lunedì 5 novembre 2012

Su Komikazen e “graphic journalism”

Chi mi conosce sa che, per quanto possa sembrare persino paradossale, da quando scrivo fumetti ho smesso di scrivere “sui” fumetti, come facevo in passato. Non ci sono motivi particolarmente “profondi” per questa scelta. Sì, da un lato non mi sentivo più a mio agio nel parlare del lavoro di quelli che erano diventati (m’imbarazza ancora dirlo) “miei colleghi”, e per lo stesso motivo ho praticamente smesso di frequentare forums fumettistici. Ma soprattutto, e più banalmente, è una questione di tempo: avendo in ballo progetti molto complessi (quello con Matteo Fenoglio su Piazza della Loggia, esteso al “quinquennio nero” 69/74 è addirittura in corso da fine 2009 e si concluderà solo l’anno prossimo) devo dedicare le mie energie a quelli. Per la stessa ragione, e questo apparirà ancora più paradossale, da quando scrivo fumetti ne leggo meno.
Faccio un’eccezione dunque per parlare di Komikazen.

Non mi dilungherò troppo a descrivere Komikazen; per chi non sapesse di cosa si tratta, vedere il link. Basti dire che in questi anni ho conosciuto molte persone che mettono in piedi iniziative interessanti, meritorie e di ottimi contenuti, con entusiasmo e magari non sempre con capacità “pratiche” all’altezza. Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini e con loro l’Associazione Culturale Mirada sanno invece unire competenza e passione, entusiasmo e capacità organizzative. Questo breve ma sincero riconoscimento valga anche quale ringraziamento per le giornate che ho passato con loro a Ravenna!!! (e nell’abbraccio virtuale unisco tutti gli amici, vecchi e nuovi, che ho incontrato nell’occasione!).

Di seguito trovate i filmati di alcuni incontri tenutisi a Ravenna quest’anno; al primo ho partecipato direttamente, assieme a Manuel De Carli e altri ancora. Sono tutti molto interessanti e ve ne consiglio la visione (se spulciate su youtube cercando “komikazen” ne troverete anche delle passate edizioni).






Nel corso degli incontri si è parlato molto di graphic novel, graphic journalism e di tutte le varie sfumature con cui si può declinare questo lavoro.
Mi soffermo in particolare su due aspetti. Il primo è quello portato da un giornalista (almeno credo fosse un giornalista; mi sembra si chiamasse Domenico) intervenuto nel corso del dibattito a cui ero presente: vedere il primo filmato, circa dal minuto 47’00” in poi; nel seguito potete sentire le diverse risposte, fra cui la mia, che vorrei ora puntualizzare meglio e a mente fredda.

Innanzitutto, come ho detto già diverse volte, non sono particolarmente affezionato alle etichette. Credo, in particolare, che il fumetto soffra del bisogno di affrancarsi del complesso d’inferiorità da “arte minore” e cerchi attraverso queste formule un modo surrettizio per entrare nel “salotto buono” della cultura.
Non penso ce ne sia bisogno. Il cinema, per parlare di una forma espressiva vecchia più o meno quanto il fumetto, nei sui cento e passa anni di vita ci ha dato Altman, Kubrick, Kieslowski … Boldi e i Vanzina… Ma tutti i loro lavori sono definiti “film”: non si è scelto di chiamare “cinematographic novel” un lavoro di Kubrick per distinguerlo da altri, più leggeri o addirittura definibili con le stesse parole usate dal ragionier Fantozzi per la Corazzata Potemkin… E si potrebbe fare lo stesso ragionamento per i romanzi, tanto per dire.
Nel caso del fumetto, invece, anche tra addetti ai lavori qualificati e competenti sembra ci sia la fregola di dividere le varie pubblicazioni in sottocategorie. Come se non fosse abbastanza chiaro che col fumetto si può fare di tutto: intrattenimento, narrativa “pura”, ricerca storica, contaminazione fra generi ecc. E lo si può fare bene o male, con risultati artistici validi o meno, con intenti didattici o con un’attenzione maggiore alla forma espressiva adottata.
Fermo restando questo, l’intervento del giornalista a Ravenna non era privo di senso. La “forma” era sbagliata (meglio: partiva da un presupposto sbagliato): dalle sue parole sembra quasi che il fumetto, nel momento in cui si propone di narrare un fatto storico, si scontri con un limite endemico, che non possa fare altro che riprodurre – didatticamente e didascalicamente – quella storia, senza poter coltivare ambizioni “estetiche”. È chiaro che qualsiasi autore, non solo nel fumetto, quando propone una trama di totale fantasia è signore e padrone dei propri personaggi, può muoverli liberamente sulla scacchiera della sua storia. Chi invece fa graphic journalism (usiamo pure l’etichetta, tanto per semplificare) entra in un recinto e i suoi movimenti hanno i limiti (temporali, fattuali, di contesto ambientale) di quel recinto. Questo non significa però che sia costretto all’immobilismo. La sfida, semmai, sta proprio nel riuscire a dare un valore aggiunto alla propria narrazione, nel riuscire a offrire un prodotto che sia valido artisticamente, oltre che rigoroso storicamente e onesto intellettualmente (definizione che, ho spiegato a Ravenna, non coincide con l’imparzialità del robot privo di sentimenti o con una equidistanza adottata quasi come “scelta di vita” obbligata del cronista).
Non prenderò ad esempio lavori miei (non sono così arrogante) o dei tanti amici/colleghi presenti a Ravenna (per non essere tacciato di piaggeria o di voler difendere “una casta”): mi sembra che Joe Sacco riesca nell’intento (e ne approfitto per dire ad Elettra che anch’io amo moltissimo “Gaza 1956”).

