Recentemente si è parlato del rifiuto da parte del governo di aderire ad
alcune raccomandazioni del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra
cui l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Non se
n’è parlato molto, a dire il vero, e pure quando lo si è fatto si sono
registrate omissioni e imprecisioni.
Innanzitutto va precisato che
nell’occasione ha suscitato scalpore il rifiuto opposto a una
sollecitazione esplicita, ma l’Italia “fa spallucce” sul reato di
tortura da più di vent’anni: la convenzione delle Nazioni Unite fu
firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. L’ignavia del mondo
politico è dunque trasversale e tutt’altro che recente, anche se va
ricordato che l’attuale centrodestra seppe distinguersi negativamente
già nel 2004: alcuni ricoderanno le polemiche nate da un emendamento
leghista che voleva che fossero definite torture le violenze e le
minacce solo se “reiterate”.
L’argomento viene periodicamente
ripreso, anche se con poco vigore, dagli organi di stampa. I fatti più
recenti sono i casi Cucchi, Gugliotta, Uva; precedentemente se n’è
parlato per le violenze alle caserme Raniero e Bolzaneto (dove, va
ricordato, i giudici hanno rimarcato che la mancanza di quel reato ha
comportato una ridefinizione “al ribasso” delle contestazioni agli
imputati).
Ma possiamo andare anche più indietro nel tempo.
Sommariamente ai primi anni ’80, quando per affrontare l’emergenza
terrorismo lo Stato non si mostrò semplicemente “forte” (come vuole la
retorica ufficiale, nell’ansia semplicistica di ricondurre quella
stagione a una lotta del “bene” contro il “male”), ma si spinse sulla
strada della ferocia. Questa degenerazione fu in parte palese, e portò a
disposizioni che andarono a restringere la sfera dei diritti
individuali, in parte sotterranea e sfociò nella pratica della tortura.
Nel 1982 l’allora ministro dell’interno Rognoni dovette rispondere a
interrogazioni che possiamo riassumere in una sola: per battere il
terrorismo erano stati superati i limiti posti come base della
democrazia e dello stato di diritto? La risposta del ministro fu
negativa. Del resto anche George W. Bush nel novembre 2005 disse
perentoriamente “Noi non torturiamo”, incurante delle smentite fattuali
avvenute prima e dopo quell’affermazione. Successivamente ammise di
essere stato a conoscenza delle tecniche di interrogatorio usate nella
lotta al terrorismo e di averle avallate. Si tratta di metodi (il più
famoso è il waterboarding) sicuramente definibili come torture, ma
dichiarati ammissibili “in punta di diritto” dall’amministrazione
statunitense. Del resto già Blaise Pascal denunciava come la forza possa
sostituirsi al diritto: “Non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”.
Tornando all’Italia degli anni ‘80, il numero e l’omogeneità delle
denunce possono portare a una conclusione: le torture furono il frutto
di una strategia, seppure non usata con continuità, tollerata in quanto
l’efficacia dell’azione poteva andare a discapito dei principi. E si
deve riflettere sulla circostanza che, sia nell’Italia di quel periodo
sia negli USA della recente guerra al terrorismo, le torture sono state
precedute dal restringimento normativo dei diritti. Dell’Italia si è già
accennato; negli USA, Abu Ghraib e Guantanamo hanno seguito
temporalmente il Patriot Act: le torture sono sempre conseguenza di un
impalcato normativo emergenziale.
Può essere poco “politicamente
corretto” ricordare le sevizie subite da alcuni terroristi nel periodo
finale dei cosiddetti anni di piombo, ma va fatto, senza che questo
significhi una giustificazione dell’operato di brigatisti e affini, se
si vuole capire l’origine del “problema tortura” in Italia. Per questo
ho voluto soffermarmi su questo aspetto, dimenticato e mai veramente
affrontato. Non m’interessa chiedermi se quei metodi fossero o meno
necessari: mi basta non farli cadere nel dimenticatoio. Non m’interessa
analizzare se le mani che hanno contribuito a sconfiggere la lotta
armata dovevano necessariamente affondare nel sangue o se potevano
evitarlo: mi basta denunciare che l’hanno fatto, e ricordare che
conseguentemente oggi non possono pretendere di profumare di mughetto.
In fondo, la tortura può essere efficacemente sintetizzata con questa frase di Leonardo Sciascia, terribilmente attuale: “Non
c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma
di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e
criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al
diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto
che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla
occultamente uno sconfinato arbitrio”.
Francesco “baro” Barilli