Dal 15 al 26 luglio scorso si sono svolte a Genova numerose iniziative
per ricordare i fatti del G8 2001. Un appuntamento consueto, che si è
intrecciato con i recenti sviluppi processuali, prima la sentenza su
Bolzaneto e poi le richieste di condanne per i fatti della scuola Diaz.
Quest’anno le manifestazioni si sono sviluppate secondo due distinti
calendari: a quelle tradizionali organizzate dai comitati genovesi
(Piazza Carlo Giuliani e Verità e Giustizia) si è aggiunta la rassegna
“Genova città dei diritti”, indetta dal Comune. Se non erro, è la prima
volta che l’amministrazione pubblica si adopera direttamente in azioni
di memoria rispetto ai fatti del luglio 2001. Un impegno, quello del
Comune, che giunge con qualche ritardo, ma resta positivo. Il giudizio
sull’operato dell’amministrazione va però abbinato a una considerazione:
se era teso a chiudere una pagina della storia della città la
positività va decisamente ridimensionata. Se invece si tratta del primo
passo di un percorso in cui le istituzioni intendono finalmente
affrontare il luglio genovese di sette anni fa, ben venga l’iniziativa
comunale, sperando non resti isolata. Fra le due opzioni sospendo il
giudizio, cito però una frase pronunciata durante uno degli incontri da
Gherardo Colombo, ex magistrato di Mani Pulite, che così ha commentato
gli sviluppi di questi sette anni: “forse si è perduto un certo grado di
indignazione”. E’ su questa base, sul recupero della capacità di
indignarsi per i fatti di Genova, che credo si debba tracciare, a
qualche giorno dalla conclusione degli appuntamenti di quest’anno, il
punto della situazione.
Circa la sentenza su Bolzaneto ho
sentito pareri discordanti, da persone tutte degnissime e che in questi
anni si sono battute per ottenere giustizia per Genova. Qualcuno ha
parlato con amarezza di una sentenza deludente. Altri, pur con
disappunto per il ridimensionamento delle attese, ne hanno sottolineato
l’importanza, simbolica quanto concreta. Credo abbiano ragione entrambe
le parti, e questo non per tentare una mediazione, ma perché quelle due
teorie, se lette attentamente, appaiono tutto fuorché antitetiche.
E’ vero, sicuramente ci si aspettava qualcosa di più e, vista la mole e
la convergenza delle testimonianze, una sentenza ancora più mite sarebbe
stata impresentabile. Però si è trattato del primo caso in cui viene
condannato non UN agente per UN singolo episodio, ma un numeroso gruppo
di funzionari delle forze dell’ordine per un complesso di fatti
gravissimi avvenuti nello stesso contesto.
Leggere la condanna ad
Antonio Biagio Gugliotta (l’ispettore di polizia penitenziaria al
vertice della caserma, in quei giorni trasformata in luogo deputato alla
consegna dei manifestanti fermati, per la successiva traduzione verso
le strutture carcerarie) è agghiacciante: “… con più azioni
esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o comunque
tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette presso la
caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a
trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a
tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la
conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani
fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …” (breve
estratto dalla sentenza, cui segue l’individuazione delle specifiche
condotte che Gugliotta avrebbe consentito o tollerato).
Che la
condanna sia destinata a non avere conseguenze penali è cosa che
amareggia, ma nota già da tempo: anche con un giudizio più severo nel
gennaio 2009 sarebbe scattata la prescrizione per la maggior parte dei
reati. Invito tutti a non cadere, nel caso Bolzaneto e in generale su
Genova, nello stesso errore che sovente si commette in Italia: allineare
il giudizio storico a quello penale, uniformare la nostra azione civile
alla dimensione processuale, come se l’unica “giustizia” possibile
fosse quella dei tribunali. Sarebbe miope e per certi versi
autolesionista, finirebbe col depotenziare quello che dovrebbe essere il
nostro impegno sul piano politico e culturale.
Su Bolzaneto è
inutile strapparsi i capelli perché non si è visto riconosciuto il reato
di tortura, fattispecie giuridica assente dal nostro ordinamento per
ignavia, trasversale e tutt’altro che recente, del mondo politico.
