu nell’articolo proponi, giustamente, dei dubbi sulla collocazione precisa del fatto, avanzando l’ipotesi che questo (ferma restando la sua natura ipotetica) sia avvenuto nei pressi di Via Montevideo; io posso dirti che le testimonianze che ho raccolto convergevano invece sulla zona di Via Invrea. Anche Giulietto Chiesa nel suo libro (“G8/Genova” – Einaudi) parla di un episodio molto simile a quello ipotizzato nel mio libro, e lo fa citando la stessa fascia oraria e la stessa zona. Quella di Giulietto Chiesa, pur nella sua brevità, è una testimonianza fondamentale; dice semplicemente: “Vedo una ragazza urtata violentemente da un furgone, che cade a terra svenuta. Due giovani la sollevano e la portano lontano. Viva? Morta? L’angoscia cresce”. Non aggiunge altro perché questo è tutto ciò che vede, ma le coincidenze sono inquietanti… Stessa fascia oraria della prima telefonata a Radio Gap, stessa zona…
Comunque, ti dicevo, dopo tutte queste ricerche ho deciso di puntare su questa vicenda per il romanzo su Genova. Mi rendevo conto di avere in mano delle telefonate anonime (quindi con tutti i limiti di affidabilità e credibilità che bisogna riconoscere), ma che convergevano nella stessa direzione. La telefonata dall’ospedale militare, poi, per molti versi definiva i termini della vicenda e la rendeva ancora più credibile. Si tratta anche in questo caso di una testimonianza anonima e brevissima; questa telefonata, a differenza della prima non l’ho ascoltata personalmente, ma l’ho rintracciata attraverso le mie interviste (raccolte però in tempi diversi e con persone che raccontavano la propria esperienza senza essersi parlate fra loro). E’ una telefonata brevissima (alle 19,20 circa sempre di venerdì 20 luglio) in cui la voce di un uomo adulto dice, semplicemente e con grande freddezza, “c’è una ragazza morta qui all’ospedale militare…”. E’ una testimonianza, dicevo, che contribuisce a spostare ancora di più la vicenda dall’ipotetico al verosimile, la rende più definita: ti ricordo che la voce di una seconda vittima cominciò a circolare con insistenza nel tardo pomeriggio del 20 luglio, tanto che giornali e televisioni mandarono i propri inviati a cercare conferme nei vari ospedali di Genova, ottenendo sempre risposte che smentivano con sicurezza l’esistenza di una ragazza arrivata morta all’ospedale o ricoverata in condizioni disperate… Ma nessuno aveva pensato all’ospedale militare.
A questo punto mi sono trovato effettivamente di fronte ad una cosa che mi sembrava enorme ed ho cominciato a lavorarci sopra. So che le telefonate anonime hanno forti limiti. La notizia di una seconda vittima poteva anche essere stata messa in giro “ad arte” da qualcuno dei Servizi, per mille motivi (visto che in quelle giornate circolarono diverse voci “strane” e poi rivelatesi infondate), ma su questa ragazza investita le voci erano molteplici, con riscontri in termini di orari e di collocazione…
F.B.:
Come arrivi ad ipotizzare che quella ragazza fosse un’infiltrata?
S.T.:
Le voci che avevo raccolto mi portarono a dire che se il fatto era successo davvero la vittima non poteva essere una ragazza del movimento (in questo caso i suoi compagni o la famiglia avrebbero chiesto notizie, la cosa non poteva certo passare sotto silenzio), ma un’infiltrata, e che la cosa era stata messa a tacere di conseguenza, per i motivi che anche tu sintetizzi nell’articolo. Di infiltrati ce n’erano, in quei giorni, questo te lo posso assicurare (e magari su un episodio “curioso”, che ho vissuto personalmente, ci soffermeremo dopo…), di tutte le nazionalità, e di sicuro ce n’erano parecchi nei gruppi baschi.
