Non ho mai parlato di Annamaria Franzoni e del caso Cogne. Il circo
mediatico che si solleva su taluni fatti di cronaca nera m’ha sempre
infastidito, un incrocio di morbosità e sciacallaggio. Preciso quindi
che nemmeno oggi entrerò nel dibattito circa la colpevolezza o meno
della signora Franzoni nell’omicidio del figlio. Non sono insensibile
alla morte di un bambino, ma non ho elementi per pronunciare tesi pro o
contro la sentenza resa definitiva dalla Cassazione, non avendo seguito
la vicenda.
Sul tema processuale mi limito dunque a un’osservazione.
C’è sicuramente grande distanza fra credenti e atei (o agnostici, come
me) a proposito della giustizia divina, ma su quella umana penso siamo
tutti d’accordo nel dire che si tratta di cosa ben diversa. Se esiste,
la giustizia divina è perfetta e infallibile per definizione; quella
umana è l’esatto contrario. Ai giudici si deve chiedere di operare con
serenità, rigore intellettuale (da non confondersi con la durezza) e
imparzialità; il resto (a meno che non si trovi un omicida in flagranza
di reato e con una pistola ancora fumante in pugno…) è da inserire nel
contesto di imperfezione e fallibilità proprio degli esseri umani.
Con questa premessa, non so se Franzoni sia o meno colpevole, né
m’interessa disquisire sull’equità della condanna secondo una distorta
mentalità che vorrebbe, quale misuratore della reale correttezza di una
sentenza, il pallottoliere degli anni. E’ un altro l’aspetto della
vicenda che mi ha colpito in questo epilogo: l’enfatizzazione del dramma
umano della condannata (al di là delle sue colpe, reali o meno che
siano) e dei suoi parenti, a cominciare dai figli che si vedranno divisi
dalla madre per i prossimi 16 anni, fatti salvi i benefici premiali
In un periodo in cui la stretta securitaria, la richiesta di fermezza e
di “tolleranza zero”, hanno preso il sopravvento, è buona cosa che un
sentimento come la pietà si riaffacci alle coscienze. Temo però si
tratti di un riflesso incondizionato dovuto al clamore (che
innegabilmente – e legittimamente – la signora Franzoni ha cercato di
utilizzare) creato attorno alla vicenda. Una vicenda che, fuori dalle
aule giudiziarie, ha assunto contorni da romanzo dove si sono mescolati
generi diversi: il thriller, il noir, lo splatter, la saga familiare.
Esistono in Italia più di 50.000 carcerati. Tra essi ladri di polli e
colletti bianchi; scippatori e stupratori; recidivi e occasionali;
criminali per scelta o per necessità. Al dramma della loro detenzione si
aggiunge sempre quello di familiari, conoscenti, amici. Anche il
criminale più incallito (e magari spregevole) può essere padre
amorevole, madre premurosa, figlio affettuoso, amico affidabile. E la
pena detentiva in tutti i casi si sovrappone ad una riflessa condanna al
dolore per i congiunti.
Penso ci sarebbe da interrogarsi, quando si
parla di certezza della pena quale unico fondamento del diritto, su
come si stia parlando con leggerezza di comminare una punizione NON SOLO
a chi ha sbagliato, ma a tutti coloro il cui mondo in qualche modo
gravita attorno a quello della persona detenuta.
Alcuni anni fa, il
14 marzo 2004, ho intervistato il professor Franco Della Casa, docente
di diritto penitenziario all’Università di Genova. A chiusura di
quell’incontro, a mia domanda circa un suo "messaggio" generale sul
“pianeta carcere”, sconosciuto alla maggioranza delle persone, Della
Casa rispose: “Io penso che il carcere non dovrebbe essere qualcosa
di cui si parla solo quando succede un evento commovente; si dovrebbe
parlare maggiormente delle problematiche carcerarie, nella società
civile. Il carcere non dovrebbe essere qualcosa che allontaniamo e
confiniamo nell’angolo più oscuro della nostra coscienza, ma qualcosa
che fa parte della nostra società, un’istituzione per il momento
necessaria che dovremmo sforzarci tutti di migliorare. Perché il carcere
non riguarda solo i detenuti e le loro famiglie, ma tutti noi; solo che
troppo spesso ce ne dimentichiamo, e ce ne ricordiamo solo se un
detenuto evade o si suicida. Il carcere, oggi come oggi, è un luogo
utile solo per le facili commozioni: al posto della commozione sarebbe
meglio un impegno civile, costante e continuo”.
Penso siano
parole su cui riflettere. Nel frattempo, saluto con piacere il ritorno
del sentimento di pietà sulle vicende carcerarie, temendo però finisca
presto riposto in un cassetto, al prossimo fatto di cronaca.
Credo che bisognerebbe prima interrogarsi su cosa lo Stato fa per le vittime di certi reati. Assistenza psicologica zero,assistena economica zero,risarcimenti che spesso non arrivano, sentenze ingiuste e sfregi di ogni tipo.occupaimoci prima delle vittime e poi dei carcerati che per carità, sono degli esseri umani,ma se s trovano in carcere quasi sempre è perchè hanno fatto qualcosa per finirci.E il fatto di vere famiglia non deve significare nulla, altrimenti bisognerebbe considerare che pure le vittime hanno una famiglia, no?Altrimenti si fa come nel film con Sofia Loren dove lei per non essere arrestata continua a farsi mettere incinta...
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