Invece di lamentarsi delle pene comminate, si potrebbe aprire un
ragionamento sul perché reati come quelli commessi a Bolzaneto, anche
applicando le pene massime consentite dai nostri codici, siano
considerati poca cosa. Conseguentemente si potrebbe ripartire con tre
richieste: l’inserimento del reato di tortura (che non appare
nell’agenda della maggioranza, ma non sembra essere priorità neppure per
l’opposizione parlamentare), riprofilare le sanzioni per gli abusi
commessi dalle forze dell’ordine (sul piano penale e su quello
amministrativo, e qui mi riferisco ad allontanamenti e sospensioni),
l'istituzione di un organismo "terzo" che vigili sull'operato dei corpi
di polizia (compresa quella penitenziaria).
In altre parole, la
delusione per la sentenza-Bolzaneto è legittima, ma non deve essere
figlia di quell’atteggiamento che ha voluto delegare la “questione
Genova” alla sola Magistratura. Ci si può e ci si deve lamentare della
blanda applicazione delle regole attualmente in vigore, ma senza
dimenticare che compito della politica sarebbe discutere delle regole
stesse, rendendosi conto della loro inadeguatezza.
Sul processo
per la Diaz sono da poco giunte le richieste di condanna avanzate dai
pm, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini. Un’arringa che ha avuto
momenti toccanti, come quando è stato affermato che la polizia, nel
momento in cui non rispetta i principi del diritto, costituisce per la
democrazia un pericolo maggiore delle molotov lanciate in piazza. O
quando sono stati ricordati gli ostacoli alle indagini causati dal clima
omertoso e di difesa corporativa contro cui ha cozzato il lavoro dei
magistrati. O ancora quando è stata ricostruita la logica perversa che
porta la polizia a sbarazzarsi delle regole quando queste sono ritenute
un intralcio. Quella requisitoria mi è sembrata un’orazione civile sullo
stato dei diritti in Italia, con accenti di grande dignità, quasi uno
sfogo di chi crede nel “sistema delle regole” e si scandalizza quando
esse sono infrante da chi dovrebbe essere posto alla loro tutela.
Nonostante questo, non lo nascondo, sono pessimista sulla sentenza,
attesa a novembre. Se una cosa ci ha insegnato il giudizio su Bolzaneto è
che su Genova la magistratura sembra volersi attenere con particolare
scrupolo al principio della responsabilità penale (personale), e sulla
non sovrapponibilità di questa con la responsabilità civile o politica.
Inoltre, mi è difficile pensare che nel processo Diaz i giudici possano
usare un metro più rigido di quello usato su Bolzaneto, dove erano
coinvolti personaggi di profilo decisamente inferiore rispetto agli
imputati per la Diaz (ossia i massimi livelli delle forze dell’ordine).
Credo sia un campanello d’allarme che dovrebbe risuonare nelle orecchie
di chi ha pensato di delegare ai tribunali la sola e definitiva chiave
di lettura del G8 di Genova. Mi auguro di poter essere smentito, ma il
mio monito – per quel che vale – lo lancio ora che siamo in tempo.
Cominciamo a sottolineare che la sentenza non riscriverà in ogni caso la
verità storica sulla Diaz. Ricordiamo che questo processo non è (come
crede parte dell’opinione pubblica) a carico degli agenti che hanno
spezzato mascelle, costole e denti, perché questi (tutti travisati e
irriconoscibili) nel processo non sono neppure entrati. Denunciamo che
esiste un procedimento per il tentato omicidio di Mark Cowell (il
mediattivista inglese massacrato da un gruppo di agenti, rimasti ignoti,
all’esterno della scuola) e che è scandaloso che nessuno abbia
individuato gli autori di quel pestaggio. Diciamo a chi non lo sa che ci
sono volute perizie e indagini per accertare le firme sui verbali di
arresto delle 93 persone catturate (e in seguito tutte scagionate)
nell’irruzione, per la reticenza e la scarsa collaborazione dei
firmatari, tanto che una firma risulta ancora oggi non identificata.