E’ chiaro che a questo punto il mio lavoro di ricerca si intreccia inevitabilmente con le esigenze narrative: mi trovavo a dover spiegare il modo in cui si insabbia la morte della giovane, e qui ho lavorato di fantasia: l’incidente “inventato” in Andalusia, in cui si finge che la ragazza sia rimasta uccisa, è pura invenzione narrativa. Mi sono detto che, per insabbiare la fine della ragazza, qualcuno doveva aver inscenato una sua morte “diversa” e non collegabile a Genova, pagando poi il silenzio della famiglia eccetera…
Ma del resto il vero obbiettivo del mio romanzo non era una controinchiesta. Da un lato volevo fare emergere questa vicenda oscura, in modo che se qualcuno (a cominciare dalla Magistratura) avesse voluto approfondirla con inchieste più puntuali avrebbe potuto farlo. D’altra parte mi serviva una storia da usare a livello simbolico, che rendesse il clima di quei giorni, le molte vicende mai chiarite, comprese quelle che, alla fine del romanzo, faccio raccontare ai ragazzi che si ritrovano; quelle di cui avete parlato anche tu ed Haidi: il cadavere di Chiavari (seppellito senza un’identità), l’inglese recuperato a Levanto…
Il senso del romanzo era raccontare questa generazione che si affaccia alla politica, forse con un po’ di ingenuità, ma con passione ed entusiasmo, e che vive questa violenza inaudita ed inaspettata. Ho aggiunto anche la storia d’amore fra Caterina ed Alessandro e l’ho fatta nascere proprio qui a Bologna… Perché del resto, in un certo senso, il Movimento stesso rinasce proprio in questa città un anno prima del G8 genovese, durante il “NO OCSE”, quando la gente ricomincia ad andare in piazza dopo tanti anni… Il mio obbiettivo era usare la letteratura per fare riflettere le persone (anche e soprattutto quelle che a Genova non c’erano) su tutte le violazioni della legalità che sono state commesse, sul clima oscuro di quei momenti.
Io credo che una lettura attenta di quei giorni potrebbe portare a riflessioni politiche molto interessanti, in gran parte ancora non maturate. Mi è capitato di riflettere sulle divisioni politiche che hanno attraversato l’Europa, in occasione della preparazione della guerra in Iraq. Se ci pensi, i Paesi che si allineano con l’America di Bush sono gli stessi che sulla repressione a Genova si schierano per la linea dura: Italia, Spagna, Inghilterra. Molti Paesi europei hanno avuto loro cittadini feriti e traumatizzati dalle violenze poliziesche a Genova; la Germania e la Francia (che poi sull’Iraq si schiereranno contro gli USA) avanzarono forti proteste contro il governo Berlusconi per il trattamento riservato ai propri cittadini (e l’atteggiamento della Francia, in teoria alleato politico della destra di Berlusconi, sorprese non poco). Inghilterra e Spagna non avanzarono nessuna protesta per quanto successo ai propri cittadini nel luglio 2001… Sembra quasi che proprio in quel vertice si siano delineate delle strategie internazionali che avrebbero sotteso la politica degli anni successivi, delineando le alleanze e le conseguenze non solo in tema di politica estera, ma pure in tema di repressione del dissenso. E la teorizzazione della “guerra preventiva” ha molto a che vedere con la repressione dura del Movimento.
F.B.:
Prima hai accennato a voci e notizie “fuori controllo”: ricordo distintamente che dalle 16,00 circa del 20 luglio circola insistentemente anche la voce, rivelatasi poi totalmente falsa, di un carabiniere morto o gravissimo. Ne parla anche Marco Poggi nel suo libro “Io, l’infame di Bolzaneto” (“…fra di noi, si sparse la notizia che un carabiniere fosse stato ferito. Questo ci turbò molto, anche perché la notizia ebbe un seguito all’interno del nostro ambiente. … Qualche ora più tardi eravamo al lavoro, a Bolzaneto. Incrociai un maresciallo dei carabinieri e chiesi notizie del carabiniere ferito. La sua risposta mi gelò: ‘È morto!’, mi disse. Per diverse ore continuai a credere che un carabiniere fosse morto veramente.”). Una notizia probabilmente costruita ad arte per alimentare la furia delle forze dell’ordine ed alzare ancora di più il livello dello scontro… Volevo poi che tu mi raccontassi l’episodio dell’infiltrato che hai vissuto di persona.
