Sono già passati 10 anni… Un male terribile lo aveva colpito verso la
fine dell’estate del 1998, facendogli sospendere gli ultimi concerti
programmati, e l’11 gennaio 1999 moriva Fabrizio De Andrè.
Non è
retorica affermare che le sue canzoni si distinguono ancora per il loro
essere vive e attuali, inquiete metafore che hanno attraversato
generazioni dagli anni 60 ad oggi, anche grazie ad un mirabile esempio
di ricerca linguistica e musicale che rende la sua produzione variegata e
al tempo stesso sempre di altissimo livello. Nuova e coraggiosa per i
tempi fu la scelta di cimentarsi in “concept album” (dischi in cui i
brani ruotano attorno ad una tematica univoca, sviluppandola
coerentemente). Un’opzione all’epoca molto in voga per i generi
progressive e psichedelico, ma non certo tipica nel panorama dei
cantautori italiani: De Andrè lo fece almeno due volte, con La Buona
Novella e con Non al denaro, non all'amore nè al cielo, ma pure Storia
di un impiegato può essere considerato un concept. Altra caratteristica
fu la capacità di elaborare testi altrui, arrivando ad opere ugualmente
originali e distinte dalle proprie matrici. Lo fece con L’antologia di
Spoon River e con i Vangeli apocrifi, per i due album citati
precedentemente, e pure con alcune ballate di Bob Dylan o di Brassens,
fino a Smisurata Preghiera, ispirata alle liriche di Alvaro Mutis. Da
citare anche la sua riscoperta del dialetto genovese, unito a sonorità
complesse e ricercate, che da Creuza de mà in poi caratterizzò i suoi
ultimi lavori.
Sicuramente aveva una gran bella voce, calda e
profonda, ma l’attualità delle sue opere non è da cercarsi solo nel
fascino dell’interpretazione. Le sue canzoni parlavano di prostitute (da
Bocca di Rosa – per quanto il termine risulti improprio per
l’esuberante protagonista che non sa resistere alle tentazioni
dell’amore – a Princesa), di amori tormentati (Giugno 73, Verranno a
chiederti del nostro amore), di eroi piccoli, quotidiani, spesso
sfortunati (La guerra di Piero, Il testamento di Tito) ed erano sempre
ricche di frecciate verso la borghesia ipocrita, in una perenne denuncia
delle ingiustizie del mondo che gli apparivano insostenibili, e verso
"la maggioranza", che detestò sempre. E’ significativo che l’ultima
canzone del suo ultimo album in studio (la già citata Smisurata
Preghiera, tratta dallo splendido Anime Salve) recitasse: "Per chi
viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di
speciale disperazione, e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi
passi, per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità, di
verità … Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del
branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena
giusto che la fortuna li aiuti".
Suicidi, carcerati, sconfitti:
questi erano i suoi eroi. Uomini e donne sempre e comunque veri, non
privi di difetti. Ma non si pensi che in De Andrè questo essere vicino
al "diverso" fosse frutto della snobistica inclinazione
dell’intellettuale. Era nato ricco, ma fin da ragazzo aveva fatto la sua
scelta: la sua era la Genova dei bordelli, degli artisti, dei perdenti.
E dei poeti-cantautori. La frattura che volle creare con le sue "alte"
origini familiari era più di un vezzo adolescenziale: era una presa di
distanza esistenziale, prima che politica. Con la sua vicinanza agli
sconfitti riusciva a non esprimere semplicemente l’affinità
dell’intellettuale eccentrico, che alla fine non gratifica che se
stesso, ma soprattutto la restituzione della dignità a quei soggetti. E
alla fine quell’umanità perdente (che a molti provoca rabbia, paura, o
nella migliore delle ipotesi pietà) riusciva a muoverci verso un
sentimento più nobile e difficile: l’affinità umana.
"Ci vuole
troppo tempo per trovare gente con la quale vivere le mie idee e così me
le vivo da solo. Con una regola da osservare, e la osservo proprio
perché nessuno me l’ha imposta: l’anarchia non è un catechismo o un
decalogo, tanto meno un dogma; è uno stato d’animo, una categoria dello
spirito". Ci sono poche frasi che possono definire più compiutamente chi
era Fabrizio De Andrè. Perché per lui la rivolta degli ultimi anni 60 e
dei primi 70 prescindeva da ideologie precostituite: era la rivolta più
definitiva, anche se meno palese, dell’arte, della poesia e
dell’indipendenza intellettuale, che lui viveva con la convinzione che
potessero demolire la montagna di ipocrisia e ingiustizie che
seppellisce il mondo.
La sua distanza da rigidi schematismi
ideologici non fu mai figlia della volontà di non inquadrarsi. Al
contrario, in un’intervista televisiva recentemente ripresa nel dvd
“Sulla mia cattiva strada”, diretto da Teresa Marchesi, rivendicava con
forza il suo essersi sempre schierato e le sue radici libertarie. Anche
gli anarchici, con il rigore e la correttezza intellettuale che li
caratterizza, hanno sempre evitato di apporre un’etichetta su Faber,
ricordandone la reciproca simpatia e vicinanza ideale, l’afflato
libertario. Perchè la sua adesione all’anarchia, per quanto non
propriamente organica al movimento, era al tempo stesso tutt’altro che
superficiale o esterna: era un modo di vivere e di pensare, radicato nel
suo essere. Recentemente i compagni anarchici lo hanno ricordato con un
bel cd, Ed avevamo gli occhi troppo belli, contenente alcuni “parlati”
durante i concerti e un prezioso libretto a cura della redazione della
rivista “A”.
Molti e variegati sono gli omaggi che gli sono
stati o gli saranno dedicati in questo periodo. Oltre a quelli già
menzionati, ricordiamo la mostra al Palazzo Ducale di Genova
(organizzata da Comune di Genova, Fondazione per la Cultura e Fondazione
Fabrizio De André) e il volume a fumetti di Sergio Algozzino (Ballata
per Fabrizio De Andrè, editore Beccogiallo). Ma forse l’omaggio più
appropriato è continuare ad ascoltare, semplicemente e fino in fondo, le
sue canzoni, cercando di trasformare il mondo in un posto migliore.
Francesco “Baro” Barilli
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