Se però la forma era sbagliata, l’intervento di Domenico poneva un problema reale… Ma su questo tornerò più avanti, perché l’aver menzionato Sacco mi porta ad affrontare il secondo aspetto di cui volevo parlare.

In un altro incontro di Komikazen (vedi il quarto video linkato sopra) Riccardo Mannelli ha detto di trovare noioso Sacco e di non essere particolarmente interessato a questo tipo di graphic journalism (scusate: ho brutalizzato e semplificato le sue parole: vedere il video per una versione completa e meno banalizzata). In sostanza, seppure in modo diverso da Domenico, sembra che Mannelli veda anche lui quel “limite endemico” nel “fumetto di realtà”, perlomeno quando questo non propone soluzioni artistiche innovative o comunque “pregnanti” rispetto alla storia che si vuole narrare.
Sia chiaro: la mia non è una critica a Mannelli (artista splendido, di cui sottoscriverei il restante 99 per cento dell’intervento). Semplicemente ho trovato che la sua definizione “Sacco è noioso” sia una spia linguistica interessante (e preoccupante) proprio per quella forma d’arte (il fumetto) che io e lui, come tutti quelli che erano a Komikazen, amiamo.
Anche su questo aspetto Elettra è stata puntuale nel rispondere. Sacco lo leggi con fatica, lo devi affrontare con concentrazione, quasi con dedizione. Ma questo non costituisce un difetto dei suoi lavori. Nessuno, almeno credo, direbbe che “Il Maestro e Margherita” o “Memorie di Adriano” sono belli, sì, ma noiosi. Per meglio dire, nessuno, nel caso di un romanzo, butterebbe sul piatto negativo della bilancia la – diciamo così – “pesantezza di lettura” (che può certamente esserci, ci mancherebbe!). Bulgakov e Yourcenar sono pesanti? Sì, e non per questo si deve intendere la loro “pesantezza” come elemento che ne caratterizza la lettura in negativo: stessa cosa la si dovrebbe poter dire per un fumetto.
A questo proposito, volevo segnalare uno scambio di battute, breve ma a mio avviso significativo, fra Elettra e Domenico subito dopo l’intervento di quest’ultimo. Elettra ha giustamente osservato: “ci si può anche annoiare qualche volta…” (“pure leggendo un fumetto”, intendeva). Domenico ha risposto con un’altra interessante spia linguistica: “allora mi leggo un libro!”, quasi che al “libro vero e proprio” si possa concedere persino quel lusso della “pesantezza” che il fumetto – secondo lui – dovrebbe invece evitare come la peste.
In buona sostanza (io l’ho fatta fin troppo lunga) per alcuni – sottolineo: anche nel nostro ambiente – sembra sia necessario che il fumetto, anche quando “impegnato”, debba essere connotato da una maggiore agilità di lettura. Altrimenti “tanto vale fare un saggio”. Se è in questo modo che speriamo, come dicevo prima, di entrare nel “salotto buono” della cultura, faremo sempre un buco nell’acqua.

Però è innegabile che la lettura combinata dei due interventi (il giornalista e Mannelli) un problema lo pone. E’ vero che alcuni “fumetti di realtà” sembrano scorciatoie adottate (spesso in buona fede: chi lo fa in malafede entra in un altro discorso e non è degno di commento) per raccontare una storia? E’ vero che non tutti i “fumetti di realtà” sono anche prodotti artisticamente validi?
E’ vero, purtroppo. In parte lo vedo come un problema inevitabile (non ripeterò quanto detto a Ravenna: vedere ancora, se interessa, il primo video linkato sopra). Ma è comunque una questione che va affrontata da parte di chi, come me e gli autori presenti a Komikazen, non si ritengono “fumettisti per caso”, ma hanno l’obbiettivo (l’ambizione?) di utilizzare il mezzo espressivo fumetto secondo tutte le sue potenzialità, anche estetiche e artistiche.
Questo, a mio avviso, è un altro merito di Elettra e Gianluca; un merito che non so neppure se sia intenzionale e di cui siano pienamente consci. Se il fumetto di realtà è stato, in Italia e fin qui, fenomeno in espansione ma comunque episodico e privo di una sua codifica quasi “grammaticale”, Komikazen ha cercato di proporlo come un vero e proprio “movimento”. Non un movimento ideologico, s’intende, ma artistico; nella misura in cui si propone di agire – sempre nella libertà dei singoli autori – all’interno di alcuni canoni contenutistici ed estetici: la tensione etica, lo scrupolo nell’abbinare i doveri giornalistici (rispetto e uso appropriato delle fonti, ad esempio) e quelli propri del “linguaggio fumetto”, tanto per dirne solo alcuni.

Francesco “baro” Barilli


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