S.T.:
Sì, ho sentito anch’io questa voce. E sicuramente lo scopo era proprio quello che dicevi tu. Ricordo che girò anche la voce che si fosse “cercata” la morte di un carabiniere, proprio per scatenare ancora di più la violenza delle forze dell’ordine…
Per quanto concerne l’infiltrato: il sabato, mentre stavamo scappando verso Quarto, si è avvicinato a noi un tipo, molto robusto ed armato di una mazza da baseball, vestito come un black block. Ha cominciato ad urlare come un pazzo, incitandoci ad assaltare la caserma dei carabinieri di Corso Italia. Noi l’abbiamo guardato come fosse uno scemo… Ma il punto è che, una volta arrivati davanti a quella caserma (assolutamente pacifici, e senza che nessuno avesse lanciato un solo sasso) è iniziato un fitto lancio di lacrimogeni. Piovevano sia dall’alto (dalle mura), sia da dietro i cancelli: evidentemente ci aspettavano, aspettavano qualche provocazione da parte nostra e si erano preparati per attaccarci in quel modo. Noi, tra l’altro, eravamo in fuga (eravamo già stati caricati in precedenza), per cui non aveva alcun senso che loro ci aggredissero in quel modo; semplicemente loro avevano preparato DA PRIMA l’attacco coi lacrimogeni, convinti di rispondere ad una nostra provocazione. Una provocazione che non era arrivata, ma a cui proprio quello strano individuo ci voleva istigare…
F.B.:
Nell’articolo accenno all’interrogazione di Paolo Cento conseguente il tuo libro. L’unica traccia di una risposta a questa interrogazione l’ho trovata sul Manifesto. Ne parlo nell’articolo: si tratta di una risposta totalmente fuorviante, che in apparenza risponde all’episodio narrato nel tuo libro ed all’interrogazione di Cento, ma in realtà tratta UN ALTRO episodio. In questa risposta, che persino il Manifesto prende per buona, c’è solo ignoranza dei fatti o la volontà da parte delle Istituzioni di voler mantenere una scarsa conoscenza su questi fatti (sempre sottolineando la sicura buona fede del Manifesto)? E sai qualcosa su dove sia avvenuto l’episodio della ragazza manganellata?
S.T.:
Ho letto l’articolo di cui parli. Sinceramente anch’io sono rimasto colpito in negativo. Anche a mio avviso da parte del Manifesto c’è buona fede, ma sono stati un po’ superficiali nel prendere per buona la risposta di Pisanu (o, per meglio dire, la risposta del pm, che Pisanu riprende nella sua risposta in Parlamento). Io sapevo della storia di questa ragazza manganellata e svenuta, che sembra grave ma poi per fortuna si salva. Quando ho sentito della risposta della Magistratura Genovese e di Pisanu mi sono subito detto: hanno usato una storia simile (oddio… simile fino ad un certo punto, per di più…) per rispondere, divincolandosi da una situazione difficile… Mi ha sorpreso ed infastidito: il mio libro e l’interrogazione di Cento parlano di un caso preciso (vero o falso che sia poco importa, in questo momento): una ragazza INVESTITA da un blindato, e NON di una ragazza manganellata. Piuttosto potevano rispondere “non ci risulta nessuna ragazza investita, o investita con conseguenze così gravi”; sarebbe stato persino più semplice, per loro…
Certo, di menzogne ne hanno raccontate tante: penso alla storia della sassaiola con cui hanno giustificato l’irruzione alla Diaz e poi alla storia delle armi improprie e delle molotov “trovate” in quella scuola, alle menzogne raccontate per fatti di strada o per la morte di Carlo… Però mi ha stupito sentire un Ministro che risponde ad un’interrogazione semplicemente eludendola… e senza entrare nel merito di quanto chiesto.
Per quanto concerne la localizzazione della ragazza manganellata, purtroppo non so dirti nulla. Non so se la zona fosse vicina a dove ipotizzo io l’investimento, e se questa eventuale vicinanza possa in una certa misura giustificare la sovrapposizione dei due episodi.
F.B.:
Prima hai parlato di “violenza inaudita ed inaspettata”. Inaudita ed inaspettata anche per chi aveva vissuto un’epoca di conflitti sociali fortissimi, in cui le violenze delle forze dell’ordine erano molto più frequenti. Questo mi porta a chiederti una riflessione in generale sulla gestione dell’ordine pubblico a Genova.