Analoghi discorsi li si potrebbe fare per la sentenza già emessa a
carico dei 25 manifestanti imputati per i disordini di piazza. Anche in
questo caso, fermo restando lo sconcerto per la condanna per
devastazione e saccheggio emessa a carico di 10 soggetti (che riconosce
una fattispecie giuridica inapplicata da decenni e ha comportato pene
durissime, sproporzionate rispetto a quelle comminate o richieste per
Bolzaneto o la Diaz), esiste un fatto accertato dal tribunale su cui è
bene porre l’accento. A proposito dei disordini avvenuti nel corso del
corteo di Via Tolemaide, i giudici hanno riconosciuto che la reazione
dei manifestanti avvenne a seguito di una carica dei carabinieri
definita arbitraria e illegittima, tanto che la sentenza ha comportato
la richiesta di trasmissione degli atti per falsa testimonianza a carico
di alcuni funzionari delle forze dell'ordine.
Ce n’è abbastanza, mi
sembra, per mobilitare la società senza attendere la sentenza sulla
Diaz che, comunque vada, non potrà rispondere a molti misfatti
semplicemente perché quello non è il suo compito. Dobbiamo essere grati a
Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini (e a quanti in questi anni,
avvocati, mediattivisti, giornalisti che siano, si sono battuti accanto a
loro) ma il loro compito finisce qui, dove comincia quello della
politica e della società, i veri assenti dalla battaglia di civiltà su
Genova e sui diritti.
Ma voglio spendere le righe finali di
questo articolo per il caso più grave accaduto a Genova, che pure
appare sparito dalle cronache: la morte di Carlo Giuliani.
Alcuni
anni fa scrissi un articolo sulla tragedia di Piazza Alimonda, lo
chiamai “La rimozione di un omicidio”. Ovviamente non sono la persona
adatta per dire se e quanto quell’articolo fosse riuscito. Una cosa però
mi sento di affermarla: il titolo l’avevo azzeccato. Anzi, direi che se
un errore ho commesso è stato quello di non capire subito che la
rimozione di quell’omicidio era un tassello di un disegno più grande:
rimuovere tutto "il marcio" accaduto nel corso del G8 del luglio 2001,
durante quella che secondo Amnesty International è stata “la più grave
sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la
seconda guerra mondiale”. Per il mondo della politica, per i media, per
la magistratura stessa (ovviamente con lodevoli eccezioni in tutti
questi settori) si è ritenuto opportuno chiudere la “pagina Genova”
senza mai averla aperta, dicendo che in fondo “non è successo nulla”. In
questo senso, rimuovere dalle cronache genovesi l’omicidio di Carlo –
unico fatto davvero irrisarcibile e irrimediabile – appare più che
paradossale significativo e paradigmatico.
Tutto è stato funzionale
all’obbiettivo della “grande rimozione”. Persino la divisione manichea
(anche quando fatta in buona fede) tra manifestanti violenti e vittime
della Diaz o di Bolzaneto. Non è mia intenzione negare i vandalismi
accaduti durante il luglio genovese, e neppure riconoscerli come
esclusiva opera del blocco nero, o ricordare la colpevole indifferenza
delle forze dell’ordine di fronte alle scorribande del black block.
Considerazioni tutte valide, ma collaterali nel momento in cui si
riconosce l’opera del tritacarne che ha voluto sminuzzare Genova
rendendola una poltiglia irriconoscibile.
Per questo voglio chiudere
questo articolo, in cui ho parlato di due processi conclusi e di uno in
via di definizione, ricordando un processo che non si è voluto fare,
stante l’archiviazione disposta dal gip il 5 maggio 2003 (e fermo
restando il ricorso alla Corte europea di Strasburgo presentato dalla
famiglia di Carlo). Perchè Genova, se la si legge complessivamente, da
Piazza Manin a Via Tolemaide e Piazza Alimonda fino alla “macelleria
messicana” della Diaz, passando per Bolzaneto e per il corteo del
sabato, ci parla di molte cose, che riassuntivamente potremmo
racchiudere con una parola che in questo paese dovrebbe significare
ancora qualcosa: “resistenza”. Un concetto che nessuno potrà archiviare o
rimuovere.
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