S.T.:
Io credo abbiano fatto una selezione preventiva sulle persone da mandare a Genova. Qui a Bologna, tanto per parlare di una situazione che conosco bene, tutti o quasi gli appartenenti ai sindacati di sinistra sono rimasti a casa. Ma anche in tempi successivi si sono visti i segni di un’involuzione autoritaria delle forze dell’ordine. Ricordo lo scandalo emerso proprio qui a Bologna quando apparvero le magliette con scritto “A Genova io c’ero – Polizia di Stato”. Pisanu liquidò la cosa come una ragazzata, chiedendo il ritiro della magliette, ma il poliziotto che denunciò quella faccenda (con un’intervista a Micromega) fu poi letteralmente massacrato mediaticamente. Giravano i manifestini con la sua foto e scritte allucinanti tipo “ecco l’amico di Bin Laden”…
Io credo che in questi anni si sia sbagliato nel non continuare la battaglia iniziata nei primi anni 80, per una polizia più “democratica”. Dopo la smilitarizzazione della Polizia li abbiamo lasciati da soli, abbiamo pensato che il lavoro fosse finito… Invece, specie negli ultimi anni, è cominciato dalla parte contraria un lavoro metodico di selezione e formazione politica delle nuove reclute. Ci sono episodi inquietanti; penso a quel poliziotto Laziale, di stanza a Torino, estromesso dalla polizia perché su un furgone, tornando dopo aver prestato servizio ad una partita di calcio, si era permesso di criticare l’operato delle forze dell’ordine a Genova; penso ad altri casi del genere… e penso anche a Marco Poggi: lui non era poliziotto ma infermiere della polizia penitenziaria, ma dopo le sue “rivelazioni” su Bolzaneto la vita nel suo ambiente di lavoro è andata deteriorandosi velocemente…
F.B.:
A proposito del “dopo Genova”, quando ci siamo parlati per telefono mi hai parlato di altri aspetti inquietanti. Storie di ragazzi traumatizzati, di suicidi riconducibili (magari indirettamente e parzialmente) proprio all’esperienza genovese… Si può dire che si tratta di storie ingiustamente dimenticate, che dimostrano che i “segni sulla pelle” si sono propagati anche nelle coscienze delle persone, segnandole in modo indelebile…
S.T.:
Ci sono molti casi su cui si dovrebbe indagare meglio e con più serietà, riunendoli in un’inchiesta che abbia anche uno spessore scientifico. Sì, ho sentito di ragazzi che sono giunti al suicidio; chiaramente è impossibile dire in che misura l’esperienza del luglio 2001 li abbia portati a quel gesto disperato. Per uno di questi casi ho parlato personalmente con amici e parenti del ragazzo, che mi hanno raccontato di quanto fosse sconvolto dopo gli avvenimenti di Genova; si è suicidato nell’agosto dello stesso anno. Un altro caso che conosco personalmente è quello di un ragazzo, vicino ad Arezzo, che per un mese e mezzo dopo il G8 si chiuse in un mutismo assoluto; non parlava né con genitori né con gli amici, mentre prima era un giovane aperto, senza problemi di relazioni con gli altri… Ne ho parlato più in generale con alcuni psicologi di Verona, intenzionati a seguire vicende di questo tipo, i quali mi hanno riferito di diversi giovani sconvolti… Bisognerebbe allargare la ricerca, ritrovando i vari ragazzi e studiando come sia cambiata la loro vita dopo quei giorni.
Ci sono casi che sono rimasti “famosi” per quei pochi giorni, ma poi che ne è stato di loro? Penso a quel ragazzo di Ostia, massacrato dal vicequestore Perugini e ripreso in varie foto e video. Penso al figlio del giornalista de “La Stampa” Gian Paolo Ormezzano; anche questo fu un caso famoso, perché il padre parlò sui giornali del figlio, che era andato a Genova per girare un video nell’ambito dei suoi studi universitari. I due ragazzi sono stati pienamente scagionati, ma ora come vivono? Dentro di loro che segni portano di quell’esperienza?
Sappiamo quali sono stati i cambiamenti nella vita di Lorenzo Guadagnucci o di Laura Baldini, la mia amica di Pisa. Il primo non era un ragazzo, ma un uomo, un giornalista inspiegabilmente massacrato durante la “notte della Diaz”; sappiamo quanto la sua vita è cambiata, quanto abbia cercato di tradurre in impegno civile quella sua esperienza. Laura, quando sfoglia i libri su Genova e vede quella sua foto che la ritrae sanguinante, fa fatica a guardarsi… Lei e Lorenzo però sono due persone adulte, con già un’esperienza e forti motivazioni alle spalle, che avevano già vissuto o erano a conoscenza di storie drammatiche, ma un ragazzo di vent’anni come ha reagito? Quanto è cambiato?
F.B.:
A volte penso che si è scritto molto su “cosa è stata Genova”, per chi c’era o, in generale, per quelli che si riconoscono nell’attuale Movimento. E a volte penso che a questa domanda si potrebbe rispondere semplicemente: “è stata un trauma”; un trauma a cui ognuno reagisce a modo suo: c’è chi ne è uscito indebolito e chi rafforzato; chi più cinico e chi magari ancora più idealista; chi lo ha rimosso e chi ci convive ogni giorno… Un trauma per tutti, ma da cui si dipanano poi le matasse delle storie e delle sensibilità individuali. Per questo volevo chiudere questo articolo e la nostra chiacchierata con una tua riflessione su questo aspetto, e su cosa vuol dire per te, oggi, Genova…
S.T.:
Sì, si è trattato di un trauma. Inatteso per tutti, ma soprattutto per la generazione di Caterina. Noi “vecchi” avevamo visto o vissuto situazioni persino peggiori, ma erano altri tempi. Qui torno al discorso che ti facevo all’inizio: negli anni 70 c’erano le leggi speciali, per cui sotto un certo punto di vista andavi ad una manifestazione consapevole che qualcosa poteva andare storto. Io di morti in Piazza ne avevo visti anche personalmente, penso a Pietro Bruno, a Francesco Lorusso... Negli anni 70 andavi in piazza col servizio d’ordine, in un clima in cui eri preparato alla violenza, fisicamente e mentalmente. Certo, a Genova siamo stati traumatizzati anche noi, perché pensavamo che le cose fossero cambiate, ma i ragazzi erano andati a manifestare pacificamente, disarmati, pensando quasi ad una festa...
Io ho visto scene che non dimenticherò mai. Non dimenticherò mai l’agguato (uso intenzionalmente questa parola…) fatto in fondo a Corso Italia. Quando hanno attaccato l’hanno fatto senza alcuna considerazione per le persone, con una strategia militare che nulla aveva in comune con le esigenze di ordine pubblico. C’era un muro molto alto a destra, che sostiene un terrapieno, il mare a sinistra, i poliziotti davanti e migliaia di persone che premevano dietro, senza la possibilità di capire cosa stesse succedendo davanti (dove c’era una curva secca, oltre la quale il retro del corteo non poteva assolutamente vedere). E’ stato un momento drammatico: hanno cominciato a sparare decine e decine di lacrimogeni; da davanti, dagli elicotteri (e questo, ti assicuro, non l’avevo MAI visto fare) e persino dalle barche. Noi sentivamo questi gas terribili… Nell’immediatezza dei fatti, ovviamente, nessuno di noi aveva mai sentito parlare del gas CS, nessuno sapeva quanto micidiale fosse, ma ti assicuro che anche quelli come me (con già alle spalle esperienza di manifestazioni e di lacrimogeni) sentivano che era un gas “diverso” e terribile, che ti fa sentire morire… La gente scappava e rischiava di calpestarsi. C’è stato un autocontrollo incredibile, da parte dei manifestanti, ma potevano morire o restare ferite gravemente molte persone.
Le forze dell’ordine avevano perfettamente il controllo della situazione, dall’alto, e sapevano benissimo cosa vuol dire e cosa può provocare attaccare da più parti un corteo con 50.000 persone in quel modo, in una via senza sbocchi. Quella non è un’azione di ordine pubblico, ma è un’azione militare: non punta a disperdere un corteo, ma a farti ammassare per poi massacrarti. Fu in quel frangente che vidi persone gettarsi in acqua per cercare scampo, ma li inseguivano e li picchiavano anche in acqua…
L’ultima carica ce l’hanno fatta sotto il ponte che c’è 800 metri prima della stazione di Quarto, nei pressi di una caserma della polizia. E quando hanno sparato i lacrimogeni hanno pure sbagliato: tiravano dal basso verso l’alto, e calcolarono male la parabola; i candelotti finirono una cinquantina di metri oltre l’obbiettivo, in spiaggia, dove c’erano famiglie con bambini. Fu una scena allucinante, con le mamme che prendevano i bambini e scappavano… Anche questo ho dovuto vedere a Genova…
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